venerdì 30 dicembre 2016

La musica favorita del 2016

Jamila Woods (USA) - Heavn - Closed Sessions Records - Genere: R&B, Soul, Hip Hop, Poetry




Bon Iver (USA) - 22, A Million - Jagjaguwar Records - Genere: Folk, Indie Rock






NxWorries (USA) - Yes Lawd! - Stones Throw Records - Genere: R&B, Hip Hop, Soul




Moodymann (USA) - DJ-Kicks - !K7 Records - Genere: House, Techno, Funk, Electronic




Menzione per i lavori di: Adrian Younge, Esperanza Spalding, White Lung, The Avalanches, Frank Ocean, Leon Vynehall, Bibio e James Blake.

venerdì 23 dicembre 2016

Sognando il Ladakh


Non ci sono autobus fino al pomeriggio e le jeep collettive arrivano sempre piene da Srinagar.
Sono a Sonamarg, 2640 m, reduce da una serie di trekking tra le montagne al confine con il Pakistan. Il solitario, crudele, asfalto mi porta alla dogana dei camion, sotto i cieli dell'Himalaya che sconfina in Asia centrale.
"Pregherò perché tu possa trovare un passaggio per il Ladakh"; con questo augurio ho da poco salutato il proprietario della pensione di Sonamarg. Brava persona.

Entro in un'immensa distesa di cemento dove pochi scalcinati camion Tata si apprestano ad essere pesati e ricevere il permesso per andare ad Est. Chiedo chi può darmi un passaggio a Kargil. Mi dicono di aspettare.

Galleggiando nel tempo nella valle che comincia a scaldarsi, la mattina dilatata mi concede il che attendevo: un camionista buddista diretto a Leh mi porta a Kargil per un prezzo onesto. Salto sul camion tappezzato da colorate bandiere tibetane e prendiamo la strada verso nord-est.

Pochi minuti dopo la partenza, oltre ad essere consapevole della velocità del camion, capisco che la giornata sarà impegnativa: un posto di controllo ci ordina di accostare per lasciare strada libera ad un lungo convoglio militare. Aspettiamo. Nel frattempo altri camionisti si fermano accanto a noi. Scendiamo dal mezzo.
Quasi subito conosco Chow, un conducente diretto alla Suru Valley, la mia destinazione. E' una persona socievole, giovane, e presto capisco anche sincera. "Vieni con me", mi propone. Parlo con il conducente buddista del primo camion, poi salgo sul mezzo di Chow. E qui comincia una nuova avventura tra i cieli rarefatti dell'Asia.

La via verso il passo è lunga. Risaliamo lentamente la valle alberata dove in alto cime parzialmente innevate cambiano continuamente la prospettiva. Quando la strada asfaltata si tramuta in sterrata la  pendenza diviene più critica. Dalla porta aperta sul mio lato sinistro vedo scorrere pietre, polvere, erbe e ruscelli. Jeep e auto ci superano. Il camion di Chow fatica a salire. Chow è contento di stare con il primo straniero che monta il suo mezzo; io godo la brezza, i luoghi, le ore che si allungano per allungare questa grande esperienza kashmira verso la sua decadenza. Tutto il giorno per raggiungere il Ladakh, a meno di cento chilometri. Va bene così. La strada di polvere e terra bianca diventa stretta con lo stringersi dei tornanti. Faccio foto dalla porta spalancata del camion: sotto di me il dirupo senza protezioni si getta vertiginosamente a valle.

Quando il passo per il Ladakh non è lontano, il camion di Chow si blocca. Il conducente si è dovuto fermare per lasciare strada ad altri veicoli ed ora non riesce a risalire una grossa pendenza. Prende la rincorsa ma non serve. E' troppo carico. Blocchiamo tutto il traffico sulla strada nazionale. In nostro aiuto arrivano altri camionisti kashmiri, curiosi e militari. Il camion sbuffa tonnellate di fumo nero, gratta la terra violentata, viene spinto da decine di uomini, infine la spunta.
La strada è ancora nostra. 



mercoledì 30 novembre 2016

Il lago Gangabal e l'Harmukh

"Vedrai che le nuvole oggi scompaiono. Stai attento ai cani dei pastori". Con queste parole Ali mi saluta. Lascio temporaneamente il rifugio montano a 3250 m situato alla base della valle dell'Harmukh per dirigermi verso un lago dal nome sconosciuto. Mi guidano i sensi e le spiegazioni non troppo esaustive di Ali.

Ieri ho raggiunto il lago Gangabal in un'ora e mezza. Le nuvole non riuscivano e nascondere la bellezza dei territori confinanti con il Pakistan. Ad un tratto mi sono trovato su una distesa di iris dalla quale dominavo parte del lago azzurro-ghiaccio. Le basse nuvole facevano il giro attorno a Gangabal ed io ero lì, nell'anfiteatro composto da pareti ripide senza più neve. Nel lago sottostante c'erano tende, cavalli, portatori e turisti; a Gangabal, 3640 m, ero solo.


Dal rifugio di Ali ora prendo una conca dove scorre il torrente. Gli alberi ed i cespugli sono ormai spariti; rimangono pietraie di massi chiari e pascoli. Salgo l'avvallamento senza fretta assaporando i luoghi; il clima è mite, senza vento.
Percorro la valletta per meno di un'ora e, prima di avvicinarmi ad un passo parzialmente innevato, guadagno un pendio ripido a sinistra dove sopra si delineano delle conche che potrebbero contenere un lago. Intanto veloci finestre d'azzurro compaiono nel cielo. Forse vedrò il massiccio dell'Harmukh.
  
