mercoledì 30 dicembre 2015

La musica favorita del 2015


Jono McCleery (GB) – Pagodes – If Music & Ninja Tune Records Genere: Indie, Folk




Floating Points (GB) – Elaenia – Luaka Bop / Pluto Records Genere: Electronic, Cinematic




 Björk  (IS) – Vulnicura – One Little Indian Records Genere: Experimental, Electronic, Art Pop




 Jon Hopkins (GB) – Late Night Tales – LateNightTales Records Genere: Electronic, Cinematic, Ambient




Kamasi Washington (USA) – The Epic – Brainfeeder Records Genere: Soul Jazz, Fusion




 Menzione per i lavori di: Hudson Mohawke, Alabama Shakes, Yppah, Neon Indian, Drake, Jamie xx e Alex G.

giovedì 24 dicembre 2015

Il vulcano Chimborazo

In poche ore sono passato dalle miti temperature di Baños alla nebulosa entrata del parco del Chimborazo. Da 1800 a 4300 metri. I guardiaparco mi suggeriscono di coprirmi.
A Riobamba ho improvvisamente deciso di prendere il bus che passa per l'entrata del vulcano più alto d'Ecuador. Nel mezzo di trasporto mi sono seduto accanto ad una guida che è scesa con me. Dice che oggi non sarà facile vedere la montagna.
In un ambiente silenzioso, lunare, spazzato da nuvole perenni e dal vento che le accompagna, mi registro, lascio lo zaino presso l'ufficio del parco, indosso la giacca a vento economica e faccio rifornimento d'acqua nei bagni. I guardiaparco annuiscono con la testa. "Non abbandonare il sentiero, ci si può perdere", ammoniscono. Non sono preoccupati per me, sanno che so.

Respiro nuvole e vento sulla strada brulla di ghiaia grigia, con rari ciuffi gialli d'erba e cespugli contorti verso il basso come unica vegetazione. Ogni tanto il panorama circoscritto si apre per qualche secondo facendo intravedere l'altopiano che declina bruscamente verso nord-ovest. Il percorso sale lentamente, attraversando dolci avvallamenti extraterrestri che rapidamente cambiano direzione. Passa qualche jeep, mischiando polvere di terra con polvere d'umido. Quando la motivazione di salire verso il nulla si affievolisce nel freddo, con una prospettiva indefinita di osservare qualcosa, nel silenzio assoluto,
davanti a me la nebbia si apre disvelando una longilinea sagoma di vigogna. Zampe sottili, collo lungo, manto superiore quasi rosso. Come in un pezzo onirico di Floating Points, la visione dell'animale dal comportamento composto e attento dura poco. La nebbia lo riassorbe presto.

Dopo aver preso una scorciatoia e riguadagnato la strada decido di fare autostop. Il primo pick-up non si ferma, il secondo sì. Sono due uomini sulla quarantina; uno meticcio e l'altro nero. Sarà per il loro modo di parlare, per il fatto che il nero ha l'accento straniero e perché sullo specchietto dell'auto portano un crocifisso che chiedo loro se solo cristiani. "Sì, siamo sacerdoti", rispondono.
Il prete ecuadoriano è parroco di un quartiere della città di Riobamba, il nero viene dal Congo ed è un missionario.


In un lampo siamo al primo rifugio a 4800 metri. Saliamo insieme a piedi verso la base del Chimborazo, la montagna con la cima più distante dal centro della Terra. La vegetazione è ormai quasi sparita lasciando pieno campo a terra rossa lavica e pietre smussate. A circa 5000 metri raggiungiamo il secondo rifugio. Qui incontriamo la neve. I due sacerdoti sono felici di poter mettere i piedi sulle chiazze di neve ventata e di toccarla. A tratti il vulcano di 6310 metri disvela porzioni di ghiaccio e roccia che salgono alte, oltre le nuvole.
Deve aver nevicato durante la notte. Nell'equatore d'America anche a 5000 metri la neve dura poche ore.

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giovedì 10 dicembre 2015

Alle soglie del Chimborazo (6310 m)

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venerdì 27 novembre 2015

La laguna di Quilotoa

Il raffreddore e la voce bassa li porto addosso da qualche giorno. Sono su un camion che lentamente mi accompagna alla laguna di Quilotoa. E' una delle tante mattine iniziate troppo presto.

Ieri ho chiesto a tre persone l'orario del bus per Quilotoa, tutte e tre mi hanno dato differenti orari. Per non sbagliare alle sei ero fuori dall'hostal, aspettando il mezzo pubblico nel freddo moderato di Zumbahua. Anita, la proprietaria dell'alloggio, mi faceva compagnia avvolta nel suo poncho chiaro. Il bus non è passato.
Si ferma un camionista e dice in quechua alla signora Anita che va a Quilotoa per una cifra tre volte superiore a quella del bus. No. Il camion aspetta, io pure. Alla fine conveniamo per un prezzo equo. Partiamo.

Passiamo per pianori coltivati e colline, salendo piano. Prima delle otto superiamo la sbarra d'entrata della località turistica che dovrebbe prevedere una tassa di entrata. Nessuno in giro. Fuori fa freddo e c'è vento. Altitudine 3850. Trovo una stanza, poso lo zaino, riempio la bottiglia d'acqua e sono pronto per esplorare uno dei siti più significativi dell'Ecuador.
Come per la laguna di Cuicocha http://travel-ontheroad.blogspot.it/2015/08/il-vulcano-cuicocha-sopra-otavalo.html , il lago di Quilotoa si trova all'interno di un immenso cratere vulcanico.
 
