Visualizzazione post con etichetta Ecuador. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Ecuador. Mostra tutti i post

mercoledì 27 aprile 2016

Festa nel paese


Oggi è un giorno di grande festa a Zumbahua. La sua piazza d'asfalto e polvere dove domina il vento delle alture ora è popolata da camion e uomini che stanno allestendo i palchi delle orchestre.
Gente di città si mischia a montanari dall'afflato sottile delle Ande. L'eccitazione è notevole.

Il tempo è un inganno della mente. Sono nel pieno di una giornata infinita. Nelle vene scorrono le immagini di queste ultime venti ore. Ieri ero a Cuenca, adesso, dopo una camminata di diverse ore, sono nell'hostal di doña Anita affacciato sulla piazza. A 3550 metri di altitudine.

Quando i cinque palchi dei musicisti sono pronti, arrivano i festeggiati in corteo. Le donne indossano scarpe col tacco, gonne scure, gli immancabili cappelli di feltro e scialli finemente ricamati. Gli uomini ed i ragazzi vestono decisamente con minor grazia. Quello che sicuramente i generi non dimenticano di tenere sono i bicchieri e le bottiglie di birra Pilsener. Diverse persone sono già ubriache. L'orchestra immette nell'aria suoni al massimo volume.

Scendo in piazza e mi mescolo alla folla. Le feste sono in realtà due. Due matrimoni ed una comunione. I gruppi musicali si alternano ciascuno nel suo palco. Gli invitati ed i festeggiati cominciano a ballare in una frenesia di sonorità distorte, scialli svolazzanti e bottiglie mezze piene del liquido amaro che schiuma. Il sole forte dell'equatore riscalda ulteriormente l'atmosfera.

Con l'andare del pomeriggio e l'alternarsi preciso dei musicisti, le feste cominciano a degenerare: vedo un ragazzo corpulento steso a terra, uomini che urinano in ogni dove. Le ubriacature si incattiviscono. Madri e mogli cominciano a portare a casa uomini sfatti e senza più soldi. Quando arriverà il buio non mancherà la pelea, la lotta, le botte, le rivalità di paese.

 
Dopo aver fatto due passi, torno al balcone dell'hostal che guarda la piazza di Zumbahua. Nell'atmosfera obliqua e limpida del tardo pomeriggio, i colori vivaci di ponchos e scialli danzanti nonché caracollanti si mescolano nella caleidoscopia nella festa che libera l'alterazione della coscienza.
Dall'alto tutto sembra perfetto: la gente festante, la chiesa, più in là le case basse, e quindi montagne tappezzate da pascoli e campi coltivati. I boschi di sempreverde nelle conche vengono oscurati temporaneamente da nuvole gonfie che scendono verso il Pacifico.
Su quel balcone di Zumbahua, sferzato dalle brezze alte, qualcuno è illuso di essere stanco. La giornata non ha voglia di terminare.
  
Diritti riservati Creative Commons


domenica 28 febbraio 2016

La Panamericana da Cuenca verso il Nord

A Cuenca ci sono tanti turisti. Vago senza meta per le piazze del centro storico, imprimendomi le ultime immagini della città. Mi siedo a lungo su una panchina che domina l'imponente cattedrale, osservando i gitanti, i venditori ambulanti, gli alberi del parco. Nuvole veloci passano nel cielo. Il sabato è la giornata più bella della settimana. Per pranzo mangerò salchipapas in  qualche locale sgangherato fuori dal centro.
Prima che imbrunisca mi incammino verso il terminal dei bus. Prendo vie strette e poco trafficate. In tasca ho il biglietto dell'autobus notturno che porta a Latacunga: 6-7 ore di viaggio verso nord. 10 $. Il lungo tragitto di ritorno a cavallo della Panamericana che mi riporterà in Colombia comincia tra qualche ora.