Infine trovo il lago: un piccolo specchio di acque limpide che guarda verso nord-est. In fronte posso ammirare le cime aguzze della valle di Naranag. Come diceva Ali, la giornata sta volgendo al bello. Scendo un poco verso la mia ultima meta.

Da questa bassa cima a 3800 m, situata nel centro della valle, ho davanti a me tutto lo splendore di una delle aree più significative del Kashmir. Di fronte, a meno di un chilometro, è emersa dalle nuvole

l'Harmukh, la montagna di 5142 metri, con un possente ghiacciaio dal quale colano torrenti d'acqua; a destra domino Gangabal, di colore turchino, ed il suo lago sottostante. Intorno montagne e picchi di media altezza con i nevai in via di estinzione. Da qualche parte a nord c'è il Nanga Parbat.

Rimango ad ammirare il paesaggio che muta da questo punto di osservazione privilegiato. Sono seduto tra piccoli fiori dai colori sgargianti, primule con le foglie pelose.

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mercoledì 23 novembre 2016

Trekking verso il lago Gangabal

Non sono mai stato così vicino alla frontiera con il Pakistan.
Tutto quello che possiedo è nello zaino, sulle spalle: dieci chili di libertà. Nonostante il disordine intestinale che durerà mesi mi sento decisamente in forma. Naranag (2210 m) appena sotto e una foresta di sempreverdi vegliano sulla mia solitudine.

Sveglia quando il crepuscolo è al preludio dell'alba, una colazione frugale e quindi il sentiero che porta al lago di Gangabal ed alla catena dell'Harmukh. In Kashmir non è facile intraprendere un trekking di più giorni in autonomia: mappe scadenti, nessuna indicazione nei sentieri, pochi punti di appoggio, gente locale non sempre disposta a fornire informazioni.  

Alle sei sono ad una cinquantina di metri sopra il villaggio di Naranag, in una giornata afosa e piena di nuvole. Supero pastori nomadi con piccoli cavalli carichi di mercanzie, parlo con uomini che accompagnano poche capre di loro proprietà in alpeggio. Il sudore del passo veloce trasuda acqua e l'antibiotico iniziato a prendere ieri.

Il sentiero permane nella sua assoluta ripidità fino a quando non scollina. Qui mi trovo in una foresta distrutta da un vecchio incendio. Il percorso ben definito ora porta verso nord, costeggiando basse montagne e dando un po' di respiro al corpo.
Oltre i 3000 m i boschi, gli alberi, i prati sono nel loro massimo splendore, offrendo alla vista differenti specie di aghifoglie. Le rare persone che incontro rispondono che la via per Gangabal è giusta, stupendosi del fatto che sono solo.

L'orgoglio si somma alla contentezza quando finalmente entro in una conca immensa: a 3300 m, con un ritmo dolce dei Bent in testa, nonostante le nuvole basse stronchino parzialmente il panorama, riesco a vedere pascoli verdi infiniti, pietre e massi, gruppi di alberi e cespugli che si allungano verso il Pakistan e le montagne alte. Se non fosse per i prati rasati dai troppi animali penserei di trovarmi in altri mondi.

Una leggera discesa e sono quasi ai piedi della valle dell'Harmukh, di fronte al rifugio alpino dello stato del Jammu e Kashmir. Tre ore e dieci per arrivare. Da uno dei due stabili colorati d'azzurro esce Ali, il gestore. Indossa un pheran grigio, la tunica tipica kashmira. Dopo brevi convenevoli, con tranquilla fermezza gli dico quanto posso spendere. Ali mi guarda negli occhi, consapevole della cifra molto bassa che gli propongo. In altri casi forse avrebbe ribattuto, ma il suo intuito comprende che so. "OK, però dormi nell'edificio più piccolo con noi, e... non dire a nessuno che ti faccio questo prezzo". Annuisco, conoscendo bene quest'ultima parte di frase.

Lascio lo zaino in capanna e mi dirigo verso il lago Gangabal. Le cime dell'Harmukh rimangono ancora celate dalle nubi del lontano monsone.

martedì 15 novembre 2016

In avvicinamento al lago Gangabal, Kashmir


domenica 30 ottobre 2016

Il ghiaccio del Kolahoi, 5425 m

"Dieci anni fa il ghiacciaio arrivava fin qua", dice Manzoor, mentre risaliamo le ultime porzioni della Lidder Valley.
All'aria sottile dei tremila metri, al sole giovane che illumina di sbieco quello che gli occhi hanno la grazia di vedere, si aggiunge un'ulteriore piacevole notizia: i due figli dei nostri ospiti pastori ci accompagnano verso l'alto. I genitori infatti hanno lasciato un giorno libero ai due giovani per venire con noi. Il ragazzo è sveglio, impertinente, gioviale e veloce come un fulmine. Un animale di montagna. La ragazza sedicenne è un po' robusta, tranquilla ma per nulla timida. Come in altri casi in questa parte di viaggio kashmira a contatto con le famiglie, si è mostrata un paio di volte senza il velo islamico. Ho subito legato con i due ragazzi.