Appena giungo sul bordo del vulcano vengo colpito da una vista eccezionale: in basso laQ01 superfice d'acqua è attraversata da una fascia di riflesso solare che attraversa metà del lago; il liquido è increspato dal vento che viene da oriente. Più in alto, oltre le pareti che si gettano nel cratere, l'orizzonte vasto offre montagne verdeggianti senz'alberi e nuvole in lento, inesorabile, addensamento. Fortunatamente riesco ancora ad ammirare i due picchi innevati dell'Illiniza. Poco a destra si indovina la sagoma del vulcano che fuma, la montagna di ghiaccio e cenere che porta il nome di Cotopaxi.
Ho chiesto ad un locale da che parte è meglio iniziare il periplo del grande cratere, lui mi risponde: "In senso antiorario. Non lo fa nessuno". Sempre con l'indescrivibile eccitazione del nuovo, ancora in perfetta solitudine, dal punto di osservazione presso cui mi trovo imbocco il sentiero a destra. 
La traccia nitida e stretta lambisce il bordo del vulcano, e con il camminare si modifica lentamente la percezione degli elementi, dei colori, il muoversi del sole. A sud posso vedere in tutta la loro estensione le montagne rocciose e le valli immense di Zumbahua. Laggiù, in quei posti magici ancora incontaminati dal turismo, strati persistenti di nuvole in movimento ma stabili cominciano ad abbassarsi sulle cime verdeggianti che superano i 4500 metri, portando nei pascoli abitati dai lama gocce gelate di pioggia.

Dopo aver attraversato un altro osservatorio Q02sopra il lago di Quilotoa mi aspetta l'ascesa della parete più alta del cratere. Dal basso vedo arrampicare una irregolare e ripida striscia che si insinua tra cespugli bassi ed erba giallo-verde.
Il sudore scompare velocemente sulla cima del monte Juyende, 3930 metri di altitudine spazzati dal vento che viene da lontano; la cumbre è coperta da terra chiara, pietre e steli ricurvi. Da questa altezza posso cogliere l'interezza del vulcano e del grande lago depositato nel suo cratere. Il mio corpo magro assorbe visioni di colori limpidi e basilari.
Scendo veloce dall'altro lato della cima, conQ03 un occhio sempre attento alle nuvole scure che si rafforzano nel cielo.
Oltre la metà del circuito incontro un gruppo di tre ragazzi silenziosi, poi altri ancora muniti di guida locale.  
Dopo tre ore e trenta minuti, tranquillo e sicuro nella mia solitudine, malgrado il mal di gola ed il raffreddore, riguadagno l'osservatorio da dove sono partito. Ora nuvole grigie stanno coprendo tutto, trasformando le acque del vulcano di un colore verde cinereo, che il vento forte rende ancora più misteriose nelle loro profondità imperscrutabili.

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lunedì 16 novembre 2015

In avvicinamento alla Laguna

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mercoledì 28 ottobre 2015

La mente leggera nella stanza a 3550 metri

Sonno lieve che lambisce il dormiveglia. Apro gli occhi su una stanza scarna con un letto a castello vuoto e coperte di lana. Illuminata dalle luci della strada, la carta da parati delinea disegni semplici sul muro chiaro. Cartoline di posti lontani sono attaccate alle pareti. Su un comodino sono appoggiati un deodorante, una crema solare, l'orologio e l'astuccio della toilette. Dal soffitto spunta una lampadina bianca collegata a due fili elettrici colorati. Nel silenzio totale solo il vento ha il coraggio di insinuarsi negli spifferi delle finestre dell'hostal di doña Anita. 
Alle cinque del mattino, con il buio violentato dalle luci dondolanti dell'unica piazza di Zumbahua, sepolto da coperte pesanti e con il naso freddo, la mente lucida si inabissa incontrando l'estraniazione. Un buco senza oscurità, un momento dove la coscienzaCdP rimane attiva nel centro e vacillante in periferia. Riporto le iridi a fissare senza scopo la carta da parati. Non è la solitudine ne' una temporanea amnesia, non si tratta del ventesimo giorno di viaggio che inizia oggi, ma avviene in me qualcosa che assomiglia ad uno spaesamento consapevole, un vuoto che pone interrogativi, un vuoto. E nel silenzio arrivano domande senza risposta: cosa faccio qui? Chi sono?
Rimango immobile a lungo, sovrastato dalle coperte di lana grezza, nella nicchia di calore che si disperde lentamente.
In quei momenti non riuscii a comprendere bene l'estraniamento di quella mattina nella stanza dall'aria fredda; solo qualche ora dopo, tra praterie di erba dura dei 4200 metri della cordillera Central, illuminato dal sole forte dell'equatore, capii qualcosa di più, capii che quel vuoto, quelle domande appartenevano a piccoli pezzi di me che stavano mutando, rinascendo, alla ricerca di una ricollocazione mobile. Al viaggio.
L'erba d'alta quota scivola sotto le scarpe. I sandali avanzano rapidamente verso una meta sconosciuta. Dopo la visita al lago di Quilotoa tornerò a Zumbahua. 
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mercoledì 14 ottobre 2015

