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martedì 27 marzo 2012

Il cuore di Buenos Aires

I pappagalli volano insieme nella citta' della Buona Aria. Il loro movimento in dissonanza col vento li ha fatti posare sui rami dell'immenso toborochi che si espande sopra di me. I piccoli e rumorosi uccelli verdi beccano il contenuto fibroso dei frutti del toborochi, il palo borracho, l'albero dal tronco panciuto.
Osservo in silenzio gli animali dal prato della plaza San Martín. Sono disteso sull'erba giovane che la primavera ha portato, mentre viaggiatori, funzionari, coppie di ragazzi, transitano dal centro verso le stazioni di Retiro. Rumore di brezza marina e di volatili che cantano la stagione della luce si mescola al rombo del traffico della grande avenida Del Libertador.
Pappagalli e palo borracho. Uno dei simboli di Santa Cruz è il toborochi. In mezzo a Toborsensazioni di tropico dove il sudore svanisce nell'asfalto bollente della strada e la pelle scorticata ogni giorno a sangue incontra se’ stessa nella solitudine, i pascoli immensi fuori dalla Citta' della Croce potenziata offrono visioni di palme motacú, bibosi rampicanti  e toborochi incastonati nel cielo d'America; nella selva che scompare per sempre dal patrimonio della Terra si possono ancora osservare pappagalli giganti Ara dal volo maestoso. In quella citta' lontana il mese di giugno esibiva pingui toborochi fioriti di rosa e rosso pastello.
Dopo aver vagato per il Microcentro, in tarda mattinata mi sono recato al terminal dei bus di Retiro per informarmi sugli orari delle destinazioni verso il Sur, il Sud. I prezzi sonoav. del Lib saliti in modo osceno rispetto al 2007. Da domani andro' a dormire nell'ostello vicino al mio alloggio. Guardo gli uccelli verdi sfibrare il bianco dei frutti dell'albero, addormentandomi nel cuore di Buenos Aires.
Mi fermo qualche secondo ad osservare il cartellone, tra la confusione di gitanti, venditori ed impiegati. E' una promozione turistica governativa della provincia norteña di Misiones. Non volevo passare per la calle Florida, invece mi trovo qui, assorto ad osservare il poster. In pochi istanti decido di modificare i programmi: “Acquisto un pass di cinque viaggi a lunga percorrenza con l'autobus, e mi lancio anche al Norte, dalle parti di Iguazú!”, dico con rinnovata contentezza. Un'amica conosciuta nella Regione dei Laghi, affermava: “La curiosita' verso il mondo, la liberta', si ingigantiscono nel viaggio indipendente”.
Sotto gli affascinanti palazzi bianchi la via pedonale è colma di lucidi negozi di artigianato, di caffe', di bancomat e di venditori ambulanti. A quell'ora pomeridiana la gente è tanta, troppa, che ti obbliga a rendere frammentaria e fugace l'osservazione; accelero il passo per dirigermi nella via San Martín, verso la piazza De Mayo.
La sera il mondo sembra diverso. Nelle grandi citta' l'imbrunire porta una fresca, elettrizzante tranquillita': la gente si muove con passo rilassato, parla forte, ride, gode dell'aria e degli spazi liberati.
Sposto i passi lievemente intorpiditi da una birra fino ad incrociare il viale immenso; forse correndo veloce veloce si potrebbero attraversare tutte le diciotto corsie della avenida 9 de Julio. Continuando a percorrere Congril viale De Mayo verso il Congreso, gli occhi si spostano dalle vetrine gaie dei ristoranti, ai platani dalle foglie giovani, per raggiungere gli edifici stile europeo che culminano in torri e cupole.
Dopo aver passato la Inmobiliaria ed il maestoso palazzo Barolo sono nella piazza del Congresso: negli spazi verdi, signori distinti portano a passeggio il cane ed improbabili sportivi fanno ginnastica su fazzoletti di prato. Nel lato sinistro della piazza intravedo diversi gruppetti di persone. Mi avvicino e capisco che sono uomini e donne senza fissa dimora che stanno ricevendo pasti caldi da un gruppo di volontari.
Sotto il buio della citta' che guarda alla primavera rimango ad osservare il palazzo del Congreso e le case, le persone sedute nei bar alla moda e i senzatetto curvi sui gradini della strada.
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venerdì 25 febbraio 2011

