sabato 30 dicembre 2017

La musica favorita del 2017

SZA (USA) - Crtl - TDE Records - Genere: R&B, Pop, Hip Hop




!!! (USA) - Shake The Shudder - Warp Records - Genere: Dance-Punk, Indie Rock, Funk




Bonobo (GB) - Migration - Ninja Tune Records - Genere: Electronica, Downtempo, Art Rock, Deep House




Kelela (USA) - Take Me Apart - Warp Records - Genere: R&B, Electronica, Pop





Menzione per i lavori di: King Krule, Sharon Jones, Fever Ray, Broken Social Scene, Thundercat, Big Thief, Kaitlyn Aurelia Smith.



giovedì 21 dicembre 2017

Zac Mex


mercoledì 13 dicembre 2017

Zacatecas

Zacatecas alle ore 12 è un fiume di gente.

Scendo dal viaggio da nord saturo di panorami essenziali, disabitati, costituiti da montagne e pascoli, da un cielo sazio di sole. Persone con camicie a quadri, jeans, stivali e cappelli da cowboy. L'estetica western tradotta e sussunta negli aridi altopiani della Sierra Madre.
Esco e respiro con pienezza l'aria del luogo. Inspirando la brezza fresca e, al contempo, esalando l'atmosfera che congiunge rétro con piccole frange di contemporaneo messa insieme nel tragitto da Durango, non posso che gioire del mondo. Zacatecas è laggiù nella conca. Una perla custodita nella sua valva.
Fuori dal terminal un taxista mi chiede se voglio un passaggio. Gli sorrido e gli chiedo invece dove passa il pullman urbano che porta alla città. Mi risponde con gentilezza.

Il bus numero 8 si insinua lentamente nella Silver Town patrimonio dell'UNESCO. Zacatecas alle ore 12 è un fiume di gente. Palazzi ben conservati in stile europeo, case coloniali, hotel e negozi con le insegne scritte rigorosamente sui muri frontali. Chiese e piccoli giardini verdeggianti. Turisti locali, indigeni e curiosi. Gli ambulanti vendono frutta e verdura, empanadas e gorditas, bevande fresche dai colori sgargianti.
La città è circondata da colline di rocce e vegetazione rada. Tra loro spicca il cerro de la Bufa dove in passato abitavano gli indiani zacatecos, ora sede di un osservatorio e di un santuario. La storia della conquista continua a reiterarsi.  
Mi fermo in quella che pare sia la zona più centrale della città. Il traffico serpeggia lentamente per le vie strette. Clima perfetto. Mi godo l'atmosfera che si dilegua tra strade anguste in pendenza.

Un negoziante mi indica un hostal economico situato in una via tranquilla. "E' l'unico nel centro, ed è buono", aggiunge. Entro. Una signora mi mostra la stanza con bagno e acqua calda. Quasi un lusso. 250 pesos scontata.
Una delle più belle città del centro-nord del Messico è lì, fuori.

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martedì 28 novembre 2017

Sierra Madre Occidental


venerdì 17 novembre 2017

Hidalgo del Parral

Se ora sento di essere arrivato ad una svolta della vita, non è per ciò che ho guadagnato, ma per ciò che ho perduto.
A. Camus

Arrivo a Parral in un pomeriggio caldo e senza vento. La stazione degli autobus regionali è una vetrina situata in una strada qualunque della città e la sua sala d'aspetto tracima nell'entrata di un hotel ad ore. Chiedo alla signora della ricezione se il prefisso telefonico scritto sul vecchio biglietto aereo corrisponde alla località. Lei annuisce, offrendomi una chiamata dal suo cellulare.
Timoteo arriva quasi subito con il pick-up. La sacra domenica mi introduce nell'ambiente familiare radunato attorno ad una parrilla, al riparo dal sole bruciante di Chihuahua.
Sono giorni che assumo poche proteine e la grigliata nella casa di Timoteo è davvero provvidenziale. Birra, agua de jamaica fatta in casa, carne, patate e molte pietanze portate dai parenti.
Mentre Timoteo mette musica elettronica europea, la famiglia allargata mi pone domande alle quali non sempre riesco a rispondere. Cosa. Dove. Chi. 
Un figlio arriva dopo il lavoro in un ristorante. E' stanco ed accaldato. Mi racconta che ha studiato scuola alberghiera proprio a La Paz, Baja, dove ho conosciuto il padre. Cerco di bere poco. La madre di Timoteo infine serve nieve de limón per tutti.

Quando il sole si rifugia dietro colline lontane ed i parenti cominciano a diminuire, Timoteo mi porta a fare un giro per la città. "Vedi, questa è la strada dove hanno ucciso Pancho Villa", mi spiega. "Questa è la cattedrale, il municipio, il fiume".
Il buio è rischiarato dalle luci dei lampioni e dei palazzi, dai fari delle auto che carosellano compulsivamente attorno le vie centrali.
"Dove ti porto?", chiede infine il mio ospite.
"Alla stazione degli autobus interstatali", rispondo.