Mi siedo sotto ad uno dei due televisori del terminal di Cuenca, in una posizione più possibile lontana dal trambusto. Davanti a me una famiglia di campagna mangia qualcosa portato da casa. Sopra il canale statale manda in onda il faccione tondo di Correa in visita a Guayaquil. Quattro ore alla partenza.
Nella fila di sedie di metallo della sala d'aspetto passano giovani, lavoratori che tornano il fine settimana nei propri villaggi, coppie di anziani in visita a parenti e turisti locali. Pochi gli stranieri. Nessun venditore ambulante. Sono almeno due ore che il presidente Correa parla in quell'inutile canale televisivo. 

Tempo lungo, tempo che riesco a fatica ad addomesticare, ma alla fine prendo lo zaino, vado in bagno, lavo i denti, passo il controllo dei biglietti e sono sul bus. Per evitare brutti scherzi ricordo espressamente al controllore di svegliarmi all'uscita di Latacunga. "Sì, papi", mi risponde l'uomo dall'accento colombiano.

Alle 5:30 del mattino il bus mi lascia all'uscita dell'autostrada di Latacunga, al desvío, a 2750 metri di altitudine. E' presto, è  buio e sono solo. Cammino veloce fino all'imbocco del bivio che porta verso la meta. In mezzo al crocevia d'asfalto è stazionato un pick-up della polizia con il motore acceso per mantenere il riscaldamento e le luci accese. Busso al finestrino e chiedo quando arriva il primo bus per Zumbahua. Mi rispondono che passa verso le 6.
Intanto il crepuscolo da qualche parte comincia a creare le prime ombre, gettando luminosità sulle montagne più belle d'Ecuador e della cordillera Central. Faccio autostop ma i rari automezzi non si fermano o si dirigono verso mete diverse. Arrivano altre persone. Un ragazzo mi racconta che la polizia presidia l'area perché ci sono stati episodi di malvivenza.

Alle 6:15, quando il crepuscolo dell'equatore illumina ormai chiaramente la cima conica del Cotopaxi, il vulcano che erutta fumo e cenere, da qualche parte, dalla Panamericana o da Latacunga, arriva un bus. Nonostante sia pieno all'inverosimile, il mezzo si ferma. 

Diritti riservati Creative Commons     

giovedì 28 gennaio 2016

Il Parque nacional Cajas, Ecuador

L'entrata del parco nazionale è posta appena sotto la strada che va ad occidente, verso l'oceano Pacifico.
La piccola guardia forestale ed il suo staff si eccitano per l'arrivo degli stranieri con l'autobus di linea. Sono il primo. Scambiamo due parole.
"Sei spagnolo?", chiede con sicurezza nell'atto di registrarmi.
La guardo per un intervallo di secondo, poi la bocca che frena un ghigno risponde: "Sì".
La funzionaria mi spiega qualcosa, mi avverte che è pericoloso uscire dai sentieri e, consegnatomi una mappa abbastanza incomprensibile, passa alla coppia di britannici dietro di me.