L’altrove

Dai molti altrove, Ewan era stato scelto da uno. Un posto temporaneo, una delle tante sistemazioni che il destino ramingo gli aveva offerto. Aveva vagato per stagioni in panorami torridi o battuti dal vento gelido del sud, attraverso stanze con la ventola a muro, con i condizionatori vecchi che si spegnevano ad una ora imprecisa del buio, pareti leggere, porte rumorose di alberghi squallidi dalle lenzuola bucate, pulci, niguas, cessi esterni puzzolenti, clacson, birra e rambutan, chicha camba e empanadas che lo facevano lacrimare, polvere dai finestrini del bus. E ancora uomini e donne soli, giovani immortali dai capelli lunghi, ragazzi spaesati, bambini di strada. Le sue iridi trasparenti avevano sentito, toccato, intuito, assorbito e respirato a lungo senza respiro.

Ora era supino sotto il piumone, attorniato da un nuovo altrove. Un non altrove.
Ora che dalla mente gli stavano scivolando via affascinanti ondate di confusi viaggi onirici, ancora libero dall'imminente quotidiano, con il soffio di una rarefatta musica elettronica depositata nelle meningi, muoveva gli occhi chiari sul suo non altrove.
Una, tante, quali case. Una baita in montagna a duemila metri di altezza.
Gli occhi di Ewan erano posizionati giusti per l'alba. Dal suo letto una finestra guardava fuori, la' in fondo, dove il chiarore del crepuscolo segnava i contorni delle creste montagnose, dove la neve lentamente si illuminava a giorno, prima di una tenue luce bianca, poi il colore rosa che vira verso il rosso. Fino a quando l'illuminazione naturale non era preminente, e da almeno un paio di settimane, nelle albe serene c'era una stella che lo accompagnava verso il nuovo giorno. L'osservava muoversi attraverso i vetri, con la sua luce forte e appena intermittente, in un movimento definitivo sopra le cime della valle, un semicerchio nell'orizzonte basso dell'inverno decaduto. Se distoglieva da quel punto giallo lo sguardo per qualche secondo, alla successiva visione individuava quanta strada aveva percorso l'astro attraverso il cielo del mondo.
Ewan rimaneva sotto il piumone, con la mente pulita, sbattendo le palpebre, e gli occhi e il volto illuminati dal nuovo che scorreva attorno a lui. Da quella posizione, quando il giorno era entratoaltr nella baita di legno, a volte gli altrove gli venivano addosso, come la maglia di lana cotta che indossava sopra il petto nudo: ruvida e calda e incomprensibile.  Erano altrove di tutte le forme, tracce di memoria profonda e quasi perduta che riaffioravano grazie a concatenazioni spurie, schegge di passato le cui cicatrici credeva fossero divenute invisibili, costruzioni splendide e abbandonate che solo i sogni riuscivano a rimodellare.
Allora si alzava e andava ad accendere la stufa a legna, ponendo sui suoi anelli metallici dell'acqua da scaldare e un paio di fette di pane per la colazione. Quindi si metteva la giacca e usciva nella neve a inspirare l'aria alta veicolata ogni volta da una brezza diversa; a volte era l'odore della resina delle conifere, altri momenti un'indecifrabile profumo portato dal vento del nord, oppure la giovane primavera che risaliva dalla valle. 
Tante piccole azioni quotidiane reiterate nei giorni e nelle settimane, le quali si mischiavano ad eventi straordinari come l'ombra dell'aquila che ogni qualvolta faceva un giro sopra il rifugio, l'incontro veloce con un camoscio, oppure la lettura di un nuovo libro. Anche la vista sulle montagne e gli alberi e la valle era qualcosa di diverso ogni volta; credeva di conoscere ogni angolo dei pendii, ogni solco di ciascun torrente, ogni cresta che si rifletteva sulle iridi chiare, ma sbagliava: c'era sempre qualche impercettibile novita' nel complesso mosaico che si dispiegava attorno alla baita.