Laguna di Quilotoa

LQ

sabato 26 settembre 2015

Attorno i ghiacciai del Cotopaxi

"Devi provare, probabilmente ce la farai". Con queste parole il gestore di un hotel di Latacunga mi convince a raggiungere il parco nazionale del vulcano che fuma, il Cotopaxi.
Sveglia molto presto, il bus che risale a nord la Panamericana, la strada che porta all'entrata del parco, l'incredibile.
Sono  da poco passate le otto e la buona sorte mi ha concesso di guadagnare i quasi venti chilometri deserti che portano al lago di Limpiopungo grazie a due insperati passaggi. Sono le otto e qualche minuto e il vulcano e' sopra di me, da qualche parte, nascosto dalle nuvole. Davanti l'altopiano di sabbia e terraLagL nera, cespugli bassi, i fiori, il vento forte. Verso sud-ovest solo nuvole, dall'altra parte il sole intenso illumina praterie e montagne sagomate dal tempo. Altitudine: in un soffio siamo a 3850. Quasi librandomi nell'aria fine dalla contentezza, nella totale solitudine mi dirigo verso il lago di Limpiopungo.
Nei pressi di questa poco profonda concentrazione d'acqua, quasi una palude, noto dei rumorosi uccelli dal petto bianco e anatre con il becco ed il capo grigio. Inizio il periplo del laghetto prendendo un sentiero oltre un ponte di legno. Mentre cammino piano e poi veloce con a lato colline verdi di cespugli ed erba dura d'alta montagna e le acque azzurre mosse dal vento, gli occhi si fissano su un rapace che con le ali immobili domina il cielo; girandomi per osservare il suo percorso all'improvviso vengo abbagliato da una visione: sopra uno strato di nuvole bianche in movimento ma ferme, si disvela la perfetta forma conica coperta di neve e ghiaccio di una delle montagne piu' famose Cot1del Paese. Il Cotopaxi, 5860 metri. Dalla sua punta estrema un pennacchio di fumo bianco si confonde con le nubi eteree.
Quando finisco il giro della laguna di Limpiopungo il vulcano e' quasi sgombro dalle nuvole. Sono le 9:30 e cominciano ad arrivare le jeep dei turisti. Decido di salire verso il rifugio del Cotopaxi. Questa mattina una guida mi ha spiegato che ci vogliono cinque ore di cammino per raggiungerlo.
Taglio diritto per praterie di cespugli, muschio mezzo secco e minuscoli fiori. Vento e panorami di Patagonia nell'equatore d'America. Dopo aver passato il lungo pianoro sono ai piedi della montagna. Per accorciare la via mi infilo in una gola torrentizia ora asciutta. Adesso diviene piu' facile perdere l'orientamento essendo sparita la visuale lunga che porta al rifugio. Nessun sentiero. Dopo aver risalito la gola ritrovo la strada sterrata e, in alto, il rifugio. Guardo l'altimetro e mi accorgo di aver passato i 4000 metri. Appena piu' in basso l'altopiano e piu' in la' cime smussate. La vista e' maestosa.
La vegetazione lentamente scompare lasciando posto a terra, ghiaia scura e macchie di fiori gialli senza stelo. Ma lo spettacolo e' uno solo: ripulita dalle nuvole, oltre la terra grigia, oltre macchie marroniCot2 liberate dalla neve, tra i ghiacciai azzurri e bianchi, si innalza la cima del vulcano Cotopaxi, bella e temibile e ambigua. Gravida di attivita' al suo interno e coperta di neve immacolata fuori, dove i venti sono inarrestabili.
Oltre quota 4700 raggiungo il parcheggio  delle jeep che portano i turisti al rifugio e piu' in alto. Sono contento, ormai il rifugio e' vicino e sono salito veloce, faticando un poco.
Non e´ passato mezzogiorno e mezzo quando arrivo al rifugio del monte Cotopaxi a 4860 m, mille metri sotto la cima alta che fuma. A due ore e cinquantacinque dal lago di Limpiopungo. Un leggero mal di testa vorrebbe farsi strada ma i panorami andini d'alta quota annichiliscono qualsiasi ininfluente disagio corporeo.
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martedì 15 settembre 2015

In avvicinamento al vulcano Cotopaxi (5860 m)