Dagli stabili della sede del parco si domina il panorama che caratterizza gli ecosistemi andini del
páramo: arbusti, erba dura mezzo ingiallita, piante grasse, macchie di alberi e qualche fiore isolato. In basso si adagiano diversi laghetti che ora trasmettono il grigio-bianco del cielo. Quest'ultimo trasporta nuvole che nel congiungersi con montagne di roccia e prati diventano più evanescenti. La vista non è poca cosa.
Comincio a scendere il sentiero umido di terra scura accompagnato dal vento.
Dopo aver attraversato il primo lago, le abbondanti indicazioni iniziali sul percorso cominciano a diminuire, lasciando spazio ad un tracciato sottile tra gli steli d'erba. Nei giorni passati ha piovuto molto, quindi l'acqua ed il terreno melmoso mi fanno capire quale sarà uno degli intralci principali lungo il percorso: il fango.
Dopo mezzo chilometro supero una coppia di ragazzi indecisi se andare avanti. Afferriamo cespugli per non scivolare sul fango nero di terra vulcanica.
Ad un certo punto il sentiero si dirama in due-tre percorsi. Ne provo uno che conclude nel nulla, ne provo un altro e vedo una traccia che sale oltrepassando l'avvallamento che congiunge due laghetti. Lo raggiungo. A questo punto non posso che andare avanti, viste le mie condizioni: nel punto più basso, prima di raggiungere una tavola di legno che fungeva da ponticello, quasi appeso ai rami di alberi bassi non sono riuscito a non sprofondare nel fango e muschio e acqua oltre le ginocchia.
Da un boschetto di alberi di queñua posto a riparo sotto una pendice si gode la vista verso oriente.
Decine di specchi d'acqua digradano verso il basso, tra cime arrotondate rivestite di prati e circondate da nubi. Oltre le montagne e la foschia si può immaginare la città di Cuenca, il gioiello del sud dell'Ecuador.     
In questo tratto di percorso alto, dove l'aria dolce di tropico si mischia a fragranze montane, l'olfatto si inebria, si confonde, perdendosi dentro sé stesso.
Discendo per altri pendii, costeggiando laghi stretti la cui limpidità del liquido contenuto in essi si trasmette da una conca all'altra. Anche se credo di aver sbagliato percorso vado avanti, sicuro della vista ampia che consente
l'orientamento. Perdo lentamente quota, tra erba, muschio e specie di agavi dalle foglie seghettate che offrono i loro fiori su steli massicci. A tratti compare il sole.

Sono passate almeno tre ore di cammino quando incontro il segnale finale del sentiero numero uno, ben sopra la strada asfaltata che scende a oriente.
Ho compiuto il giro largo di buona parte dei laghi e laghetti del parco nazionale Cajas, percorrendo tracce antiche sulla cordillera Central, librando il corpo vicino ai 4000 metri di altitudine.
Decido di tornare alla sede del parco per visitare il suo museo e poi fare autostop verso la città incantata, Cuenca.

giovedì 24 dicembre 2015

Il vulcano Chimborazo

In poche ore sono passato dalle miti temperature di Baños alla nebulosa entrata del parco del Chimborazo. Da 1800 a 4300 metri. I guardiaparco mi suggeriscono di coprirmi.
A Riobamba ho improvvisamente deciso di prendere il bus che passa per l'entrata del vulcano più alto d'Ecuador. Nel mezzo di trasporto mi sono seduto accanto ad una guida che è scesa con me. Dice che oggi non sarà facile vedere la montagna.
In un ambiente silenzioso, lunare, spazzato da nuvole perenni e dal vento che le accompagna, mi registro, lascio lo zaino presso l'ufficio del parco, indosso la giacca a vento economica e faccio rifornimento d'acqua nei bagni. I guardiaparco annuiscono con la testa. "Non abbandonare il sentiero, ci si può perdere", ammoniscono. Non sono preoccupati per me, sanno che so.

Respiro nuvole e vento sulla strada brulla di ghiaia grigia, con rari ciuffi gialli d'erba e cespugli contorti verso il basso come unica vegetazione. Ogni tanto il panorama circoscritto si apre per qualche secondo facendo intravedere l'altopiano che declina bruscamente verso nord-ovest. Il percorso sale lentamente, attraversando dolci avvallamenti extraterrestri che rapidamente cambiano direzione. Passa qualche jeep, mischiando polvere di terra con polvere d'umido. Quando la motivazione di salire verso il nulla si affievolisce nel freddo, con una prospettiva indefinita di osservare qualcosa, nel silenzio assoluto,
davanti a me la nebbia si apre disvelando una longilinea sagoma di vigogna. Zampe sottili, collo lungo, manto superiore quasi rosso. Come in un pezzo onirico di Floating Points, la visione dell'animale dal comportamento composto e attento dura poco. La nebbia lo riassorbe presto.