Di sera, accanto alla stufa calda di legna appena tagliata, gli altrove tornavano. Allora Ewan sembrava piu' giovane e piu' vecchio, saggio e immaturo. A volte dalla finestra gelida si poteva vedere la sua figura massiccia che si raggomitolava su se stessa; in altri momenti aveva lo sguardo che danzava con l'immortalita', e pareva avvolto dall'aura che solo alcuni vagabondi posseggono.
Presto Ewan avrebbe abbandonato la baita per prendere un altro cammino sulla strada, in movimento verso un incessante altrove.

venerdì 24 dicembre 2010

Buio su Bangkok

Zampe. Il bus ci porta celermente in avanti, nonostante l'oblio offuschi la destinazione. Una certezza sbilenca mi sussurra che il viaggio sara' inspiegabilmente tranquillo e veloce; niente forature di gomme, nessuno stop forzato presso ristoranti bollenti, basta fermate ogni venti metri per raccogliere qualche distratto passeggero. Dai vetri polverosi arriva una balugine di informi panorami tropicali: il Myanmar, credo.  Mentre ondeggio sento raschiare sulle assi di legno. Sono zampette.
Gli occhi si aprono e, nell'oscurita' rischiarata dalle mille luci della metropoli, vedo due forme allungate che si trascinano sul molo di legno annusando in giro con prudenza. Topi. Erano loro che accompagnavano il mio dormiveglia. Il tempo è scivolato sulle braccia, sopra la maglietta, sul corpo magro, per trattenersi intorno alla bottiglia di vino di riso. Affascinata dall'incedere lento del Chao Praya, quest'ultima rimanda ovunque frammenti di abbagli provenienti dal manto caleidoscopico del fiume, e da tutto l'universo brulicante che le si affastella ai lati e sopra, come un codice Morse luminoso conosciuto a pochi. Alzandomi da questo luogo che fa parte delle intime abitudini, raccolgo la bottiglia vuota e la rimetto nel sacchetto di plastica.
La citta' che non riposa mai mi accoglie nuovamente con le sue auto veloci, i tuk tuk ed i bus provenienti dal nulla con i numeri sbiaditi. Cammino per una quasi fresca Phra Athit alla ricerca di un locale dove mangiare. Bar e ristoranti costosi si intercalano abkk b minimarket e a venditori ambulanti. Scavalco luci e luci per ritrovarmi di fronte al locale dell'altro giorno: una stanza scarna con pareti macchiate dal tempo colma di tavolini che dall'interno rigurgitano sulla strada. Anche se è pieno di avventori all'inverosimile dico al gestore che vorrei mangiare. Mi accomodano presso un tavolo già occupato da tre persone; i due ragazzi e la ragazza mi sorridono accondiscendendo con grazia orientale, poi riprendono a cibarsi.
Quando la grossa ciotola di zuppa di noodles di riso viene posizionata di fronte a me cominciamo a intessere un diluito discorso. Sono tre malesi di origine cinese che vivono da generazioni a Penang. La ragazza, Lin Lin, affascinante, ha una carnagione così bianca che pare non abbia mai incontrato raggi solari. Wende, uno dei due maschi, emana dagli occhi sfuggenti una conoscenza profonda. L'altro componente del terzetto è piuttosto allegro causa probabilmente le birre sparse sul tavolo. Anche loro camminavano nella notte in cerca di qualcosa e hanno trovato questo posto frequentato da thailandesi.
Ad un certo punto il tipo più vivace propone di andare a Patpong. Lin Lin annuisce spostando occhi interrogativi da Wende in mia direzione.
“Va bene”, dico in rimando, posando orizzontalmente i bastoncini sui bordi della ciotola.
Conveniamo tutti che è meglio prendere un taxi, data la tarda ora.
Voliamo nel buio, e dai vetri cristallini dell'autovettura la Citta' degli Angeli ci scorre dentro, col traffico che finalmente inspira la meritata boccata di pace. I negozi del quartiere cinese, le bancarelle dei mercati diurni, le jeep dei militari, l'architettura del luogo, accettano, o meglio, si abbandonano alla tregua come le pause notturne durante la guerra di trincea.
Lin Lin e il ragazzo allegro soffiano dalla bocca note di una musica lontana mentre Wende li guarda a tratti sorridendo lievemente. Non riesco a svelare le sensazioni che provo in questo particolare momento: è come se la mente venga afferrata e liberata dalla mutevolezza, come simultaneamente straniarsi e sentirsi parte di un tutto inintelligibile, nuotare solitari nel mare infinito che ad ondate casuali incorporerà.
Intanto le insegne abbaglianti dai colori pornografici si infittiscono, certezza che siamo in prossimità di Sala Daeng. Davanti a noi, e sotto la vigorosa struttura di cemento armato dello skytrain, attraversano la strada due occidentali seguiti dalle loro amiche thailandesi.
Proprio qui nel taxi, con il sottofondo vocale dei compagni di viaggio, nel buio rischiarato a giorno di Patpong, e nell'oceano burrascoso dell'identità mutante, percepisco che la tessitura dell'instabile familiarità si rafforza.