Una notte senza sonno, con il tempo immobile, in un terminal dove arriva e parte gente. Dove anime, famiglie, parenti, si lasciano senza sapere se mai si rivedranno. La separazione, la perdita sono i momenti più strazianti che contraddistinguono gli umani.

E' l'una e venti precisa quando parto verso il sud, Durango. 555 pesos. Al salire gli addetti della sicurezza ci riprendono con una telecamera e perquisiscono il bagaglio a mano.
Il primo di tanti viaggi notturni nelle praterie del Messico.
  
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venerdì 27 ottobre 2017


venerdì 13 ottobre 2017

Scendendo la Sierra Madre

Le cose avanzano troppo velocemente. Non riesco a metabolizzare tutto nonostante la mia identità si faccia sempre più minuta per far spazio al mondo che entra.
Sono a Guachochi, 2400 m. Ancora per poco in cima alla Sierra Madre. 

Il viaggio da Creel a Guachochi è stato spettacolare: strade intricate, pareti rocciose chiare che terminavano in canyon profondi, boschi di aghifoglie, querce e cespugli. Sole. Nell'autobus salivano e scendevano indiani Tarahumara timidi e gentili, sovente vestiti con abiti tradizionali. Gli uomini portano una tunica bianca di cotone che arriva alle ginocchia, maglioni o casacche colorate, una fascia attorno alla testa e gli immancabili sandali sottili legati alle caviglie. Pochissime auto, pochissima popolazione. Cominciavo a scoprire l'immenso Nord.

A Guachochi mi dirigo verso una minuscola e anonima stazione degli autobus. "Quando parte il primo mezzo per Parral?", chiedo alla signora della biglietteria. "Tra mezz'ora. Sì, solo seconda classe". La biglietteria/sala d'aspetto è piena di persone, valigie, pacchi con indirizzi di luoghi sconosciuti scritti a mano. Sulle pareti sono attaccati due poster sbiaditi raffiguranti i Copper Canyon.
Salgo sul bus diretto a Hidalgo del Parral ancora a stomaco vuoto. Questa sera nella città dove è stato ucciso Francisco "Pancho" Villa mi aspetta Timoteo con la sua parrilla domenicale.

La carretera estatal 23 scende, e discendendo un fluido caldo e denso entra dai finestrini. Ogni chilometro di strada che scorre sotto di me vede l'inesorabile, progressivo avvicinamento alla zona semidesertica: tra alberi spinosi, tra i cespi dove a volte si attaccano rifiuti di plastica, sorgono estesi pascoli d'erba rinsecchita che dovrebbero mangiare animali invisibili. Pali di legno congiunti dal filo spinato. Colline e montagne sagomate dal vento definiscono la cornice del paesaggio.
La strada continua a scorrere.



martedì 26 settembre 2017

La Sierra Tarahumara


venerdì 8 settembre 2017

Nella Valle de los Monjes, Chihuahua

Qualcosa sale dal petto per arrivare alla mente, inondando profondamente i circuiti sensitivi. Fragilità e stanchezza, tenacità, sospiri. Eccitazione.
Ancora una volta libero, ampiamente gratificato dall'escursione nella terra amministrata dagli indiani Tarahumara. Manca poco.
Manca poco per raggiungere la valle dei Monaci. Le gambe mi hanno trasportato lungo almeno quattro chilometri di piste sterrate in mezzo a boschi di pini e querce, passando per leggeri avvallamenti e fattorie silenziose. Nuvole raminghe senza pioggia saettano nel cielo dell'alta sierra Tarahumara.

L'altopiano si restringe quando entra en el Valle de los Monjes. Nella vasta area dove risiedono i canyon più possenti che esitano, s'incontra una angusta conca che racchiude rocce molto particolari, dove antiche leggende hanno ricamato storie misteriose.

Passo ancora una volta un posto di controllo incustodito e, dopo alcuni passi, tra conifere americane che infilzano radici nella pietra lattescente, compaiono giganteschi obelischi di roccia.
Secondo le mitologie essi sono monaci tramutati in roccia o antichissime sculture modellate quando la pietra era ancora morbida. Non dico come gli indiani chiamano questa zona piena di virgulti che s'innalzano verso l'alto.
Sicuro è che le rocce sedimentarie e calcaree hanno permesso agli agenti atmosferici di plasmare con grazia pilastri naturali.

Cammino insinuandomi tra rocce sopra basamenti bianchi resi lisci dall'erosione. Vago tra monoliti o gruppi concatenati dalle morfologie più disparate: piramidi e picchi aguzzi, a forma di testa o di fungo, dita che indicano qualcosa, lineamenti antropomorfi. Solchi perfetti nella pietra, anse, curve, rotondità.

La fantasia gioca con il tempo mentre rischio di perdermi tra rocce della Valle de los Monjes. Ad un tratto giungo in un punto dove domino la conca e parte dell'altopiano che supera i 2300 metri di altitudine. Colline, montagne dalle rocce stratificate, buchi dove si infossano canyon, alberi dalle foglie chiare e pascoli richiedenti acqua. Panorami autenticamente nordamericani.