Assorbo con intensità il panorama che si modifica lentamente. Dai nevai passiamo a prati disseminati di pietre e massi, dove qua e là sorgono macchie di fiori che gli animali non possono mangiare. A 3350 metri, prima del ghiacciaio, la valle diventa pianeggiante, lasciando allargare il fiume dalle acque bianche. Controsole vediamo pastori con decine di pecore attraversare il torrente alla ricerca d'erba. Spronano gli animali a solcare le acque violente. Scatto foto dove il fluido trasparente di sorgente si mischia a quello nebuloso.

Quando diviene più faticoso camminare sulla neve, prendiamo un ripido sentiero alla nostra destra, e, oltre una collina coperta da cespugli simili a rododendri, la mente satura di passione scorge l'inaspettato: un picco perfetto e ripido di erge verso est, verso il Ladakh, a coronare la sequela di cime imponenti. "E' la punta più alta del Kolahoi", spiega l'amico Manzoor.

Con il figlio dei pastori raggiungo quota 3700, il bordo dell'antica morena dalla quale dominiamo il gruppo montagnoso.
Ai margini di una turbolenta Asia centrale, in una ordinaria, limpida, giornata estiva, veneriamo lo straordinario panorama sotto e sopra di noi fatto di rocce, ghiacciai, crepacci e rumore d'acqua che si mischia a quello del vento. Stiamo in silenzio di fronte alla vetta aguzza del Kolahoi, dove la Natura, come non mai, riesce a congiungere il corpo allo spirito.



lunedì 10 ottobre 2016

Le pareti del Kolahoi


martedì 27 settembre 2016

Insieme ai pastori kashmiri

La catena del Kolahoi mi lascia senza respiro. Ad accorciare il fiato non sono gli oltre 3000 metri dove ora mi trovo e neppure il primo, emotivo, flutto. E' la montagna più bella del Kashmir, il panorama austero che la circonda, il calore della famiglia di pastori che ci ha da poco accolti.
Al termine del secondo giorno di trekking attorno al Kolahoi l'amico e guida Manzoor mi introduce nella tenda dei pastori. Dai modi impacciati ed accoglienti degli ospiti, e dal fatto che Manzoor raramente accompagna persone nelle sue montagne, capisco che si tratterà di una grande esperienza di condivisione. E di conoscenza.
La famiglia è composta da padre, madre e due figli. Quando non si trovano nei pascoli i figli, un ragazzo e una ragazza, frequentano la scuola. L'uomo ha occhi chiari e penetranti, fisionomia centro-asiatica, di poche, accorte, parole. Il contrario della moglie chiacchierona. La figlia sedicenne rimane in tenda aiutando la madre ed il padre. Il ragazzo invece sale in alto con le pecore ed un altro pastore alle loro dipendenze.
Siamo arrivati relativamente presto in questa specie di campo base famigliare, quindi possiamo consumare un pranzo tardivo tutti insieme. Dopo il rituale tè salato, finalmente mangio un pasto con piacere: il curry che accompagna il riso è composto da verdure e pezzi di formaggio di pecora. La madre cucina su un piccolo forno di terracotta alimentato a legna.
Fuori c'è il sole, sotto la tenda la temperatura è perfetta. Facciamo un riposino con una montagna di coperte ed abiti come schienale, semisdraiati sui tappeti. Dall'inutilizzabile telefono mobile del padre escono
concilianti musiche kashmire. Un triangolo di panorama fa entrare nella tenda immagini di cespugli, neve decaduta, ed il rumore del fiume Lidder che viene dai ghiacciai. Questa straordinaria ordinarietà mi confonde ed esalta. Sono per il secondo flutto, il primo rischia di travolgere, offendendo le percezioni.

La tenda dove dormiremo per due notti è a perimetro rettangolare, grande abbastanza per ospitare 6-7 persone. Nei suoi tre lati è riparata da pietre accataste, mentre l'entrata, dove è situata la cucina, guarda verso valle. La piccola cucina è attorniata da legna da ardere pronta all'uso. I due teli impermeabili che la coprono sono sostenuti da pali di betulla. Da uno spiraglio esce a fatica il fumo prodotto dal focolare.

Con Manzoor esco a fare una camminata. Il pomeriggio è ormai avanzato. Saliamo un poco la valle alla ricerca del nostro cavallo lasciato libero a pascolare. Manzoor mi mostra una sorgente d'acqua dalla quale fare rifornimento. Dopo la tenda e una fascia di grossi massi, la stretta conca offre alle iridi nevai situati sul lato nord e cime che tentano inutilmente di serrare la visuale alla montagna di 5400 metri che annienta il fiato.
Tutto è uguale ed al contempo diverso: i monti, le rocce, i ghiacciai, i prati; tranne qualche particolare, le montagne esotiche che ho di fronte mi risultano nel loro insieme familiari... Sono le persone, le abitazioni, il modo di vivere degli esseri umani che confondono ancora una volta, riportandomi in un'altra vita, in un mondo passato che torna, che si riproduce quasi inalterato da migliaia di anni.

I ghiacciai del Kolahoi presto splenderanno della luce obliqua del tramonto.