venerdì 19 marzo 2010

Il silenzio del girovago

Si siede su una roccia scura. Un lampo mi fa intuire che la sua attenzione volteggia rapida nell'orizzonte aperto. Riscaldato da un sole distratto, faccio galleggiare i sensi sulle acque increspate che pare non terminino mai, per poi alzare lo sguardo verso lontane montagne boscose e scure. Sento che tira fuori dallo zaino verde la macchina e scatta lentamente qualche foto.
Nel silenzio gonfio di qualche richiamo di uccelli, con una voce che pare non appartenga a lei, chiede “Cosa facciamo qui?”
Non capendo se è una domanda rivolta a me o a se stessa, muovo leggermente il capo verso Lena, ma non arrivo al suo volto. Dopo questo inutile gesto torno nella posizione primigenia, di fronte alle acque del lago Llanquihue.

Ci siamo conosciuti tre giorni fa nell'hostal Hellwig, in una giornata dove sole, grandine, pioggia e tonalità di luce passavano con uno stormo di volatili marini. Ero appena arrivato dalla costa est e, mentre il custode dell'hospedaje mi mostrava la stanza, l'ho vista seduta sul divano consumato del primo piano mentre leggeva una guida. Ha alzato gli occhi chiari e poi ha sorriso lievemente mentre con la mano stuzzicava le punte dei capelli lisci ancora umidi per la pioggia.

Dopo qualche minuto di vuoto carico, riempito dal fruscio leggero delle piccole foglie di coihue, mormoro “Ma lo chiedi...”
“Non intendi cosa voglio dire?”
Mi giro verso la sua magra figura, questa volta trovando i suoi occhi spaesanti “Sì, Lena, ma è difficile rispondere...”
Lei mi guarda con iridi che sembrano appena fuoriuscite dal recondito più intimo del lago. 1q
Perché questa domanda proprio adesso? Mi pone uno dei quesiti focali che incontra il viaggiatore durante la cavalcata libera dentro i mondi. Nell'esperienza del movimento che sviluppa autonomia, la possibilità di creare spazi personali e di riflessione aumenta, non solo perché il tempo slegato si dilata, ma anche perché la diversità di colui che girovaga impone considerazioni necessarie e immediate su se stessi e quello che lo circonda.
Siamo qui vicini, in questa porzione di Mondo immenso, con il cielo il lago gli animali gli alberi, e le nostre vite piacevolmente affaticate dall'alterità. 'L'argilla è immobile, ma il sangue è randagio. Il respiro è merce che non si conserva', scrive Housman con una prosa che mi toglie il fiato; devo assolutamente raccontarla a Lena mentre ci tiriamo delle capsule di piante sconosciute sulla sabbia vulcanica. Lanciando questi circolari contenitori di vita ormai liberi dal seme, con i polmoni pieni di aromi e di vento, e i corpi abbagliati dal vulcano dominante, capisco che le parole sono inutili: il silenzio della consapevolezza ha risposto.

Uccelli bianchi si posano lontani sul lago il cui colore mutevole volta per volta viene forgiato da nuvole e sole, mentre la brezza ci porta l'odore del maestoso Osorno. Mangiamo bevendo birra sulla sabbia grigia del lago Llanquihue. Non c'è alcun turista nello sfiorito inverno australe della Región X; solo due stranieri che alternano silenzi a momenti giocosi, quasi mimando il tempo che li avvolge.
Da un villaggio vicino percorriamo il sentiero nel mezzo del bosco che ci porta alle lagune, piccole pozze di acqua verde che confluiscono nel lago: gemme segrete celate da fitte essenze sempreverdi, dove il vento è alieno e gli animali svernano liberi. Proseguendo la strada sterrata, imbocchiamo il percorso che porta all'Osorno. Il paesaggio è costellato da bitorzolute rocce scure foderate di muschio, e da alberi con tronchi graffiati dall'umidità che aggrappano la loro vita all'impervio terreno. 2s Dopo un'ora di cammino siamo quasi ai piedi della montagna che da tutti questi giorni ci ammalia: il vulcano Osorno. Esso cela parte della sua possanza dietro lesti conglomerati nuvolosi, mostrandosi ogni volta differente. Lena mi chiede di fermarci per poterlo catturare meglio. Rimaniamo in questa posizione a lungo, affascinati dall'impossibile disvelamento della montagna innevata, quando improvvisamente Lena mi tocca il braccio, indicando un punto in alto. È lontanissimo, eppure entrambi sappiamo che quell'apertura alare, il lungo collo, non possono che appartenere al gigante del cielo, il condor. Osserviamo il volatile penetrare  strati di bianco leggero, per poi dileguarsi nei meandri infiniti dell'aria.