Sono triste perché il ritorno chiama. Ancora nove chilometri di pista nel territorio indigeno, guidato dal sole e dalla polvere di terra.

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Territorio autonomo Tarahumara




mercoledì 23 agosto 2017

Indiano Tarahumara


venerdì 11 agosto 2017

Camminando verso la chiesa indigena di San Ignacio


L'autobus mi lascia ai bordi del territorio indigeno. Passo indisturbato il posto di controllo. E' presto. Costeggio il lago Arareko, addentrandomi nel distretto autonomo degli indiani Tarahumara.
La giornata inizia nel migliore dei modi: il lago contornato da grandi boschi di conifere, i sentieri d'erba e aghi di pino, scoiattoli che si rincorrono attraverso acrobazie. Nessuno in giro.
Sono a pochi chilometri da Creel, Chihuahua. L'obiettivo di oggi è raggiungere la chiesa indigena di San Ignacio, il santo preferito.

Dopo aver passato un'area attrezzata per i visitatori, incontro un uomo che mi conferma l'esistenza di una scorciatoia per raggiungere San Ignacio.
Ad un certo punto il bosco di pini e querce si apre, lasciando spazio ad alcune fattorie attorniate da prati che attendono pioggia. La strada sterrata mi porta verso uno di questi casolari. Domando dove passa il sentiero a delle signore intente ad accudire gli animali. Una non capisce, l'altra mi indica una direzione vaga oltre la fattoria. Cani da guardia corrono verso di me ma vengono richiamati dalla donna.
Risalgo un dolce crinale boscoso composto da rocce calcaree e, oltre una nascosta zona di abbandono dei rifiuti, domino l'avvallamento successivo.
Il panorama montano è rappresentato da animali al pascolo, colline, foreste, qualche fattoria. Illuminate dal sole in lontananza si delineano bastioni di rocce modellate dal tempo. La stessa pietra morbida che forma i Copper canyon o Barrancas del Cobre.

La valle successiva è quella che racchiude la piccola comunita' indigena di S. Ignacio. Alcune case, una scuola, cimitero, un campo sportivo coperto. Ma è la chiesa la vera perla. Nelle squadrate pietre chiare che costituiscono la struttura, le arcate semplici, nella sua frugalita' inalo tutta l'essenza del nord del Messico rurale.
Incorniciata dalla limpidita' del cielo d'America, vedo immagini di un territorio scarno che ci hanno fatto conoscere le pellicole, ma anche le storie del declino indigeno, la religione, il sincretismo.
Entro nel luogo di culto che presenta diverse scritte in lingua indiana. Un Gesù dai tratti autoctoni.

Fuori il sole arde. La strada per tornare a Creel è tutta da definire.

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lunedì 24 luglio 2017

I canyon visti dalla ferrovia Chihuahua-Pacífico

Appena seduto sulla poltrona del treno sopraggiunge un forte attacco di sonno. Non posso dormire ora che inizia uno dei percorsi su rotaia piu' mozzafiato che esistano. Tiro fuori una bevanda dal leggero contenuto eccitante e quasi subito mi sembra di star meglio. Grazie Bernie per il dono.

Tutto ha inizio la giornata precedente: il ferry che dalla Bassa California conduce a Topolobampo, con le magnifiche coste della penisola californiana viste dal mare, il passaggio fino alla stazione di Los Mochis, la notte, le zanzare e la coda per acquistare il passaggio. Il primo della fila, il primo a possedere un biglietto per Posada Barrancas.

Il treno con l'aria condizionata si arrampica lentamente. Prima i campi coltivati stranamente verdi, il fiume, le colline in avvicinamento. Il panorama iniziale e' piuttosto desolante: rifiuti abbandonati, fattorie e case disperse nel nulla, animali che vagano tra cespugli spinosi e cactus alla difficile ricerca di nutrimento. Auto di vecchia fabbricazione statunitense coperte dalla ruggine e dalla polvere.
Sopra i 700 metri, e dopo aver passato le prime gallerie, aumenta il verde, l'umidita' e l'altezza degli alberi. Le vallate diventano gole profonde dove in basso scorre qualche filo d'acqua residua. Sono mesi che non piove.

Il treno che porta in alto passando per i Copper Canyon o Barrancas del Cobre effettua le prime fermate. Controllori compassati in perfetta uniforme assegnano posti rigorosamente a sedere. Il mio vagone di seconda classe è praticamente pieno.

Da un alto ponte a forma di arco domino un lago artificiale lungo e stretto. Sulle sue sponde ci sono coltivazioni di ortaggi.
Nelle curve piu' acrobatiche vedo la motrice sbuffare fumo grigio e le successive carrozze. Entriamo in un nuovo tunnel, e, improvvisamente, all'uscita il paesaggio muta ancora. Scompare la foschia e arrivano deliziosi boschi di sempreverdi. Siamo a 1500 metri, l'inizio di un altopiano che, nelle sue scarse morfologie, seguiro' per migliaia di chilometri verso sud.