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mercoledì 14 settembre 2016

Tra i pastori kashmiri


martedì 30 agosto 2016

Il Kolahoi disvelato

Il secondo giorno di trekking con la guida di Aru verso i ghiacciai del Kolahoi si fa decisamente più interessante.
Abbiamo da poco lasciato il rifugio a Lidderwat. Siamo in tre: io, Manzoor, il suo cavallo. Fin dal primo giorno del mio arrivo a Aru si è instaurato un rapporto di amicizia con questa persona. I suoi modi di fare spontanei e libertari, la sua giovialità, lo scarso interesse per il guadagno facile, forse per la prima volta, mi hanno convinto ad accettare la proposta di quattro giorni di trekking attorno la catena del Kolahoi, Kashmir.
La lucente mattina offre ai sensi tutta la bellezza dell'altopiano che stiamo attraversando: massi ed erba sottile ci portano dove la valle si restringe, lasciando spazio a sempreverdi, betulle ed altre latifoglie che puntano dritti in alto, verso lontane cime parzialmente innevate. Il Kolahoi rimane celato nella profondità della valle. Anche qui sono molti gli insediamenti di pastori nomadi che vivono in case di legno e pietra, oppure in tende.
Lentamente ci avviciniamo al fiume Lidder dalle acque bianche di ghiacciaio, estremamente rapide. Solo in Himalaya ho visto torrenti e fiumi tanto veloci, anche in presenza di pendenze irrilevanti.
Incontriamo qualche pastore, in discesa verso valle per fare provviste. Manzoor si ferma a scambiare qualche parola con loro. Camminiamo al passo del cavallo che trasporta tutto il necessario per quattro giorni. La mia guida segue l'animale spronandolo con un ramoscello o riconducendolo nel sentiero. "Non conosce questi percorsi", si giustifica.
La conca alterna praterie, dove pascolano cavalli, a pietraie con rocce di diverso tipo e morfologia.
Ad un certo punto siamo costretti ad attraversare un torrente in piena. "Il cavallo non riesce a passare", dice Manzoor, osservando lo stretto ponticello. Quindi, dopo essersi tolto le scarpe, procede a guidare l'animale nelle acque cristalline e violente del corso d'acqua.

A quota 2900 la conca esprime tutta la sua ponderosità, con alberi di betulle sul versante destro, mentre dalla parte opposta vedo cespugli, pietre e prati. Qualche nevaio scende fino in basso. In fondo si vedono solo i contrafforti del Kolahoi. Sono ansioso di ammirare la montagna alta.

La montagna alta comincia a disvelarsi dopo un'ora ancora di cammino. Dapprima una cima, poi un ghiacciaio, quindi un altra vetta ed un ghiacciaio ancora più massiccio. Eccomi, sono qui, grande montagna. Una delle catene più suggestive del Kashmir è sopra la testa, laggiù, verso nord. Nel frattempo stiamo attraversando alti nevai decaduti, frammisti a sfasciumi di massi e pietrisco. Il cavallo sale senza problemi. "Questa notte dormiremo presso una famiglia di pastori, miei amici", spiega Manzoor.
Vivere due giorni sotto la tenda di questa famiglia di pastori di pecore a più di 3000 metri di altitudine, sotto le vette ghiacciate del Kolahoi, 5425 m, sarà una grande esperienza.  

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giovedì 25 agosto 2016

Lidder valley


giovedì 28 luglio 2016

Aru, Lidder valley, Kashmir

Nella jeep collettiva c'erano solo accompagnatori di cavalli per turisti. 
Estraggo dalla tasca il  nome di una persona che potrebbe ospitarmi. Chiedo dove abita e mi accompagnano presso una grande casa di legno con il tetto in lamiera. Entro nell'abitazione e in cucina vedo due uomini che stanno fumando. Manzoor Kuche esce dalla stanza e mi abbraccia in modo familiare. Ancora non lo so, ma quest'uomo con i baffetti ed il gilet da pescatore diverra' una delle persone piu' significative del viaggio in Kashmir.
Su consiglio di Manzoor prendo il sentiero che sale verso una delle due valli che si diramano da Aru. In alto, immobili, salgono catene di roccia e neve di 4000 metri. Il percorso passa per una serie di boschi di sempreverde, per poi aprirsi in una moltitudine di pascoli bagnati da ruscelli. Qui sorgono diverse case dei pastori nomadi. Sono strutture di legno e pietra con il tetto piatto ricoperto da arbusti e terra. Se non fosse per il telo impermeabile che copre qualcuna di queste case, sono abitazioni che gli esseri umani costruiscono uguali da millenni. Al vedere un occidentale qualche bambino in tunica lunga esce dall'oscurita' per salutarmi e chiedere qualcosa.


Seguo a caso i sentieri piu' battuti, per decidere infine la meta: un passo verdeggiante.
Come ad Aru, 2350 m, qui l'aria ed il cielo sono limpidi, lontani dallo smog della perigliosa Srinagar.
Dopo aver passato altri insediamenti di nomadi comincio a risalire la piccola valle che conduce al passo dal nome sconosciuto. Pietre ed erba bassa costellano il sentiero. Impiego molto di piu' del previsto, ma, finalmente, raggiungo la meta. 3250 metri. Dal passo domino parte della valle del fiume Lidder, le cui acque bianche provengono dala catena montuosa del Kolahoi. Con l'andare della giornata le nuvole si addensano attorno alle cime piu' alte, nascondendole.

giovedì 30 giugno 2016

Srinagar vista da dentro

E' difficile vedere Srinagar da questo locale. E' possibile ascoltarla, annusarla, anche se il curry della cucina confonde i sensi. Usero' gli occhi del cuoco Aziz per osservare.
Il ristorante di Aziz di giorno pare chiuso, oscurato dal totalitarismo del ramadan: spingo una porta ed una zaffata di gas e odori pungenti mi investono. Una stanza di diciotto metri quadri, un tavolo perennemente unto, due sgabelli, zanzariere quasi completamente otturate da polvere, grasso e sporcizia, finestre coperte da tessuti scuri. Sopra un mobile in cemento e piastrelle sono inseriti il lavandino, alcune mensole ed un frigo. Cosa contiene il frigo? Alimenti deperibili e... la cassa dei soldi.