Dopo aver preso una scorciatoia e riguadagnato la strada decido di fare autostop. Il primo pick-up non si ferma, il secondo sì. Sono due uomini sulla quarantina; uno meticcio e l'altro nero. Sarà per il loro modo di parlare, per il fatto che il nero ha l'accento straniero e perché sullo specchietto dell'auto portano un crocifisso che chiedo loro se solo cristiani. "Sì, siamo sacerdoti", rispondono.
Il prete ecuadoriano è parroco di un quartiere della città di Riobamba, il nero viene dal Congo ed è un missionario.


In un lampo siamo al primo rifugio a 4800 metri. Saliamo insieme a piedi verso la base del Chimborazo, la montagna con la cima più distante dal centro della Terra. La vegetazione è ormai quasi sparita lasciando pieno campo a terra rossa lavica e pietre smussate. A circa 5000 metri raggiungiamo il secondo rifugio. Qui incontriamo la neve. I due sacerdoti sono felici di poter mettere i piedi sulle chiazze di neve ventata e di toccarla. A tratti il vulcano di 6310 metri disvela porzioni di ghiaccio e roccia che salgono alte, oltre le nuvole.
Deve aver nevicato durante la notte. Nell'equatore d'America anche a 5000 metri la neve dura poche ore.

 Diritti riservati Creative Commons     

venerdì 27 novembre 2015

La laguna di Quilotoa

Il raffreddore e la voce bassa li porto addosso da qualche giorno. Sono su un camion che lentamente mi accompagna alla laguna di Quilotoa. E' una delle tante mattine iniziate troppo presto.

Ieri ho chiesto a tre persone l'orario del bus per Quilotoa, tutte e tre mi hanno dato differenti orari. Per non sbagliare alle sei ero fuori dall'hostal, aspettando il mezzo pubblico nel freddo moderato di Zumbahua. Anita, la proprietaria dell'alloggio, mi faceva compagnia avvolta nel suo poncho chiaro. Il bus non è passato.
Si ferma un camionista e dice in quechua alla signora Anita che va a Quilotoa per una cifra tre volte superiore a quella del bus. No. Il camion aspetta, io pure. Alla fine conveniamo per un prezzo equo. Partiamo.

Passiamo per pianori coltivati e colline, salendo piano. Prima delle otto superiamo la sbarra d'entrata della località turistica che dovrebbe prevedere una tassa di entrata. Nessuno in giro. Fuori fa freddo e c'è vento. Altitudine 3850. Trovo una stanza, poso lo zaino, riempio la bottiglia d'acqua e sono pronto per esplorare uno dei siti più significativi dell'Ecuador.
Come per la laguna di Cuicocha http://travel-ontheroad.blogspot.it/2015/08/il-vulcano-cuicocha-sopra-otavalo.html , il lago di Quilotoa si trova all'interno di un immenso cratere vulcanico.
 
Appena giungo sul bordo del vulcano vengo colpito da una vista eccezionale: in basso laQ01 superfice d'acqua è attraversata da una fascia di riflesso solare che attraversa metà del lago; il liquido è increspato dal vento che viene da oriente. Più in alto, oltre le pareti che si gettano nel cratere, l'orizzonte vasto offre montagne verdeggianti senz'alberi e nuvole in lento, inesorabile, addensamento. Fortunatamente riesco ancora ad ammirare i due picchi innevati dell'Illiniza. Poco a destra si indovina la sagoma del vulcano che fuma, la montagna di ghiaccio e cenere che porta il nome di Cotopaxi.
Ho chiesto ad un locale da che parte è meglio iniziare il periplo del grande cratere, lui mi risponde: "In senso antiorario. Non lo fa nessuno". Sempre con l'indescrivibile eccitazione del nuovo, ancora in perfetta solitudine, dal punto di osservazione presso cui mi trovo imbocco il sentiero a destra. 
La traccia nitida e stretta lambisce il bordo del vulcano, e con il camminare si modifica lentamente la percezione degli elementi, dei colori, il muoversi del sole. A sud posso vedere in tutta la loro estensione le montagne rocciose e le valli immense di Zumbahua. Laggiù, in quei posti magici ancora incontaminati dal turismo, strati persistenti di nuvole in movimento ma stabili cominciano ad abbassarsi sulle cime verdeggianti che superano i 4500 metri, portando nei pascoli abitati dai lama gocce gelate di pioggia.