In prossimita' della mia meta si cominciano a vedere conformazioni rocciose stratificate che precipitano in valli strette e oscure. E' iniziata una delle aree piu' estese al mondo per quantita' e qualita' dei canyon.
Il controllore mi avvisa che la prossima fermata è Posada Barrancas. 2200 metri. Scendo dal treno nella piccola stazione montana. L'aria odora di conifere ed il sole è forte. Dopo molte ore di viaggio senza dormire sono a Copper canyon. Gli occhi salutano il treno che riparte. 

venerdì 7 luglio 2017

La riserva marina di Cabo Pulmo, Baja California

 

Alzo gli occhi dalla sabbia fresca del mattino e mi trovo davanti le rocce marroni che definiscono la spiaggia, l'erba morta, i cespugli, i cactus e, ancora una volta, mi sembra tutto nuovo. E' la luce nuova del mattino o un'altra rinascita?
Quello di cui sono certo è che mi trovo nella playa Los Arbolitos, parco marino di Cabo Pulmo, nell'estremo sud dell'infinita penisola californiana. 

Ieri una coppia di messicani che vivono a Sacramento, USA, mi hanno portato fino a qui. Ho affittato una piccola tenda verde e l'ho distesa sulla sabbia, sotto un ombrellone di foglie di palma. Non contenti di avermi offerto un passaggio da La Ribera, i due messicani mi hanno dato dell'acqua ed un  paio di asciugamani come giaciglio notturno. Poi sono tonati a San José.

Tutta la riserva marina di Cabo Pulmo ha qualcosa di di speciale, mai visto. L'austero deserto si congiunge con il fertile mare di Cortéz. Strade sterrate mostrano decine di insenature segrete e ampie baie, spiagge con cristallina acqua tropicale liberate dalle convenzionali palme da cocco. Notti liberate dal caldo umido, con temperature che salgono e scendono molto velocemente. 
Identita' mutanti, nuove esistenze, sotto la potenza del viaggio e dell'incontro.

Quando il sole senza nuvole comincia a scaldare, prendo il sentiero che segue la costa. Roccia, sassi, sabbia ed il mare calmo. La terra trasuda calore. Compio un paio di chilometri, quindi scendo verso una piccola insenatura. Rapaci ed uccelli marini giocano il vento che viene dall'oceano Pacifico. L'acqua sembra piu' calda del solito. Lego le infradito alla fettuccia dei calzoncini e mi immergo nel liquido dal quale tutti veniamo seguendo la barriera corallina che riporta a Los Arbolitos.

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martedì 27 giugno 2017

Le insenature di corallo vicino a La Paz

Dei pescatori con la barca a traino mi accompagnano fino alla spiaggia di Pichilingue.
Con l'odore forte dell'aria marina e abbagliato dal deserto della Bassa California torno sulla strada per chiedere un altro passaggio.
Arrivo a Telocote presto, e subito vengo ammaliato dalla sua lunga striscia di sabbia fustigata dal vento di sud-ovest. Non c'e' nessuno. Il mare trasparente porta gli occhi alla dirimpettaia isola Espíritu Santo costituita da rocce color crema e da qualche lingua di sabbia.

Dopo le dieci, quando la temperatura comincia ad alzarsi seriamente, decido di raggiungere playa Balandra. Il sentiero sale per una collina di pietre, rocce e terra rossastra.
E qui, per la prima volta, respiro il deserto. Dai sassi che quasi non conoscono l'acqua, sale un caldo profumato di erba secca subito spazzato via dal vento benedetto. Cespugli dormienti senza foglie fanno compagnia ai cactus che tutti, nell'immaginario collettivo, consideriamo i cactus ideali: cilindrici, regolari, molto alti, perfetti, con qualche ramo laterale che cresce ad "U" o a "J". Meglio quelli ad U, obvio.

Al termine della collina domino un'insenatura. Forse si tratta di un peduncolo isolato della frequentata spiaggia Balandra, forse è un'altra. Scendo verso il mare e, oltrepassata una duna che protegge l'entroterra, sono arrivato. Siamo in quattro: io, un gabbiano ed una coppia di uccelli marini dal becco rosso, gli ostreros, gia' conosciuti in mari lontani del continente americano.
Cosa fare? Maschera, boccaglio e incontrare qualche trigger o angelfish tra le rocce coralline, tornando nel fluido primordiale. Il corpo accaldato esprime gioia ed imbarazzo quando si immerge nell'acqua che non supera i 25 gradi di temperatura. 
L'acqua del pacifico mar di Cortéz.






lunedì 12 giugno 2017

Il viaggio inizia

Con l'avanzare delle ore la foschia copre le montagne lontane. L'aereo vira su una Città del Messico che non finisce mai: strade, case, qualche parco, campi da calcio, le tende plastificate dei mercati rionali. Case-case-inquinamento-persone.
Oltre la capitale vedo montagne aride solcate da torrenti che talvolta si riempiono d'acqua. Proseguendo verso nord la cordillera si arricchisce  di alberi e qualche lago. Passo sopra uno di questi, molto grande e poco profondo. Piu' a ovest gli occhi raggiungono un paio di montagne alte semicoperte dalle nuvole. Il cratere di un vulcano spento dove si raccoglie un laghetto. Boschi che bruciano.