Sopra il lavandino e' situato uno scaldabagno elettrico misteriosamente avvolto da un antico cellophane trasparente. Ancora piu' a destra sono situati i fuochi del gas e pentole fumanti di alluminio annerite alla loro base. Aziz mi volta le spalle mentre cucina la mia mezza porzione di curry di pollo. Prezzo concordato in anticipo: 130 rupie. Il cuoco lavora svelto indossando un grembiule da cucina.
Sopra le piastrelle una volta gialle si agita una ventola di aspirazione. I muri del ristorante sono vecchi, scrostati e unti.
Aziz  mi serve su un piatto d'acciaio del riso bollito di qualita' ed un buon curry. Su due ciotole di metallo sono adagiate verdure fresche e cetrioli grattugiati nello yogurt.
Nel locale in apparente penitenza entra lo strombazzare continuo e compulsivo del traffico di Dalgate ed il vociare degli ambulanti. Dentro, con il sudore che scende verso il basso sotto forma di goccioline, ascolto musiche kashmire da una radiolina.
Aziz mi descrive con orgoglio la sua moschea Jama. Parla male del governo nazionale e locale, dei militari (indiani, non kashmiri) massicciamente presenti con armi pesanti in pugno in ogni angolo della citta'. Dice che la situazione non puo' che peggiorare. Probabilmente ha ragione riguardo l'ultima affermazione.
Sono l'unica persona seduta a mangiare nel piccolo locale di Aziz, anche se ogni tanto entra un uomo a spiluccare qualcosa o a fumare una sigaretta proibita.

mercoledì 8 giugno 2016

Ritorno a Bogotá

Da Barichara scendo a San Gil. 150 metri di dislivello e pochi chilometri di distanza fanno la differenza. Lascio il pomeriggio caldo e secco di Barichara per digradare nel buco dove si adagia San Gil. Piove a dirotto. Esco dalla buseta imprecando sottovoce. Quando arrivo all'hostal sono completamente bagnato; chiedo alla responsabile di prenotarmi un bus notturno per Bogotá.
Nell'hostal c'è solo una coppia di giovani europei che sta leggendo riviste patinate colombiane.
Anche se è lunedì, i bus serali con migliore orario d'arrivo sono pieni. Devo partire alle 21. Non importa, il biglietto è scontato e non devo andare fino al terminal di San Gil. Pago 30.000 pesos ed ho il voucher di viaggio con la buona compagnia Copetran. Nel frattempo fuori ha smesso di piovere. Esco a prendere un paio di birre Aguila al Metro.

Il viaggio scorre senza contrattempi: posto ottimo, televisore spento, autista non particolarmente creativo. Riesco a dormire un poco con il suono dei Cinematic Orchestra nelle vene.
La ferita provocata dagli ultimi giorni di viaggio viene un poco sanata dalla nuova visita alla metropoli grigia e stimolante, barocca e pericolosa che porta il nome di Bogotá, Distrito Capital.
La sensazione di perdita provocata dall'imminenza del ritorno non è oggetto di guarigione. Se la partenza è frattura, lo sfilacciarsi dei legami http://travel-ontheroad.blogspot.com/search/label/Prima%20della%20partenza , nel ritorno prevale la tristezza della privazione. 
Le ore volano e rapidamente iniziano le prime fermate per i passeggeri che abitano in periferia.
Sono le 4:07 quando entriamo nella gigantesca La Terminal di Bogotá. Recupero svelto lo zaino e mi infilo al caldo della struttura, non prima di aver dato una veloce occhiata al cielo nero e basso che si muove sopra la capitale.
Anche alle 4 del mattino la stazione dei bus è piena di gente. Trovo un posto quieto presso le partenze, in attesa che il crepuscolo faccia comparizione tra le Ande.

Sono le 5:50 quando la luce di un giorno lattiginoso mi vede uscire dal teminal. Il quartiere benestante di Salitre è già in fermento: autobus, auto e taxi scivolano da qualche parte, prima del grande traffico. Cammino tranquillo, osservando gente che esce a correre, gente senza speranza, donne e uomini di campagna diretti verso il terminal. Palazzi residenziali pieni di telecamere e filo metallico elettrificato.
L'indulgere nel quartiere mi costa caro: quando arrivo alla fermata El Tiempo, i bus metropolitani J6 diretti verso il centro sono inverosimilmente pieni. Sono quasi le 6:30 e la frequenza è alta, ma gli autobus sono impenetrabili. Dopo aver visto passare 4-5 mezzi non ho alternativa: spingo per trovare un alito di spazio nel bus. Alla fine le porte riescono a chiudersi senza mangiarsi lo zaino che tengo in mano.
Le braccia, il corpo, sono completamente indolenziti quando la gente comincia a scendere. Tutti usciamo al capolinea Universidades. Cammino fino a Las Aguas e quasi sono arrivato nel quartiere La Candelaria.
Nell'angusta Carrera 3 vige il perenne rumore delle busetas e dei taxi. Ai lati della strada gruppi di studenti in divisa si dirigono a scuola.



martedì 24 maggio 2016

Viaggiatori a Cartagena

Il caldo di Cartagena ti affoga. La pressione scende in basso, la pelle è unta da crema e sudore, i suoi pori sembrano bocche di vulcano. Tento di ingannare la fatica con la bellezza della città. Birra, aria condizionata, doccia fresca, acqua, vento. Sono dieci giorni che, dalle Ande, respiro polvere sulla costa caraibica. Non riesco ad ambientarmi. Torno verso il mio dormitorio nel quartiere Getsemaní.