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venerdì 28 agosto 2015

Il vulcano Cuicocha sopra Otavalo, Ecuador

Il bus mi lascia all'entrata della riserva del lago di Cuicocha, a 3040 metri di altitudine. Nella lingua degli incas, il quechua, Kuychi Kucha vuol dire Lago degli dei. Parole che si riveleranno davvero appriopiate.
Il grande lago e' circondato da cime che sono le pareti confinali di un vulcano, il vulcano Cuicocha. 
In assoluta solitudine prendo il sentiero che si arrampica costeggiando le guglie sagomate di questa montagna, sviluppandosi per sette chilometri da una altitudine di 3050 metri fino a...
Dall'alto il lago e' davvero intrigante: acque azzurre e profonde increspate dal vento che soffia da qualche parte, forse da nord. In mezzo al lago svettano due isole a forma conica coperte dalla vegetazione. La brezza trasporta veloci nuvole basse che periodicamente offuscano una parte del cratere. Mi dirigo verso le nuvole.
Il sentiero di scura sabbia lavica e' contornato da cespugli, alberelli e fiori. Dopo quasi non averli considerati, la vista si focalizza meglio su dei fiori color viola chiaro: sono orchidee in miniatura che crescono dove l'umidita' delle nubi e' piu' consistente. Il verde intenso delle montagne, la vegetazione bassa, il cielo azzurro solcato da cumuli nuvolosi costanti che scompaiono dopo essere entrati nella bocca del vulcano, fanno quasi vedere panorami del nord della Scozia e di altre latitudini.
Dopo aver superato un coppia di stranieri arrivati al lago in taxi, le nuvole scompaiono, riportando il sole. Le cime piu' alte a nord che superano facilmente i 4000 metri invece, con il passare dei minuti, sono sempre piu´ invisibili. Si nota che la bassa vegetazione arborea scompare sopra i 3800 metri, lasciando piena liberta' all'erba.
A 3300 metri di altitudine, su una parete di media altezza del vulcano, la visione sul lago di Cuicocha diviene piu' unitaria. Steli d'erba fitta e bassi cespugli adornati da fiori bianchi e rosa scendono a picco nelle acque blu-cristallo della laguna, sfidando la pendenza e le raffiche di vento umido. Prima di salire ancora, il cammino
passa verso l'esterno del vulcano, scendendo un poco e nascondendo agli occhi la vista del lago. La pendenza aumenta davanti a quella che sembra la cima piu' alta della costellazione del cratere vulcanico. A quota 3450 si puo' ammirare dall'alto il lago dentro in cratere di Cuicocha. Le isole costituite da due coni di lava ciascuna
fuoriescono incredibimente dalla massa d'acqua, quasi che il vulcano voglia rivendicare nel tempo la sua antica supremazia, mentre masse nuvolose escono ed entrano senza sosta nella sua grande bocca. Intanto le alte cime alle mie spalle si stanno completamente coprendo.
Dopo due ore e mezzo completo il sentiero, tra boschi di pini e vento che trasporta lontane particelle d'umidita'. E' ora di raggiungere la strada asfaltata che porta a Quiroga e poi a Otavalo, in attesa di un raro autobus o altro mezzo di trasporto.

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martedì 11 agosto 2015

Percorrendo la Panamericana verso sud

Il gruppo di rumorosi turisti colombiani hanno cominciato a fare rumore nell'hotel dalle 4 del mattino. Alle 6 sono in strada, sulla strada lastricata del bel centro storico di Popayán, diretto verso il terminal. Le vie vuote, da poco la luce dell'alba, il problema della sicurezza in Colombia. La mente si consola con un ritmo dall'ultimo lavoro del britannico Lapalux.
Arrivo alla 6:20 al terminal. Niente. Il minivan diretto a Pasto e' completo. Impreco.
Alle 6:50 parto con un minibus non esattamente dell'ultimo modello. Quasi tutti i passeggeri hanno i tratti somatici degli indigeni andini. "It's over, I am older", recita il pezzo di Lapalux. Velocemente prendiamo la Panamericana inforcando la direzione sud.
Prospettiva di viaggio piu' che discreta: e' mattina, siamo a 1800 metri di altitudine, raggiungeremo i 2500 di Pasto, il bus senz'aria condizionata forse non sara' un problema. Forse. Invece subito scendiamo diritti diritti verso il caldo, addentrandoci tra valli e montagne. Nonostante sia domenica, grossi camion sbuffanti fumo nero rallentano l'odiata discesa. Metto le cuffie cercando brani che infondano buon umore. Il ragazzo simpatico vicino a me con il quale ho scambiato due battute si addormenta.
Verso i 1100 metri, quasi l'altitudine di Cali, dopo solo un'ora di viaggio, facciamo una pausa; evidentemente l'autista vuole fare colazione. Pace. Mi concentro sul panorama circostante ricco di alberi tropicali che esprimono tutta la loro grandezza, espandendosi in alto ed in largo. In mezzo a questi boschi ci sono alberi dai fiori rosa e rosso vivo, quest'ultimi somiglianti alle bellissime piante che portano il nome di gallito o ceibo. Accanto alle rare fattorie sorgono piccole piantagioni di banani, mais, yuca e grossi alberi di mango.
La discesa del bus sembra non finisca mai, incuneandosi tra stretti tornanti e vegetazione sempre piu´arida. Il sudore corporeo comincia ad esprimersi con intensita'. Dopo essersi riaddormentato, il ragazzo accanto a me si sveglia e mi chiede se siamo arrivati ad un dato paese. Gli rispondo che non lo so. Evidentemente il rumore del bus gli ha in precedenza impedito di scovare il mio accento straniero. L'informo che siamo a 700 metri di altitudine e nel mezzo di una valle quasi desertica. Lui annuisce assonnato. L'autobus percorre per diversi chilometri questa valle costituita da alberi bassi, cespugli, cactus e terra gialla.  Nel mezzo scorre un torrente, un alieno nel secco desolante. Poche le abitazioni.
Il sudore scompare risalendo oltre 1700 metri sopra il livello del mare. Il ragazzo dallo sguardo gentile e' gia' sceso da un pezzo.