giovedì 21 gennaio 2010

Lo spaesamento del viaggiatore

ocea Gli occhi si aprono con difficoltà. Nello schermo plumbeo sito in qualche luogo della mente mi appare una grande stanza ricolma di letti a castello vuoti. Mi muovo lentamente tra le pesanti coperte e, con il naso freddo, annuso l'aria viziata che puzza di cherosene. Dall'ampia finestra con vetri malconci fuori la nebbia imperversa. Il mattino.
Ad un certo momento, inaspettatamente, come se ricominciassi da capo il risveglio, osservo le pareti desolate del mio cuarto economico facendo vagare lo sguardo voluttuosamente e senza meta. Sento che sta per arrivare qualcosa di grosso; una sensazione non eccessivamente piacevole si insinua piano piano, partendo dalle strade semivuote là fuori, entrando per il portone dell'hostal e infine penetrando gli spifferi della mia stanza. La domanda arriva nel tepore mattutino come se niente fosse, così, tagliente, bordata di passiva inevitabilità: "Dove sono?"
Un quesito. Due parole.
Uno spaesamento temporale e spaziale cattura la mia mente che non sembra uscire da questo empasse. Un vicolo senza immediata via di uscita. Per qualche interminabile secondo mi sporgo in un limbo vuoto che blocca le facoltà cognitive. Ma poi, ciud lentamente, il puzzle riprende forma.
Ricordo di aver cenato insieme a robusti operai e di aver bevuto del vino a buon mercato. I muratori vengono da province vicine; gente cordiale che rutta poche parole. Come piace a me. Poi la signora grassa dell'hostal mi ha messo la stufa in camera e consegnato le chiavi per chiudere la stanza. Il chiavistello era troppo piccolo e quindi ho lasciato la porta aperta, sbattendomene. Cosa posso pretendere per settemila pesos, cena e desayuno inclusi? Il cuarto è grande e la stufa odora di cherosene stantio. Sono uscito nel freddo invasivo di una cittadina di provincia simile a tantissime altre. Bar, negozi, uffici, chiese pompose con modesto significato, auto pesanti e vecchi pick-up, gente che cammina in fretta e che parla in una lingua a me familiare. Sempre di più. Sono entrato in un locale e ho ordinato qualcosa da bere. Qualche avventore mi ha guardato con scarso interesse, poi è ripreso a farsi gli affari propri; coppie, persone che leggevano il giornale e altri bevendo in silenzio guardando oltre la vetrata, sulla strada. Io ho fatto compagnia a questi ultimi, sorseggiando lentamente il contenuto del bicchiere di vetro consumato, come la cosa più normale di questa terra, pensando a quello che mi attendeva il giorno successivo.
nebb Vagabondare. Non avere casa ed averne molte. Come in un mosaico in  continua espansione la mia identità diventa sempre più multiforme, pezzi e pezzi di immagini di Mondo si attaccano veloci, troppo rapidamente per riuscire ad inserirli tutti. Caray. Ma forse questo è il sentiero cui sono destinato: senza un paese e ricco di molteplici attraversamenti spaziali. Durante il viaggio l'anima priva di una terra, spaesata, si libera da ciò che la precisa, posponendo e mischiando tutto quello che porta con se', disvelandosi nella sua limpida nudità.
Fuori c'è la nebbia. Sotto la trapunta si sta bene, in questo hostal a Talca, Chile.
E' ora di prepararsi per prendere l'ennesimo bus verde della Tur-Bus, cavalcare con altre persone ma sempre in solitudine la Ruta 5 Panamericana, verso sud, verso l'inverno ed i suoi venti del Pacifico. La Patagonia è ancora lontana.