Linda è distesa sulla parte bassa di uno dei tre letti a castello. Lo zaino sotto la rete, la stanza senza finestre, l'aria condizionata pulsante. Dove il suo corpo non è appoggiato, sul lenzuolo trovano spazio vari oggetti come mappe, biglietti da visita, chiavi, aggeggi da toilette, un asciugamano, dei braccialetti.
Linda parla bene il castellano. Viso e corpo abbronzato, capelli lisci, altezza media. Trent'anni. Il suo modo di vestire non particolarmente curato si sposa con il disordine del letto. Ma è solo spuria apparenza. Dietro gli occhi azzurri ed il modo fare distratto si cela una personalità. Psicologa, ha lasciato il suo posto di lavoro in Olanda per girare sulle strade del mondo, per conoscere meglio sé stessa. Ha lavorato nei bar, ha raccolto frutta in qualche piantagione nel centro America, e poi ha conosciuto gente che noleggia imbarcazioni nel mar dei Caraibi. Da mesi accompagna turisti su una barca a vela. Ora è in vacanza a Cartagena, in attesa di imbarcarsi di nuovo. E' interessante parlare con una persona che conosce le cose, dissimulando di conoscerle.
Linda mi racconta della sua instabilità con felice sicurezza. Linda è imprendibile. Vado a far la doccia e, al ritorno, è uscita.
   
Sempre in quel dormitorio di Cartagena de las Indias incontro Peter. Arriva da non so quale parte durante la sera, prima che tutti usciamo per andare incontro alle brezze notturne.
Peter giunge con un altra ragazza, ma non sono insieme. Lui è tedesco, lei è venezuelana. Lui prende il posto letto sopra Linda, lei sopra un altro. Si ignorano.
Anche se il giovane viaggia in modo autonomo, si individua la sua insicurezza nel muoversi, la non facilità nel parlare spagnolo, il difficile controllo delle cose. Chiede alcuni consigli. Peter studia architettura ed è in Colombia per viaggio. Mi pare molto interessato alle strutture coloniali. E' arrivato nel posto giusto.
Esco dal dormitorio di Getsemaní con l'aria condizionata. Nel traffico caotico della Calle 30 il crepuscolo emette gli ultimi affannosi respiri di luce.

giovedì 12 maggio 2016

Cartagena


mercoledì 27 aprile 2016

Festa nel paese


Oggi è un giorno di grande festa a Zumbahua. La sua piazza d'asfalto e polvere dove domina il vento delle alture ora è popolata da camion e uomini che stanno allestendo i palchi delle orchestre.
Gente di città si mischia a montanari dall'afflato sottile delle Ande. L'eccitazione è notevole.

Il tempo è un inganno della mente. Sono nel pieno di una giornata infinita. Nelle vene scorrono le immagini di queste ultime venti ore. Ieri ero a Cuenca, adesso, dopo una camminata di diverse ore, sono nell'hostal di doña Anita affacciato sulla piazza. A 3550 metri di altitudine.

Quando i cinque palchi dei musicisti sono pronti, arrivano i festeggiati in corteo. Le donne indossano scarpe col tacco, gonne scure, gli immancabili cappelli di feltro e scialli finemente ricamati. Gli uomini ed i ragazzi vestono decisamente con minor grazia. Quello che sicuramente i generi non dimenticano di tenere sono i bicchieri e le bottiglie di birra Pilsener. Diverse persone sono già ubriache. L'orchestra immette nell'aria suoni al massimo volume.

Scendo in piazza e mi mescolo alla folla. Le feste sono in realtà due. Due matrimoni ed una comunione. I gruppi musicali si alternano ciascuno nel suo palco. Gli invitati ed i festeggiati cominciano a ballare in una frenesia di sonorità distorte, scialli svolazzanti e bottiglie mezze piene del liquido amaro che schiuma. Il sole forte dell'equatore riscalda ulteriormente l'atmosfera.

Con l'andare del pomeriggio e l'alternarsi preciso dei musicisti, le feste cominciano a degenerare: vedo un ragazzo corpulento steso a terra, uomini che urinano in ogni dove. Le ubriacature si incattiviscono. Madri e mogli cominciano a portare a casa uomini sfatti e senza più soldi. Quando arriverà il buio non mancherà la pelea, la lotta, le botte, le rivalità di paese.

 
Dopo aver fatto due passi, torno al balcone dell'hostal che guarda la piazza di Zumbahua. Nell'atmosfera obliqua e limpida del tardo pomeriggio, i colori vivaci di ponchos e scialli danzanti nonché caracollanti si mescolano nella caleidoscopia nella festa che libera l'alterazione della coscienza.
Dall'alto tutto sembra perfetto: la gente festante, la chiesa, più in là le case basse, e quindi montagne tappezzate da pascoli e campi coltivati. I boschi di sempreverde nelle conche vengono oscurati temporaneamente da nuvole gonfie che scendono verso il Pacifico.
Su quel balcone di Zumbahua, sferzato dalle brezze alte, qualcuno è illuso di essere stanco. La giornata non ha voglia di terminare.
  