Ad un certo punto tocchiamo la costa pacifica: prima verde, poi una striscia regolare di sabbia, quindi le onde vigorose dell'oceano.

Il peduncolo della Bassa California arriva all'improvviso, di soppiatto. Anche da qui, dall'alto, si capisce che il mare, la costa, l'entroterra della California che guarda il mare di Cortéz possiede qualcosa di unico, straordinario. L'aereo scende verso La Paz. Prima di arrivarci viriamo attorno ad una lingua di terra che si protende verso est e poi a nord. In essa sono contenute piccole insenature. Il mare è verde, calmo, deserto. L'acqua di cristallo permette di vedere la sabbia chiara sottostante, le rocce marine e forse coralli. Montagne aride di pietre rossastre e gialle si gettano sul mare. Atterro a La Paz, Bassa California del sud.
Il viaggio inizia.




mercoledì 31 maggio 2017

Il punto panoramico speciale sul Ladakh

Nella strada che collega Leh a Manali esistono diversi paesi dai quali si possono compiere interessanti percorsi. Uno di questi è Lhato (o Lato), 3900 metri. Qui ho conosciuto Greg, uno statunitense quarantenne che passa il suo tempo tra il Ladakh, il Nepal e Boulder, Colorado. Ottima persona.

Sono due mesi che mi trovo ad altitudini che superano 3000 metri. Questa mattina voglio raggiungere un punto panoramico dal quale spero di ammirare i 6000 che guardano verso ovest. Seguo l'impetuoso torrente che permette di irrigare buona parte del paese di Lhato. Esso subito si infossa tra pareti solcate da venature multicolore di rocce purpuree, massi levigati dal tempo e cespugli.
Come spiegava Greg, dapprima il sentiero segue la parte sinistra del corso d'acqua, poi si arriva ad un punto dove bisogna attraversare: il caldo dell'estate himalayana ha però ingrossato troppo il fiume. Decido di prendere una traccia di sentiero senza guadare, quindi salire ad intuito tenendomi alto rispetto ad alcuni affossamenti sottostanti, senza perdere di vista la meta e la via del ritorno. Sopravvivono all'inclemenza del sole e del secco solo alcuni ciuffi d'erba morente e piccoli fiori gialli. In alto vedo diversi avvoltoi, e poco dopo faccio scappare una lepre che si mimetizza perfettamente nell'ambiente. Fortunatamente lo strato di nuvole mattutino sale verso l'alto, oltre le cime.


A quota 4500 il panorama si apre decisamente: sono arrivato su un costone morenico che divide due conche importanti che danno vita a differenti corsi d'acqua. Sulla sinistra domino una valle lunga che termina con qualcosa di grande in direzione ovest; sempre in quella zona ma separati dall'antica morena, svetta un picco aguzzo colmo di neve. Proseguo ancora nella totale solitudine, tra fioriture di stelle alpine.   

Sono tre ore e mezzo che cammino, trovandomi ora in perfetto equilibrio tra due pendici, in bilico sulla costa di monte che fraziona due splendide valli del Ladakh splendido. Sopra volteggiano gli avvoltoi, mentre da ancora più in alto cadono innocui atomi d'acqua ghiacciata. Sono in maniche corte.
Mi trovo a 4940 metri, e da qui riesco a dominare mezzo mondo: montagne, vette, crepacci, ghiaccio sono attorno e sopra di me. A est piove o nevica, a nord si vedono solo cime basse, invece a sud e a ovest apprezzo le catene più significative.
Le valli sottostanti portano verso due strisce lunghe di ghiacciai parzialmente celati dalla non rettilineità delle conche. Fotografo diverse volte il maestoso picco aguzzo che probabilmente porta il nome di KY III.

E' il mio posto speciale. Trovato così. Rimango immobile nel vento che alterna macchie di sole a gocce di ghiaccio che si annientano nel terreno arido.
Sotto, in basso, puntini neri pascolano nelle vicinanze dei torrenti. Yak. 
 
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venerdì 26 maggio 2017

Sulla strada Leh-Manali


venerdì 12 maggio 2017

Khardung La, il passo carrozzabile più alto del mondo

L'alba a Leh è arrivata un'altra volta. Il sole scavalca piano le cime aride che coronano la città. Lascio la guest house dopo le 6. Alla mia destra domina Lui, il palazzo di Leh, con i suoi monasteri. L'aria fresca è senza vento.
In dieci minuti sono a Polo Ground diventato un polveroso parcheggio che odora di orina. Le jeep collettive che vanno per la Nubra valley si trovano appena all'entrata del parcheggio. Una famiglia di post-hippies francese aspetta altri tre passeggeri per partire. Dopo aver scambiato una frase con il conducente e salutato i francesi, poso lo zaino in attesa di altre due anime viaggianti che non arriveranno.