Dopo aver attraversato un altro osservatorio Q02sopra il lago di Quilotoa mi aspetta l'ascesa della parete più alta del cratere. Dal basso vedo arrampicare una irregolare e ripida striscia che si insinua tra cespugli bassi ed erba giallo-verde.
Il sudore scompare velocemente sulla cima del monte Juyende, 3930 metri di altitudine spazzati dal vento che viene da lontano; la cumbre è coperta da terra chiara, pietre e steli ricurvi. Da questa altezza posso cogliere l'interezza del vulcano e del grande lago depositato nel suo cratere. Il mio corpo magro assorbe visioni di colori limpidi e basilari.
Scendo veloce dall'altro lato della cima, conQ03 un occhio sempre attento alle nuvole scure che si rafforzano nel cielo.
Oltre la metà del circuito incontro un gruppo di tre ragazzi silenziosi, poi altri ancora muniti di guida locale.  
Dopo tre ore e trenta minuti, tranquillo e sicuro nella mia solitudine, malgrado il mal di gola ed il raffreddore, riguadagno l'osservatorio da dove sono partito. Ora nuvole grigie stanno coprendo tutto, trasformando le acque del vulcano di un colore verde cinereo, che il vento forte rende ancora più misteriose nelle loro profondità imperscrutabili.

 Diritti riservati Creative Commons     

mercoledì 28 ottobre 2015

La mente leggera nella stanza a 3550 metri

Sonno lieve che lambisce il dormiveglia. Apro gli occhi su una stanza scarna con un letto a castello vuoto e coperte di lana. Illuminata dalle luci della strada, la carta da parati delinea disegni semplici sul muro chiaro. Cartoline di posti lontani sono attaccate alle pareti. Su un comodino sono appoggiati un deodorante, una crema solare, l'orologio e l'astuccio della toilette. Dal soffitto spunta una lampadina bianca collegata a due fili elettrici colorati. Nel silenzio totale solo il vento ha il coraggio di insinuarsi negli spifferi delle finestre dell'hostal di doña Anita. 
Alle cinque del mattino, con il buio violentato dalle luci dondolanti dell'unica piazza di Zumbahua, sepolto da coperte pesanti e con il naso freddo, la mente lucida si inabissa incontrando l'estraniazione. Un buco senza oscurità, un momento dove la coscienzaCdP rimane attiva nel centro e vacillante in periferia. Riporto le iridi a fissare senza scopo la carta da parati. Non è la solitudine ne' una temporanea amnesia, non si tratta del ventesimo giorno di viaggio che inizia oggi, ma avviene in me qualcosa che assomiglia ad uno spaesamento consapevole, un vuoto che pone interrogativi, un vuoto. E nel silenzio arrivano domande senza risposta: cosa faccio qui? Chi sono?
Rimango immobile a lungo, sovrastato dalle coperte di lana grezza, nella nicchia di calore che si disperde lentamente.
In quei momenti non riuscii a comprendere bene l'estraniamento di quella mattina nella stanza dall'aria fredda; solo qualche ora dopo, tra praterie di erba dura dei 4200 metri della cordillera Central, illuminato dal sole forte dell'equatore, capii qualcosa di più, capii che quel vuoto, quelle domande appartenevano a piccoli pezzi di me che stavano mutando, rinascendo, alla ricerca di una ricollocazione mobile. Al viaggio.
L'erba d'alta quota scivola sotto le scarpe. I sandali avanzano rapidamente verso una meta sconosciuta. Dopo la visita al lago di Quilotoa tornerò a Zumbahua. 
Diritti riservati Creative Commons