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giovedì 14 aprile 2016

Fiesta en el altiplano


mercoledì 30 marzo 2016

Le terre alte sopra Zumbahua

Il vento dell'oriente si insinua tra i fili d'erba e gli eucalipti facendo lamentare i loro rami. In alto oltre l'alto le nuvole si muovono veloci verso la loro estinzione, verso la costa pacifica. Dove tutto cambia.
Una notte passata senza dormire nell'autobus che ha solcato brandelli infiniti di Panamericana. Il desvío, l'autostop, un bus pieno oltre 4000 metri di altitudine. Un cammino inventato quasi al momento.
La stanchezza non esiste sulla strada di ciottoli e polvere che porta verso agglomerati di case e pascoli sconosciuti. Il cielo, l'aria, le montagne e uno dei panorami più belli e inesplorati della cordillera Central stanno tatuandosi irreversibilmente dentro me. Lo stomaco vuoto si nutre dello scenario offerto dai sensi.
Dopo venti giorni torno a Zumbahua.


E' domenica di un periodo festivo e la gente dei villaggi si reca a messa, riceve visite dai parenti che si sono trasferiti in città, suona musica e, naturalmente, beve tanto. I soldi non mancano mai per una sana ubriacatura.
Salgo rapido lungo la stradina nel centro della valle, salutando le sparute persone che incontro, rispondendo alle loro timide domande. Lama e cani ossuti sono presenti in ogni dove. I campi coltivati si sviluppano dalla parte più pianeggiante del centro della conca per poi salire, restringendosi in piccoli rettangoli verso le cime, prima delle rocce. In alto si scorge qualche pascolo immerso nel verde. Non lo so ancora, ma proprio uno di questi prati oggi riuscirò a raggiungere.

Dopo un'ora di cammino raggiungo un canyon dove anche i pick-up sono costretti a fermarsi. Una camioneta che mi aveva in precedenza sorpassato era carica di suonatori che ora trasmettono le loro vibrazioni da una parete rocciosa all'altra. Oltre il canyon mi rendo conto dell'estensione della valle che sto percorrendo: l'altopiano si dirama almeno in due bacini costellati da radi cespugli, qualche casa e soprattutto pascoli e montagne che salgono delicatamente oltre i 4500 metri. Percorsi immensi da esplorare.
 
All'imbocco di un nucleo di case incontro una coppia di signori che sta aspettando un passaggio per tornare a valle. Al loro fianco stazionano un paio di casse vuote di birra. L'uomo mi racconta storie di puma che braccano vitelli di toros bravos (tori cattivi, inselvatichiti) che attaccano anche l'uomo, e altre vicende misteriose che veleggiano nelle terre alte. Oltre l'alto.
Per il ritorno il signore mi consiglia di prendere un sentiero panoramico che sale la montagna.
 
Come ogni vicenda buona che si ripete e che si ripeterà, quando mi trovo sulla cima verdeggiante di uno degli infiniti corrugamenti montagnosi che digrada su prati d'erba dura verso nord, sparute gocce d'acqua gelata raggiungono la giacca a vento leggera. Ma le gambe sono indirizzate senza errore su Zumbahua dove domina ancora il sole. Le mani sono fredde ma la mente è piena di immagini suggestive della camminata. Nel vento forte ne estraggo due: la vastità del páramo e i bambini a cavallo di lama.
Apura don Choco, la giornata sarà lunghissima.


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lunedì 14 marzo 2016

Dintorni di Zumbahua


domenica 28 febbraio 2016

La Panamericana da Cuenca verso il Nord

A Cuenca ci sono tanti turisti. Vago senza meta per le piazze del centro storico, imprimendomi le ultime immagini della città. Mi siedo a lungo su una panchina che domina l'imponente cattedrale, osservando i gitanti, i venditori ambulanti, gli alberi del parco. Nuvole veloci passano nel cielo. Il sabato è la giornata più bella della settimana. Per pranzo mangerò salchipapas in  qualche locale sgangherato fuori dal centro.
Prima che imbrunisca mi incammino verso il terminal dei bus. Prendo vie strette e poco trafficate. In tasca ho il biglietto dell'autobus notturno che porta a Latacunga: 6-7 ore di viaggio verso nord. 10 $. Il lungo tragitto di ritorno a cavallo della Panamericana che mi riporterà in Colombia comincia tra qualche ora.

Mi siedo sotto ad uno dei due televisori del terminal di Cuenca, in una posizione più possibile lontana dal trambusto. Davanti a me una famiglia di campagna mangia qualcosa portato da casa. Sopra il canale statale manda in onda il faccione tondo di Correa in visita a Guayaquil. Quattro ore alla partenza.
Nella fila di sedie di metallo della sala d'aspetto passano giovani, lavoratori che tornano il fine settimana nei propri villaggi, coppie di anziani in visita a parenti e turisti locali. Pochi gli stranieri. Nessun venditore ambulante. Sono almeno due ore che il presidente Correa parla in quell'inutile canale televisivo. 