Attorno a me la strada brulica di uomini bassi dalla pelle scura provenienti da stati più meridionali. Le loro chiacchiere animate sono intervallate dall'aspirazione di sigarette e da sputi catarrosi. La maggioranza di questi giovani uomini in attesa di essere caricati sui camion per lavori giornalieri dimostra venti anni in più. Scuolabus, mezzi pesanti che rigurgitano fumo nero, minivan, le jeep dei viaggi organizzati passano strombazzando come da protocollo.
    
Dopo quasi due ore partiamo. Subito la jeep si inerpica per salite e tornanti, arrivando a dominare completamente la città di Leh, capitale del Regno Alto, Maestoso, del Ladakh. Appena oltre la sua conca verdeggiante di pioppi dai quali fioriscono dorati stupa, il secco, la polvere, l'austera aridità prevale su tutto. Verso sud, oltre la valle dell'Indo, troneggiano cime di 6000 metri dai ghiacciai perenni. Presto veniamo inghiottiti da colline monocolore che solo raramente consentono la visione lunga verso meridione.

Passato South Pullu la strada continua ad essere asfaltata, ma ancora per poco. Una valle stretta terminante con un ghiacciaio si apre davanti a noi. Alcune cime vicine vengono offuscate dalle nuvole.

Appena passate alcune strisce di bandierine buddiste che donano i loro mantra di pace al vento, osservo l'altimetro che segna la cifra spettacolare di... 4999 metri: scatto una foto con l'orologio, il braccio abbronzato punteggiato da pelle d'oca e la pista deserta che sale verso il passo più alto che esista. Dove ci porta la strada? Oltre l'immaginabile, oltre la lingua del ghiacciaio che guarda a nord, nelle nuvole del cielo dell'Asia centrale.

Giunti al passo Khardung, 5359 m, io e i francesi siamo un pelino emozionati. La jeep Tata si ferma e usciamo a respirare l'aria povera di ossigeno ma ricca di tutto quello che può gratificare una solitaria anima errante. Grazie. 

Grazie per le visioni ultraterrene di montagne lunari solcate da vestigia di torrenti antichi, delle rocce e la polvere che prosciugano microscopiche porzioni di verde resistente, grazie per le vette innevate a sud che guardano verso la Zanskar valley, gioiello sconosciuto di tutti i fiori di Loto.
Grazie alle nuvole che occludono parzialmente la vista a nord ed a est, in modo tale che la mente possa fantasticare sulle cime di 7000 e 8000 metri che proprio in quei luoghi si elevano.






giovedì 27 aprile 2017

Visioni dal monastero Karsha


venerdì 14 aprile 2017

Struttura di un'orazione. Karsha monastery

Gli scalini di pietra non terminano mai. Atomi di quiete salgono con me verso l'alto. Centoventi metri di dislivello per raggiungere la sala della preghiera. La prima puja a Karsha.
Nel frattempo la valle Zanskar e le sue montagne himalayane a sud si illuminano del crepuscolo. Il corno suona la seconda volta nel cielo, a 3680 metri di altitudine.
 
Siedo in fondo, sul tappeto. Davanti a me uno stretto tavolino. I monaci si prostrano a terra, recitando suoni mantrici; i loro abiti purpurei aleggiano sul consumato pavimento di legno, sollevando minute particelle di polvere.  La prima luce del giorno si mischia a quelle elettriche che illuminano il monastero più antico della valle Zanskar.
Una volta tutti seduti, i monaci bambini cominciano a distribuire tè con latte attraverso grosse teiere di alluminio. Mi fanno avere una tazza mentre piedi piccoli sgambettano veloci nella sala. Inizia la preghiera. Lamenti e litanie inondano l'ambiente, guidate da un monaco anziano che dirige le letture. Tonalità basse si mischiano a quelle mormoranti ed acute dei bambini. Fuori gli uccelli cantano lodi al giorno nuovo.

La sala dalle colonne di legno è attorniata da affreschi murari, da scaffali dorati contenenti immagini del Buddha e rotoli di pergamena di antiche preghiere. In mezzo al locale si leva in alto una gigante figura di Buddha, la cui testa si innalza verso una cupola vetrata superiore.
Ad un certo punto l'orazione si ferma, arriva il tè al burro salato, ed un giovane comincia a mostrare alcuni oggetti e denari provenienti da donazioni, leggendo in seguito alcuni annunci.
Ricomincia la puja. Sali, vola, espandi il mantra primigenio: Om MaNi Padme Hum.
Con il sapore di burro sulle labbra cerco me stesso con disincantata intensità, partecipando all'orazione collettiva. I monaci muovono lentamente il proprio tronco avanti ed indietro. Qualcuno suona campanelle tibetane ed una percussione. Teiere fumanti continuano a girare nel monastero per congedare il fresco del primo mattino.
Il monaco bambino accanto mi offre due biscotti. Il vero gioiello del fiore di Loto.