mercoledì 14 ottobre 2015

Laguna di Quilotoa

LQ

sabato 26 settembre 2015

Attorno i ghiacciai del Cotopaxi

"Devi provare, probabilmente ce la farai". Con queste parole il gestore di un hotel di Latacunga mi convince a raggiungere il parco nazionale del vulcano che fuma, il Cotopaxi.
Sveglia molto presto, il bus che risale a nord la Panamericana, la strada che porta all'entrata del parco, l'incredibile.
Sono  da poco passate le otto e la buona sorte mi ha concesso di guadagnare i quasi venti chilometri deserti che portano al lago di Limpiopungo grazie a due insperati passaggi. Sono le otto e qualche minuto e il vulcano e' sopra di me, da qualche parte, nascosto dalle nuvole. Davanti l'altopiano di sabbia e terraLagL nera, cespugli bassi, i fiori, il vento forte. Verso sud-ovest solo nuvole, dall'altra parte il sole intenso illumina praterie e montagne sagomate dal tempo. Altitudine: in un soffio siamo a 3850. Quasi librandomi nell'aria fine dalla contentezza, nella totale solitudine mi dirigo verso il lago di Limpiopungo.
Nei pressi di questa poco profonda concentrazione d'acqua, quasi una palude, noto dei rumorosi uccelli dal petto bianco e anatre con il becco ed il capo grigio. Inizio il periplo del laghetto prendendo un sentiero oltre un ponte di legno. Mentre cammino piano e poi veloce con a lato colline verdi di cespugli ed erba dura d'alta montagna e le acque azzurre mosse dal vento, gli occhi si fissano su un rapace che con le ali immobili domina il cielo; girandomi per osservare il suo percorso all'improvviso vengo abbagliato da una visione: sopra uno strato di nuvole bianche in movimento ma ferme, si disvela la perfetta forma conica coperta di neve e ghiaccio di una delle montagne piu' famose Cot1del Paese. Il Cotopaxi, 5860 metri. Dalla sua punta estrema un pennacchio di fumo bianco si confonde con le nubi eteree.
Quando finisco il giro della laguna di Limpiopungo il vulcano e' quasi sgombro dalle nuvole. Sono le 9:30 e cominciano ad arrivare le jeep dei turisti. Decido di salire verso il rifugio del Cotopaxi. Questa mattina una guida mi ha spiegato che ci vogliono cinque ore di cammino per raggiungerlo.
Taglio diritto per praterie di cespugli, muschio mezzo secco e minuscoli fiori. Vento e panorami di Patagonia nell'equatore d'America. Dopo aver passato il lungo pianoro sono ai piedi della montagna. Per accorciare la via mi infilo in una gola torrentizia ora asciutta. Adesso diviene piu' facile perdere l'orientamento essendo sparita la visuale lunga che porta al rifugio. Nessun sentiero. Dopo aver risalito la gola ritrovo la strada sterrata e, in alto, il rifugio. Guardo l'altimetro e mi accorgo di aver passato i 4000 metri. Appena piu' in basso l'altopiano e piu' in la' cime smussate. La vista e' maestosa.
La vegetazione lentamente scompare lasciando posto a terra, ghiaia scura e macchie di fiori gialli senza stelo. Ma lo spettacolo e' uno solo: ripulita dalle nuvole, oltre la terra grigia, oltre macchie marroniCot2 liberate dalla neve, tra i ghiacciai azzurri e bianchi, si innalza la cima del vulcano Cotopaxi, bella e temibile e ambigua. Gravida di attivita' al suo interno e coperta di neve immacolata fuori, dove i venti sono inarrestabili.
Oltre quota 4700 raggiungo il parcheggio  delle jeep che portano i turisti al rifugio e piu' in alto. Sono contento, ormai il rifugio e' vicino e sono salito veloce, faticando un poco.
Non e´ passato mezzogiorno e mezzo quando arrivo al rifugio del monte Cotopaxi a 4860 m, mille metri sotto la cima alta che fuma. A due ore e cinquantacinque dal lago di Limpiopungo. Un leggero mal di testa vorrebbe farsi strada ma i panorami andini d'alta quota annichiliscono qualsiasi ininfluente disagio corporeo.
Diritti riservati Creative Commons

martedì 15 settembre 2015

In avvicinamento al vulcano Cotopaxi (5860 m)