venerdì 14 agosto 2009

Frammenti di viaggio 8

Da Pangandaran a Bandung.
Ancora nel bus. Sei ore e sono a Bandung, sulla via che porta a Jakarta. Il veicolo e' pieno di viaggiatori locali che tornano dal mare, dal luogo turistico di Pangadaran. Accanto a me un signore anziano. Dall'altro lato scorre Jawa con le sue risaie, case basse, piante meravigliose, pubblicita' di sigarette e gente ovunque, soprattutto uomini.
Mi pare di assaporare, incorporare la terra, l'asfalto, questa strada veloce, come se fosse una inevitabilita' piacevole e dovuta, faticosa e forse necessaria. Ogni volta che parto per una nuova destinazione sembra di cominciare da capo, una nuova energia rinasce, nonostante i chilometri che porto addosso.
Il movimento e' un elemento essenziale del viaggio: piedi, barca, bici, bus; attraverso mare, sentiero, cielo, asfalto. Ho come l'impressione che il signore qui a fianco, il ragazzo che ascolta la musica dal cellulare e sbircia i miei vestiti, la donna col velo bianco in prima fila che chiacchera senza sosta, gli scassati bus 'ekonomi' indonesiani, le visioni fugaci sul mondo e molto altro passino: rimani tu, la tua storia e la strada in movimento.
Intanto il signore anziano accanto a me ha aperto un libretto e legge le sue preghiere quotidiane.

Collisioni curiose in Indonesia
1. Come ogni giorno mi reco a fare snorkelling nella zona corallifera della spiaggia di Lovina; nel mio sacchetto di plastica ho maschera e boccaglio, acqua e un giornale. Sto percorrendo il tratto di strada asfaltata che costeggia il mare quando si ferma un uomo in moto (non e' il primo della mattinata) e mi chiede se devo andare all'ufficio postale (1. ha visto che nel mio sacchetto ho della carta, 2. pensa che non conosca la zona. La posta e' a 200 mt. di distanza da dove mi trovo, 3. vuole guadagnare facile con uno straniero). All'inizio voglio liquidarlo subito con un apatico e deciso no, poi ci ripenso. Vediamo fino a dove arriva il tipo. Ho ben presente che giorno della settimana e' oggi.
- Si', magari... quanto costa il passaggio?
- 50.000 rupie (il costo di un viaggio di 4-5 ore in bus express con aria condizionata)
- Ah, solo andata?
- No, anche ritorno (sorride generosamente ed umilmente, ma gli occhi tradiscono una certa insicurezza: non e' un vero professionista)
- Non so'. Scusa ma oggi... non e' domenica?
- Si', ma... possiamo andare a vedere lo stesso (tanto paga Stefano)
- (Mi stufo) Ok, adesso pero' vado a fare snorkelling, per l'ufficio postale facciamo un altra volta.
- Sei hai bisogno di trasporto fammi sapere, va bene mister?
- Si', ciao.
2. Sono nel mercato ortofrutticolo a Sanur, Bali, per acquistare un'ananas. Chiedo il prezzo presso una bancarella, poi ad un altra. A questo punto interviene una signora che conosce l'inglese e mi vuole aiutare. La donna mi accompagna in una bancarella vicina spiegandomi che gli ananas che mi sta' mostrando provengono da Jawa e quindi sono migliori degli omonimi balinesi.
- Qual'e' la differenza, dato che sembrano uguali?
- La differenza sta nel sapore che e' piu' dolce e raffinato
- Ok, ma come si riesce a distinguerli?
- E' il sapore piu' dolce degli ananas di Jawa
- (Qua comincio a dubitare sulla serieta' della signora, ma ecco, vediamo con la domanda chiave...) Quanto costa questo di 'Jawa'?
- Vengono 7.000 rupie l'uno (il costo dell'ananas e' 3.000 r.)
- Capito, e' caro quello di 'Jawa'. Grazie per l'aiuto ma la frutta l'acquisto nella bancarella vicina...
A questo punto la signora -che ci sa fare bene e non vuole demordere- mi propone di acquistare gli ananas a prezzi ottimi nel suo negozio nel centro di Sanur e che ha bisogno di soldi per i figli, ecc... Sono gia' lontano.
 
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