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venerdì 24 marzo 2017

Il mondo celeste: Zanskar Valley

Tutti gli elementi hanno un'esatta partizione, una linea manichea che suddivide in due il cosmo. Bianco e nero, marrone e azzurro.
Nella valle Zanskar la linea di divisione è perfetta: le rocce ed i picchi sono confine ultimo con l'altra metà del colore. Quando l'acqua dei ghiacciai non tinge di verde il suolo, oppure nuvole o neve chiazzano di bianco il cielo, le pupille vedono solo il blu dell'aria ed il marrone stinto della terra.

Da Padum, 3500 m, con i motociclisti di Hyderabad ci dirigiamo verso un altro monastero. Abbiamo da poco visitato il vetusto convento di Karsha e ora le moto ci conducono verso nord. Polvere, vento, sole, secco. Il silenzio dilaniato dal rumore delle Royal Enfield.
I monasteri dominano questa terra dai due colori, isolata da tutto quello che la circonda per sette mesi invernali. Adesso, estate, i suoi abitanti si dedicano a fare rifornimento per la prossima stagione fredda. Un mondo celeste dove la prima città si trova a dieci ore di jeep, dopo aver scavalcato Pensi La, 4400 m.

Dietro a Indra intento a guidare, posso immergermi completamente in questi panorami desertici di terre alte ed austere. La pista sterrata continua all'infinito, mentre ai lati appaiono valli e stupa colorati di bianco. Le rocce lamellari delle montagne sono attraversate da tessiture complesse nella forma e nei colori.

Lentamente la valle si chiude, costringendo la strada a costeggiare il fiume Zanskar, impetuoso e carico di limo castano. Un ponte tibetano adornato da bandierine buddiste lo attraversa. Ci fermiamo.

Il monastero di Zangla si trova su un costone arido di roccia, attorniato da monti franosi. Se non fosse per gli stupa chiari sarebbe quasi invisibile. Saliamo diversi tornanti e ci troviamo a dominare contemporaneamente verso sud la valle di Padum e le vestigia del convento abbandonato. Il panorama è stupefacente. Sulla sinistra, quasi all'imbocco di una valle deserta, il crinale roccioso riserva una via crucis ascendente ricca di simboli e manufatti buddisti. In cima allo sperone si eleva un tozzo edificio. La conca dove risiede Padum è coronata dalle vette e catene del Grande Himalaya.
Camminiamo verso il culmine del monastero Zangla con il fiato corto, nella solitudine totale. Salgo veloce tra i dirupi del luogo disabitato. L'aria porta odore di erba secca. Respiro forte polvere e vento.   
     
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giovedì 9 marzo 2017

Zanskar Valley


martedì 28 febbraio 2017

Le nuvole tra l'Himalaya e Zanskar

La mattina un lieve strato di brina copriva le selle delle moto. Col sorgere del sole si sono librate in volo migliaia di zanzare assetate del nostro sangue alcolico. Più in là cuccioli di yak raspavano erba irrigata dall'acqua dei ghiacciai. Il cielo è limpido come a 3700 metri può esserlo.
Seconda tappa nella Suru valley, circondati dalle catene montagnose più alte che esistano. Noi cinque, un monastero, due villaggi e l'austerità del paesaggio per centinaia di chilometri. Nient'altro.

Con le Royal Enfield dei motociclisti di Hyderabad ripartiamo verso l'alto, in direzione della valle Zanskar. In una spianata dove almeno due conche si congiungono, passiamo sotto il massiccio monastero di Rangdum, aggruppato su una collina al riparo dalle piene dei fiumi.  

Lo splendore della strada, l'infinita lunghezza della valle Suru, rimuovono disagi quali il percorso dissestato, i torrenti da guadare e la polvere chiara che copre ogni nostro lembo di corpo.
La temperatura del primo mattino è bassa, ma il sole ed il sangue errante sono ardenti.

La pista sterrata taglia la montagna appena sopra il verde del letto del fiume dove spuntano marmotte al pascolo. Valli sconosciute si aprono ancora alla nostra destra, consentendo di raggiungere con la vista ghiacciai di montagne himalayane nominate semplicemente con lettere e numeri.
Per arrivare al passo Pensi (La) le moto devono seguire una serie di tornanti. Nessuno nella strada, tranne due jeep ed un motociclista con le bandierine buddiste attaccate al manubrio. Un grosso rapace volteggia in alto.

Infine raggiungiamo Pensi La, 4400 metri. I laghi stranamente placidi che giacciono un questo piccolo altopiano sono contornati da erba, fiori, pietraie e picchi appuntiti. Poche centinaia di metri e dominiamo il plateau semidesertico dove inizia la Zanskar valley. Una strada bianca serpeggia verso l'infinito, quando la conca stretta nasconde il suo destino.
Sulla destra i nostri occhi vengono incantati dal ghiacciaio Drang Drung: chilometri e chilometri di acqua allo stato solido sporcata dal pietrisco grigio della morena. Impossibile vedere fin dove si insinua la biscia di ghiaccio, vegliata da cime inespugnabili catalogate con nomi enigmatici come Z8 e Z3.