Coto-i

venerdì 28 agosto 2015

Il vulcano Cuicocha sopra Otavalo, Ecuador

Il bus mi lascia all'entrata della riserva del lago di Cuicocha, a 3040 metri di altitudine. Nella lingua degli incas, il quechua, Kuychi Kucha vuol dire Lago degli dei. Parole che si riveleranno davvero appriopiate.
Il grande lago e' circondato da cime che sono le pareti confinali di un vulcano, il vulcano Cuicocha. 
In assoluta solitudine prendo il sentiero che si arrampica costeggiando le guglie sagomate di questa montagna, sviluppandosi per sette chilometri da una altitudine di 3050 metri fino a...
Dall'alto il lago e' davvero intrigante: acque azzurre e profonde increspate dal vento che soffia da qualche parte, forse da nord. In mezzo al lago svettano due isole a forma conica coperte dalla vegetazione. La brezza trasporta veloci nuvole basse che periodicamente offuscano una parte del cratere. Mi dirigo verso le nuvole.
Il sentiero di scura sabbia lavica e' contornato da cespugli, alberelli e fiori. Dopo quasi non averli considerati, la vista si focalizza meglio su dei fiori color viola chiaro: sono orchidee in miniatura che crescono dove l'umidita' delle nubi e' piu' consistente. Il verde intenso delle montagne, la vegetazione bassa, il cielo azzurro solcato da cumuli nuvolosi costanti che scompaiono dopo essere entrati nella bocca del vulcano, fanno quasi vedere panorami del nord della Scozia e di altre latitudini.
Dopo aver superato un coppia di stranieri arrivati al lago in taxi, le nuvole scompaiono, riportando il sole. Le cime piu' alte a nord che superano facilmente i 4000 metri invece, con il passare dei minuti, sono sempre piu´ invisibili. Si nota che la bassa vegetazione arborea scompare sopra i 3800 metri, lasciando piena liberta' all'erba.
A 3300 metri di altitudine, su una parete di media altezza del vulcano, la visione sul lago di Cuicocha diviene piu' unitaria. Steli d'erba fitta e bassi cespugli adornati da fiori bianchi e rosa scendono a picco nelle acque blu-cristallo della laguna, sfidando la pendenza e le raffiche di vento umido. Prima di salire ancora, il cammino
passa verso l'esterno del vulcano, scendendo un poco e nascondendo agli occhi la vista del lago. La pendenza aumenta davanti a quella che sembra la cima piu' alta della costellazione del cratere vulcanico. A quota 3450 si puo' ammirare dall'alto il lago dentro in cratere di Cuicocha. Le isole costituite da due coni di lava ciascuna
fuoriescono incredibimente dalla massa d'acqua, quasi che il vulcano voglia rivendicare nel tempo la sua antica supremazia, mentre masse nuvolose escono ed entrano senza sosta nella sua grande bocca. Intanto le alte cime alle mie spalle si stanno completamente coprendo.
Dopo due ore e mezzo completo il sentiero, tra boschi di pini e vento che trasporta lontane particelle d'umidita'. E' ora di raggiungere la strada asfaltata che porta a Quiroga e poi a Otavalo, in attesa di un raro autobus o altro mezzo di trasporto.

Diritti riservati Creative Commons
 
Creative Commons License
Travel Viaje Viaggio Voyage by Dr. Stefano Marcora is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at travel-ontheroad.blogspot.com.