Dopo circa sei ore di viaggio ed aver oltrepassato un passo a 3100 metri, raggiungiamo Pasto. Come dice il nome (pasto = erba, pascolo) l'umidita' e la pioggia raggiungono con generosita' la citta' rendendo i boschi e la vegetazione di un verde intenso. La Panamericana prosegue verso sud, verso Ipiales e la frontiera con l'Ecuador. 

mercoledì 8 luglio 2015

I 3000 metri della valle di Cocora, Colombia

La nuova escursione nell'incantevole valle andina ha oggi una meta molto ambiziosa: raggiungere la finca el Bosque, a 7,2 chilometri dalla localita` El Planchon, 2430 metri di altitudine, dove mi trovo ora. Un ponte costituito da due grossi tronchi di legno e un parapetto attraversa il torrente Quindío, portandomi nel bosco subtropicale che si rannicchia nei luoghi piu' bassi e riparati.
E' prima mattina ed in mano ho una mappa disegnata da un locale che mi ha spiegato come arrivare alla fattoria

Il bosco, dopo aver passato le palme tipiche della zona, le palme del Quindío. Non esistono mappe  del parco della valle di Cocora. Il personale dell'ufficio informazioni della riserva consiglia di prendere una guida per inoltrarsi nei sentieri meno battuti e affatto segnati. Questo e' uno di quelli.
Il cammino rimane nell'ombra fino ad un terzo attraversamento del torrente. Sui 2650 metri appaiono pini dai lunghi e morbidi aghi. Forse perche' solo solo e mi muovo silenziosamente sugli aghi caduti a terra, sicuramente per fortuna, seminascosto tra felci e altra bassa vegetazione si aggira a quattro metri da me un vecchio ricordo della querida Bolivia tropicale http://travel-ontheroad.blogspot.com/search/label/Bolivia%20tropicale , un animale  dal muso allungato, con le orecchie d'orso e la coda simile ad una marmotta. I boliviani lo chiamano Tejón, un mammifero della famiglia dei procionidi. Magari perche' si trova qualche metro sopra il sentiero, l'animale si allontana dall'umano con tranquillita', preoccupato piu' per la ricerca del cibo che d'altro. Quando proseguo il ripido sentiero lo sento ancora raspare nel sottobosco. Proprio adesso mi torna in mente un altro incontro casuale avvenuto ieri: stavo camminando quando sento un rumore, simile a quello del calabrone, che si aggira tra i fiori di un alberello, mi giro ed invece vedo un minuscolo colibri'.
A 2910 metri raggiungo il bivio che porta alla finca Santa Lucia; il vento e' forte. Sotto di me l'ingarbugliata ed impervia valle del torrente Quindío, sopra cime di 4000 metri che spradicamente si svelano dalle nuvole. Alberi simili agli aceri dalle foglie quasi marroni, costellano i pendii piu´ esposti. Quando sono costretto a scendere di
cento metri per guadagnare un'altra montagna mi accorgo che la meta sta diventanto impossibile, anche perche´ voglio tornare presto. Procedo comunque spedito nel sentiero tracciato dagli animali rimanendo lungo il crinale della montagna.
L'altimetro segna 3180 metri proprio ad un prato dal quale posso individuare la finca el Bosque: si trova sotto di me e ancora piu' a nord. Su queste distese verdi crescono dei cespugli dai fiori dai colori blu-violetto, forse rododendri. Mi godo il panorama sfidando il vento, solo, senza aver
incontrato umani, con il sole forte e le nuvole che si fanno sempre piu' imponenti.

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giovedì 2 luglio 2015

Prima escursione nella valle di Cocora, Ande Colombiane

Passo i margini di una fattoria, attraverso un ponte dove sotto passa un torrente e sono nell'entrata della valle. Di fronte si apre una visione di pascoli verdi tenuti come prati inglesi, boschi che dalle cime scendono a picco in basso, fattorie, pacifiche mucche, cavalli liberi e soprattutto una delle principali attrazioni del luogo: le palme da cera native proprio di questa area, il Quindío. Esse spuntano dalla terra slanciandosi diritte e affusolate, rivendicando il diritto di conquistare il cielo. E' davvero strano vedere i boschi, i cespugli, i prati di montagna, punteggiati da questi altissimi tronchi sulla cui sommità svetta un ciuffo di foglie.
Il sentiero che porta in localita' Estrella de agua, dopo essere stato abbondantemente toccato dal sole, si infila basso nel solco del torrente. Sono piu' di due settimane che non piove ma qui, causa il passaggio di turisti, di mandrie di bovini e naturalmente l'umidita', a tratti il percorso diviene fangoso. Il bosco e' colmo di piante tropicali di diverso genere, oscuro e pregno di vita. La foresta e' anche infestata da umani di diversa origine che, come me, vogliono esplorare questa famosa valle. Ponti tibetani, da attraversare rigorosamente uno alla volta, sovrastano il corso d'acqua. Quando i miei sandali stanno cominciando a cedere nell'umidita' della fanghiglia, ecco che vedo il bivio: avanti si va a Estrella de agua, a sinistra si arrampica un sentiero che porta alla finca de la Montaña. Prendendo la seconda via magicamente rimango solo con la natura che lentamente si modifica con l'altitudine. Verso i 2700 metri compaiono i primi sempreverde. Sono pini ed essenze vigorose della famiglia dei cipressi, mischiate ad una variegata scelta di piante e cespugli sconosciuti. Salgo velocemente con il panorama vegetale che assomiglia sempre piu' a quello alpino, ma no... in mezzo al bosco di pini ecco che spuntano alcune basse
palme. Quasi sotto la finca de la Montaña ricompaiono i primi prati. Qualche cane svogliato abbaia avvertito dalla mia presenza, poi, dall'alto, si affaccia brevemente una figura femminile. La fattoria della montagna e' sita a 2860 metri di altitudine ed e' contornata da boschi e qualche prato. Da lassu' finalmente posso godere del panorama di una parte della valle di Cocora. Di fronte si innalza un picco ricco di vegetazione fin quasi al suo culmine, a sinistra si sviluppa lentamente verso l'alto la vallata che qualche buon amico definerebbe un buco. Il cielo d'America e' come sempre eccezionale, anche qui tra le Ande e l'umidita' che viene dal Pacifico: nuvole veloci dalle cime piu' alte scendono nel loro perfetto disordine verso valle, girando attorno a guglie, picchi e panettoni verdi per poi sparire da qualche parte. 
Nella finca de la montaña e' ancora il sole che predomina, supportato da una brezza da nord. Il sudore scompare velocemente ma non si volatilizza il mio interesse. La fattoria di legno colorato a bianco e arancione dal tetto basso di tegole e' contornata da un'immensa quantita' di fiori e cespugli colorati. Proprio su questi fiori, con
stupore, vedo librarsi piccoli volatili dal piumaggio azzurro-verde argenteo, quasi fossero animali provenienti da un mondo fantastico: sono colibri'. Le loro ali invisibili e veloci si destreggiano con precisione da un fiore all'altro.
Rimango diverso tempo incantato da questi volatili, fino a quando decido di prendere la via de la discesa attraverso un fitto bosco di sempreverdi ed eucalipti. Nel scendere incontrero' diverse altre specie interessanti, ma queste amenita' rimaranno a delizia del sottoscritto.