Tempo lungo, tempo che riesco a fatica ad addomesticare, ma alla fine prendo lo zaino, vado in bagno, lavo i denti, passo il controllo dei biglietti e sono sul bus. Per evitare brutti scherzi ricordo espressamente al controllore di svegliarmi all'uscita di Latacunga. "Sì, papi", mi risponde l'uomo dall'accento colombiano.

Alle 5:30 del mattino il bus mi lascia all'uscita dell'autostrada di Latacunga, al desvío, a 2750 metri di altitudine. E' presto, è  buio e sono solo. Cammino veloce fino all'imbocco del bivio che porta verso la meta. In mezzo al crocevia d'asfalto è stazionato un pick-up della polizia con il motore acceso per mantenere il riscaldamento e le luci accese. Busso al finestrino e chiedo quando arriva il primo bus per Zumbahua. Mi rispondono che passa verso le 6.
Intanto il crepuscolo da qualche parte comincia a creare le prime ombre, gettando luminosità sulle montagne più belle d'Ecuador e della cordillera Central. Faccio autostop ma i rari automezzi non si fermano o si dirigono verso mete diverse. Arrivano altre persone. Un ragazzo mi racconta che la polizia presidia l'area perché ci sono stati episodi di malvivenza.

Alle 6:15, quando il crepuscolo dell'equatore illumina ormai chiaramente la cima conica del Cotopaxi, il vulcano che erutta fumo e cenere, da qualche parte, dalla Panamericana o da Latacunga, arriva un bus. Nonostante sia pieno all'inverosimile, il mezzo si ferma. 

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venerdì 12 febbraio 2016

Ritorno a Zumbahua


giovedì 28 gennaio 2016

Il Parque nacional Cajas, Ecuador

L'entrata del parco nazionale è posta appena sotto la strada che va ad occidente, verso l'oceano Pacifico.
La piccola guardia forestale ed il suo staff si eccitano per l'arrivo degli stranieri con l'autobus di linea. Sono il primo. Scambiamo due parole.
"Sei spagnolo?", chiede con sicurezza nell'atto di registrarmi.
La guardo per un intervallo di secondo, poi la bocca che frena un ghigno risponde: "Sì".
La funzionaria mi spiega qualcosa, mi avverte che è pericoloso uscire dai sentieri e, consegnatomi una mappa abbastanza incomprensibile, passa alla coppia di britannici dietro di me.

Dagli stabili della sede del parco si domina il panorama che caratterizza gli ecosistemi andini del
páramo: arbusti, erba dura mezzo ingiallita, piante grasse, macchie di alberi e qualche fiore isolato. In basso si adagiano diversi laghetti che ora trasmettono il grigio-bianco del cielo. Quest'ultimo trasporta nuvole che nel congiungersi con montagne di roccia e prati diventano più evanescenti. La vista non è poca cosa.
Comincio a scendere il sentiero umido di terra scura accompagnato dal vento.
Dopo aver attraversato il primo lago, le abbondanti indicazioni iniziali sul percorso cominciano a diminuire, lasciando spazio ad un tracciato sottile tra gli steli d'erba. Nei giorni passati ha piovuto molto, quindi l'acqua ed il terreno melmoso mi fanno capire quale sarà uno degli intralci principali lungo il percorso: il fango.
Dopo mezzo chilometro supero una coppia di ragazzi indecisi se andare avanti. Afferriamo cespugli per non scivolare sul fango nero di terra vulcanica.
Ad un certo punto il sentiero si dirama in due-tre percorsi. Ne provo uno che conclude nel nulla, ne provo un altro e vedo una traccia che sale oltrepassando l'avvallamento che congiunge due laghetti. Lo raggiungo. A questo punto non posso che andare avanti, viste le mie condizioni: nel punto più basso, prima di raggiungere una tavola di legno che fungeva da ponticello, quasi appeso ai rami di alberi bassi non sono riuscito a non sprofondare nel fango e muschio e acqua oltre le ginocchia.
Da un boschetto di alberi di queñua posto a riparo sotto una pendice si gode la vista verso oriente.
Decine di specchi d'acqua digradano verso il basso, tra cime arrotondate rivestite di prati e circondate da nubi. Oltre le montagne e la foschia si può immaginare la città di Cuenca, il gioiello del sud dell'Ecuador.     
In questo tratto di percorso alto, dove l'aria dolce di tropico si mischia a fragranze montane, l'olfatto si inebria, si confonde, perdendosi dentro sé stesso.
Discendo per altri pendii, costeggiando laghi stretti la cui limpidità del liquido contenuto in essi si trasmette da una conca all'altra. Anche se credo di aver sbagliato percorso vado avanti, sicuro della vista ampia che consente
l'orientamento. Perdo lentamente quota, tra erba, muschio e specie di agavi dalle foglie seghettate che offrono i loro fiori su steli massicci. A tratti compare il sole.

Sono passate almeno tre ore di cammino quando incontro il segnale finale del sentiero numero uno, ben sopra la strada asfaltata che scende a oriente.
Ho compiuto il giro largo di buona parte dei laghi e laghetti del parco nazionale Cajas, percorrendo tracce antiche sulla cordillera Central, librando il corpo vicino ai 4000 metri di altitudine.
Decido di tornare alla sede del parco per visitare il suo museo e poi fare autostop verso la città incantata, Cuenca.

mercoledì 13 gennaio 2016

Parque Cajas, Ecuador


 
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