Abbiamo compiuto solo 25 chilometri da Rangdum e ne rimangono quasi un centinaio alla nostra meta giornaliera, Padum, capitale dello Zanskar.

Le nuvole scivolano verso nord est, dall'Himalaya alle montagne dello Zanskar. Le ruote delle Royal Enfield cercano di seguirle, infilandosi nel groviglio di tornanti vertiginosi.

martedì 14 febbraio 2017

Verso Pensi La, Suru Valley



martedì 31 gennaio 2017

La Suru Valley su due ruote

Il Ladakh è un altro pianeta. Ieri sono entrato in questa terra inconsapevole dell'imminente blocco della frontiera tra il Kashmir ed il resto del mondo. Con il camion di Chow siamo passati per Kargil e risalito un poco la Suru valley guidati da un crepuscolo ormai in cenere che tracciava i bordi delle montagne ad ovest.  

La mattina seguente, salutando con riconoscenza Chow, dalla caserma dove abbiamo svuotato il carico del camion, un paio di giovani militari hindu si prendono cura del sottoscritto: "Devi salire la valle verso Zanskar? Bene, ci pensiamo noi", dicono con fervore. Uno di loro che ha da poco smontato la guardia si piazza in mezzo alla strada e comincia a fermare i non frequenti mezzi che si dirigono a sud. Li ferma tutti. Anche le moto.
Un ragazzo facente parte di un gruppo di motociclisti provenienti da Delhi parla con il militare, poi si rivolge a me: "Dove vai?". "Vado in su".

Così, dai piedi di quella valle tanto diversa rispetto al Kashmir, quattro giovani di Hyderabad a cavallo di tre Royal Enfield 350 diventeranno traghettatori per centinaia di chilometri sulle strade selvagge tra la catena dell'Himalaya e quella dello Zanskar. Con panorami tra i più belli mai visti.

Nei dintorni di Panikhar, 3250 m, siamo obbligati a fermarci. Il fiume Suru si allarga, consentendo ampie aree dedicate all'agricoltura. Ma è di fronte a noi, verso sud-est, il vero motivo per cui facciamo sosta: la valle si apre lasciando spazio ad una massa inverosimile di roccia e ghiaccio. In alto, oltre l'azzurro, si elevano due picchi aguzzi ed una cima. Sono Kun e Nun, montagne sorelle che superano i 7000 metri. Le loro estremità sono percorse da una fascia di nuvole in continuo movimento ma immutabili nella loro forma, come bandiere saldamente aggrappate ad un'asta di granito.

In quel punto panoramico, a 70 chilometri da Kargil, conosco meglio i miei compagni di viaggio: sono quattro matti che lavorano nel campo delle nuove tecnologie che hanno deciso di girare il Kashmir e Ladakh partendo da Delhi. Hanno tenda, coperte e scorte di benzina. Salgo sulla moto di Indra e ripartiamo.

Dopo Panikhar la strada cessa di essere asfaltata, lasciando spazio alla terra battuta, ma è da Parkachik che il percorso diviene più difficoltoso. Da questo punto di ultimo ristoro ed accoglienza, dove il ghiacciaio delle montagne Kun e Nun si congiunge con il fiume Suru e dove comincia l'area ad influenza buddista, i panorami diventano imponenti.

I chilometri scivolano flemmaticamente sulle ruote delle Royal Enfield; dalla moto ho una visione completa di quello che mi scorre attorno. La catena del Kun-Nun ci accompagna ancora, fino a quando comincia la valle successiva. Infinite le possibilità. Oltre all'altitudine e l'assenza di abitazioni, la particolarità della valle Suru è costituita dalla sua morfologia: una conca stretta e lunghissima dalla quale dipartono valli ancora più anguste che terminano spesso con un ghiacciaio. E' proprio verso sud, ogni trenta-quaranta minuti di strada, che la catena dell'Himalaya continua ad offrire nuove cime mozzafiato. Così sarà per centinaia di chilometri fino a Padum, capitale dello Zanskar.  https://www.google.it/maps/@34.0596572,76.1462428,27542m/data=!3m1!1e3
                                                                             

Nel pomeriggio arriviamo al villaggio di Rangdum, 3700 m, accolti dagli stupa e dalle bandiere buddiste. Siamo impolverati, stanchi, con le scarpe bagnate dal guado di torrenti impetuosi che tracimavano nella strada. 130 chilometri da Kargil, e la Suru valley è ben lontana da essere finita.
Mentre Indra va a cercare nel villaggio qualcosa di alcolico per passare la serata, sagome tozze di yak pascolano in lontananza, illuminate dalla luce storta del giorno che discende.

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venerdì 13 gennaio 2017

Tra Kashmir e Ladakh


 
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