domenica 14 giugno 2015

Il tempo svanisce nel terminal Daya

Arrivo alle 15:00 nel terminal dei bus di Makassar. Ieri ero nell'umida e cristiana città di Manado. Qui è secco e pieno di minareti.

Il bus diretto a Makassar city mi lascia all'incrocio per il terminal su una strada polverosa e trafficata.  Il ragazzo del mezzo di trasporto mi consegna lo zaino e mi indica la via: un chilometro. Quasi subito taxisti di vario genere chiedono insistentemente dove vado. Non rispondo, anzi vedo che nell'angolo opposto all'incrocio si sviluppa un mercato della frutta, quindi dico che vado al mercato. Chiedo i rambutan ma hanno solo longan. Scherzo con un paio di giovani fruttivendoli dopo aver fatto gli acquisti.

Il terminal Daya è una struttura bassa, piuttosto grande, contornato da edifici vuoti non conclusi ed enormi parcheggi con rari alberi. Attorno il nulla della periferia quasi disabitata. Da Daya partono gli autobus per il TDanord dell'isola. In quel primo pomeriggio pare una costruzione sovradimensionata e vuota. Cerco subito l'ombra per placare il sudore della camminata.
Ma nel mentre una persona posa lo zaino su una panchina di legno, dopo il traffico e la polvere, il viaggio da Manado, ancora sette ore di bus notturno per raggiungere Rantepao, con l'orologio che segna 37 gradi di temperatura, non passano quaranta secondi che, ecco, arrivano dal nulla un paio di venditori di biglietti.  La persona in questione, prima non risponde, poi inventa una destinazione a caso. La strategia funziona perché i procacciatori di clienti, disorientati, non vendono biglietti di quel tipo. Il caldo annichilisce tutti. Ma la pace dura poco.

Dopo aver acquistato il biglietto per le montagne di Tana Toraja mi infilo in uno dei pochi uffici con l'aria condizionata a chiacchierare con una signora. Quindi vago nell'assonnato terminal e, nella sua parte più ventilata, vedo un chiosco con degli uomini che fumano in silenzio. Saluto e chiedo se posso sedermi su una panca. Offro loro i longan precedentemente acquistati. Tranne il proprietario del chiosco, le altre persone vicino a me sono taxisti di jeep.  Forse sarà la brezza che raggiunge a tratti la pelle, o la luce del sole che si fa via via più obliqua, in ogni caso da quel momento comincio ad assaporare la lentezza del tempo. Colgo il vagare dei passeggeri in attesa di un provvidenziale mezzo di trasporto, osservo silenziose donne velate e uomini che fumano lentamente. Poi ci sono i gatti: un maschio dominante bianco e nero, dei giovani dal pelo cortissimo e le femmine. Ogni tanto si avvicina con circospezione un maschio adulto che viene sistematicamente scacciato dal bianco e nero. Li vedo stesi all'ombra, muoversi flemmatici mantenendo le distanze fra loro, e, come nei cartoni animati, entrare nei bidoni della spazzatura uscendone impettiti con qualcosa da mangiare. Nessuno ha più classe dei felini in questo mondo complicato.
Mangio tranquillo i longan, gustando il tempo che non passa. Ed i procacciatori di biglietti, le strade polverose e sporche, il caldo che mai finisce, la stanchezza, lo spaesamento di un nuovo posto, i bus scassati colmi di persone, come in un pezzo di K. Washington che dal presente riceve la linfa di ieri, ecco che torno pacificamente verso me stesso, ancora una volta a confronto con una nuova coscienza dell’identità.
Colgo nel disarmante anonimato del terminal Daya qualcosa che non avevo mai trovato.

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sabato 23 maggio 2015

Petronas T

KL

giovedì 30 aprile 2015

Sotto il vulcano Manado Tua i pesci danzano (2)

Dove vanno i pesci blu con le pinne che fluttuano lunghe nell'acqua? Forse sono stati da poco a rendere omaggio al vulcano Manado Tua e alle sue correnti speciali. Saranno ormai una quindicina di minuti che vago tra picchi, vallate e dirupi delle acque di Bunaken, in direzione del vulcano, e la processione di blu redtooth triggerfish continua senza apparente termine.
La giornata è serena e calda, ma nell'acqua si sta bene. Sempre. Dopo un'ora di cammino per raggiungere il pontile di Alung Banua sono immerso nell'elemento della quasi inspiegabile levità, nuotando piano tra coralli che si inabissano nell'imperscrutabile profondità del mare.  Muovendosi facendo il minimo rumore, senza pinne e altri orpelli, dopo un certo allenamento l'udito si affina: riesco a udire scatti improvvisi di pesci, il loro raspare con la bocca sulla roccia per trovare alimento, gorgogliare di bollicine che dal fondo si liberano verso l'alto, e ad avvertire il pericoloso rumore di qualche motoscafo di passaggio. La grande barriera che guarda in fronte l'isola vulcanica di Manado Tua è una meta importante per i sommozzatori. Odo ancora l'intimo mio respiro, i sommessi mugugni e la voce mentale che comunica la passione.
Ma ecco che incontro qualche isolato esemplare di stripe surgeonfish colorato orizzontalmente da strette e alternate fasce blu, gialle e nere. I miei pesci favoriti. Un inchino è dovuto ancora una volta al Moorish Idol e al suo fluttuante vessillo bianco.  Questa parte della costa è meno affascinante di quella orientale, probabilmente perché nel passato i pescatori qui si sono maggiormente accaniti. Accelero il mio nuotare in direzione del vulcano che fatica ad avvicinarsi.

Dopo un'ora di nuoto sono quasi a ridosso di una grande boa che segna la svolta verso il canale di mare che separa Bunaken da MTVManado Tua. Sono arrivato. Il luogo è deserto tranne una barchetta che trasporta due turisti locali muniti di ombrello parasole. Dalla barca affusolata il panorama deve essere straordinario: da un lato la costa bassa piena di mangrovie dalle radici denudate dalla bassa marea e a poche centinaia di metri il perfetto vulcano coperto di vegetazione le cui pareti si gettano nell'acqua. E poi sotto il liquido limpido, diafano, fermo, che permette di osservare sé stessi su una barca di legno sospesa nel nulla della trasparenza e il mondo subacqueo sottostante.
Giungendo al mio parziale periplo non ho potuto non notare che in questo angolo dell'isola la barriera corallina si allunga molto verso l’esterno. Con la bassa marea ora posso scivolare su decine e decine di metri quadrati di cespugli di antozoi in perfetto stato di salute, pesci timidi che trovano conforto e riparo tra coralli con forma e colore dei più disparati. Esploro ancora una volta emancipato dal tempo, conscio che la via del ritorno è lunga.
In questo momento dove brama e fervore si sommano alla stanchezza, le iridi dietro il vetro della maschera cominciano a comprendere il perché della leggenda locale che narra le meraviglie di quest'angolo di mar di Celebes: nello stretto che separa il vulcano Manado Tua vedo centinaia di redtooth triggerfish blu dalle code che oscillano, i grandi pesci unicorno che sembra provengano dalla preistoria, i butterflyfish dai mille colori, gli anemoni con i clownfish, i coralli che quasi toccano il cielo nella bassa marea. L’insieme,  nella sua straordinaria armonia, è un tributo a Madre Natura, ma questo posto ha qualcosa in più... Forse sono le correnti lievi che si incrociano, magari un sotterraneo fluido ancestrale proveniente dal vulcano, o il luogo nella sua complessità fa intuire di trovarsi in una condizione di grazia. Sotto il vulcano i pesci ondeggiano a mo' di danza e, accanto a loro, una figura umana tenta goffamente di imitarli.

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giovedì 16 aprile 2015

Children of central Bangladesh

CCBD

martedì 24 marzo 2015

Sotto il vulcano i pesci danzano (1)

Esce dall'ombra del porticato e viene abbagliato dal sole. E' un uomo dai capelli bianchi con la pelle raggrinzita. Alzo la mano. L'uomo magro saluta a sua volta. Mi avvicino.
"Vorrei andare a nuotare ma non ho dove lasciare i vestiti. Posso...?"
L'uomo mi fa sedere sullo sgabello sotto il portico. "Appoggiali sulla sedia. A Alung Banua non ci sono ladri". Faccio un cenno di assenso con la testa.

Dopo una camminata lungo quasi la metà di Bunaken island eccomi ad esplorare un altro pezzo di costa. Finalmente mi sono discretamente avvicinato alla dirimpettaia isola di Manado Tua, un spettacolare vulcano che spunta dalle acque del mare di Celebes. La leggenda racconta che il vulcano doni alle acque circostanti un potere speciale, potereMT3 che si trasmette a tutti gli esseri viventi che ivi si immergono.

Alle nove sono in acqua. Il tratto di mare che separa il molo di Alung Banua dallo stretto è qualcosa come un chilometro. La marea è ancora moderatamente alta ma quello che mi preoccupano sono le correnti. Dall'estremità del pontile raggiungo la barriera corallina nuotando piano e, come l'effetto di una implacabile frustata, la carica potente di adrenalina sommerge le vene: un senso di onnipotenza, l'infinita possibilità mi pervade. E' incredibile, ma quando repentinamente la roccia di pietre e coralli precipita trenta metri nell'azzurra oscurità del mare tropicale divento sovrumano. Confusione e attrazione morbosa e necessità di sicurezza si accavallano senza logica. Luce e buio. Ondate di freddo penetrano dal basso mescolandosi con i 29 gradi superficiali.
Viro a destra lambendo un tagliente antozoo turchese dai richiami iridescenti. La corrente è lieve ma può cambiare in fretta.
Oltre dare un occhio alle meduse che viaggiano senza meta apparente mi prometto di stare alla larga dai Titan Triggerfish. Questi grossi pesci dalle mandibole che sventrano coralli non sono troppo felici se ti avvicini ai luoghi dove hanno deposto le uova.
Allontanandomi dal molo a volte il precipizio nell'oceano blu si attenua divenendo dolce declino. E' come volare sulle Dolomiti: pendii di roccia bianca scendono verso il basso ed io taglio diritto su vallate spoglie di antozoi e su creste ricche di vita, osservando il mondo dall'alto, tra nuvole di pesci indaffarati.

venerdì 27 febbraio 2015

Rapace KL

klr

domenica 8 febbraio 2015

Attraverso Bunaken, Nord Sulawesi

Le acque attorno al vulcano Manado Tua pare abbiano potere speciale sugli esseri viventi.
Decido di sperimentare questa leggenda ascoltata a Bunaken, isola contigua a quella vulcanica.  Mi appresto a partire, libero da ogni gita organizzata sopra o all'interno le ricchissime acque del mar di Celebes, immerso in un rilucente primo mattino equatoriale. Libero.

Durante la frugale colazione delle sette sono stato ancora una volta catturato dall'evento straordinario del maturare del giorno: la luce obliqua del sole incideva con implacabile spietatezza ombre sugli alberi e le colline da cuore dolce che si affacciano sul mare calmo di Bunaken. Sulla destra si allungava la costa di sabbia e poi le mangrovie. In fondobk1 veleggiava nell'inconsistente bruma la forma conica del vulcano Manado Tua. Qualche barca proveniente dalla terraferma cominciava a solcare le acque della marea quasi in riflusso. Ho salutato le signore della cucina e Ester, la jefa, poi son tornato nella mia stanza che ancora traspirava le brezze fresche della notte. La maschera e il boccaglio erano già nel sacchetto.

Il sistema per raggiungere più velocemente la parte nord ovest dell'isola è quello di percorrere un tratto di spiaggia, quindi salire alla strada principale e camminare nell'entroterra.
Nella spiaggia oltrepasso velocemente un resort dai muri alti, diverse bancarelle, ristoranti e un molo dove arrivano le barche dei turisti locali. Ci sono ancora poche persone in giro.
Le infradito si arrampicano su un percorso ripido di cemento per guadagnare l'unica strada che congiunge gli estremi dell'isola a forma di pistola. Cammino veloce non distante dalla collina che declina a sinistra verso le mangrovie e il mare. La piccola strada a tratti sterrata è percorsa da qualche moto: uomini e ragazzi che vanno al lavoro o a scuola. L'interno di Bunaken è costituito da alcune piantagioni, pascoli, boschi e cespugli. Cerco con preciso rigore le porzioni della bk2strada ancora in ombra. Non sono ancora le otto ma il sole è ugualmente inesorabile. E non è tutto: tra circa mezzo chilometro arriva un lungo tratto di percorso senz'alberi. Consolo la mente riempiendo gli occhi di colori dei fiori coltivati nel giardino di una casa. Due ibischi rossi fanno da contorno al cancello di entrata. Saluto la signora della casa. Ieri mi son fermato una decina di minuti in quel giardino, rispondendo brevemente alle stentate domande del marito.

Dopo un'ora di cammino arrivo a Alung Banua. Il paese mi accoglie con le sue case ben tenute, una chiesa e la scuola. Impossibile sfuggire anche qui al classico "Hello Mister" indonesiano urlato dai bambini più audaci. La strada in mezzo a case e al verde per raggiungere il molo è più lunga del previsto.
Alla fine ci sono. Tutti mi avevano consigliato di prendere un mototaxi per la lunghezza del percorso. Vedo un lungo pontile solitario che si allunga verso il mare. Sulla destra un piccolo molo. Faccio un segno di saluto verso tre-quattro pescatori seduti su una panca di cemento. Le loro espressioni al vedermi improvvisamente comparire sono un misto di sorpresa e imperturbabile diffidenza. Non faccio loro caso e mi allungo in avanti verso l'acqua sempre più limpida che costeggia i lati del pontile. Ora devo trovare una casa dove poter lasciare i vestiti. Ma questo è il meno.
Dopo il cammino purificatorio il corpo magro e la mente prosciolti dai legami e ridotti all'estratto dell'essenzialità, sono incredibilmente preparati a nuotare fin dove le acque di Bunaken si congiungono con quelle del vulcano Manado Tua. Liberi.

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mercoledì 21 gennaio 2015

Da Kadidiri a Gorontalo

M. Molucche

 
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