giovedì 31 dicembre 2020

Punta di Jandía, Fuerteventura

 

31 dicembre 2020. Ho appena terminato il cammino che separa la fine di questo lembo di mondo dalla mia destinazione. Gli occhi sono ancora impregnati da tutti quei 26 chilometri di costa oceanica che dal faro di Jandía portano a Morro Jable. Quale regalo migliore la Natura poteva farmi?

La mattina inizia con l’autobus che mi lascia nel minuscolo villaggio di Puerto de la Cruz. Raggiungo il faro passando per la costa nord ovest di Punta Jandía. Onde impetuose della riva di Barlovento si infrangono senza sosta sulla scogliera scura, nel tentativo di addolcire le rugose rocce vulcaniche. Il vento moderato da nord rende piacevole il movimento.

Il faro sembra quasi lì ad aspettarmi, come attende ogni santo giorno dell’anno i  navigatori di mare e terra, avvisando che qui l’isola inizia o finisce. Insieme alle auto noleggiate dei turisti arriva un gruppo di rumorosi quad.

Lascio la Punta per tornare indietro, questa volta lungo la più tranquilla costa di Sotavento. La stretta fascia di terra che divide le due rive è costituita da sabbia proveniente da una friabile e chiara roccia basaltica.

Cammino respirando forte lo iodio della bassa marea, dentro la mite luce del sole invernale, scendendo e risalendo scogliere, lasciando impronte evanescenti sulle spiagge che compaiono all’improvviso, veicolato dall’esperto movimento del corpo.

Dopo qualche chilometro vedo decine di surfisti accalcati nello stesso posto in attesa dell’onda congeniale. Sono quasi tutti giovani e stranieri, muniti di furgone o camper.

Mentre le montagne a nord si avvicinano, mi concentro ancora una volta sulla flora e fauna del Parco naturale di Jandía. Le piogge di dicembre stanno

modificando il deserto: i cespugli emettono nuove gemme e foglie, dalla sabbia e dalla ghiaia vulcanica crescono piantine dai piccoli fiori; impollinatori, cavallette o grilli,  lucertole e piccoli volatili si fanno più gagliardi. Quasi tutto il paesaggio sta subendo una temporanea mutazione, colorandosi di verde.

Il vento mi soffia nella parte sinistra del corpo; quando sono al suo riparo quasi sudo, sulle scogliere le maniche corte della camicia sentono il fresco.

Dopo dieci chilometri abbondanti di percorso ritrovo la spiaggia nascosta dove tempo fa avevo fatto il bagno. Ridiscendo la sua gola stretta e rimango a osservare le onde che si buttano sulla arena muovendo, negli angoli della minuscola insenatura, levigate pietre scure.

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martedì 29 dicembre 2020

Playa de Sotavento, Fuerteventura sud

La destinazione di oggi è uno dei luoghi più rappresentativi di Fuerteventura: la spiaggia di Sotavento di Jandía.

La guagua mi lascia alla fermata Barranco de los Canarios. Sono ancora indeciso se visitare l’entroterra o dirigermi subito verso la costa. Una signora che gestisce il vicino distributore di benzina mi consiglia la seconda opzione, spiegandomi come arrivare.

Dopo diversi giorni di vento forte da sudest e di foschia leggera causata dalla Calima, oggi sono tornati da nord gli Alisei che arricchiscono la volta  con nuvole passeggere. Quasi subito arrivo al punto panoramico di El Salmo. La giornata estremamente tersa permette di guardare lontano: in fondo Costa Calma con le sue moltitudinarie costruzioni pacchiane; avvicinandoci con lo sguardo verso sud spunta qualche catena alberghiera, e poi…

E poi inizia un lembo stretto di sabbia gialla che naviga parallelamente alla costa per diversi chilometri. Una striscia sottile che con la bassa marea divide armoniosamente l’acqua marina, creando delle lagune naturali. La Playa de Sotavento.

Appena sotto la strada trovo il sentiero che da Corralejo porta alla Punta di Jandía, attraversando l’isola di Fuerteventura.

Scendo la collina e mi trovo sulla destra un piccolo parcheggio e davanti uno spettacolare muro di sabbia verginale. La potenza del vento ha accumulato in un lato del promontorio una quantità enorme di arena. Salgo sulla costa della duna alta alcune decine di metri e mi butto a capofitto nel punto con maggiore pendenza sprofondando di piacere  nell’elemento.

Il sentiero costeggia la riva dall’alto, permettendo una migliore visione della lingua sabbiosa che corre tra le acque dell’oceano. L’entroterra di questa zona di Jandía è costituito da colline chiare macchiate da cespugli dai minuti e giovani fiori; nella sabbia stanno germinando semi e piccoli bulbi dall’esistenza spuria.

Anche la mia giornata si sta accorciando, quindi decido di scendere e percorrere il lembo di terra che divide il mare. Prima che la marea renda più uniforme l’opera della Natura.


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domenica 27 dicembre 2020

Cofete, Jandía. Fuerteventura sud


La guagua (autobus) che porta a Cofete è una via di mezzo tra un camioncino e una lunga jeep. Prendo posto sulla sinistra, dalla parte del mare. Alle 10 siamo sulla strada che porta verso ovest. Quasi subito il percorso diventa sterrato e il mezzo a quattro ruote motrici si trova al meglio. Il mare, il deserto, le colline di Fuerteventura, sotto il sole e il cielo, dal finestrino impolverato della guagua diventano una cosa unica: i dettagli, i componenti si uniscono in un puzzle perfetto.

La strada costeggia basse montagne, bordi affilati di crateri per nulla antichi che hanno perso le sembianze di vulcani.  Il terzetto di ragazze tedesche sedute dietro esclamano di piacere quando individuano spiagge di sabbia chiara che si aprono inaspettatamente tra le scogliere.

Dopo diversi minuti di viaggio il mezzo gira verso nord, inerpicandosi tra tornanti ai cui lati primeggiano pietre scure smussate dal tempo e cespugli che riprendono vita grazie alle avare gocce di pioggia cadute in questo dicembre 2020.

Arrivati ad un passo, la guagua si ferma. L’autista ci guarda dallo specchietto dicendoci che possiamo scendere per fare foto. Il panorama da questa parete vulcanica ci mostra in basso una infinita spiaggia sulla quale si infrangono potenti onde che danno vita a una lunga scia di spray marino veicolato dai venti Alisei. Cofete.

Nella discesa la vegetazione  aumenta di intensità: pur nella loro lotta quotidiana cespugli, qualche erba e cactus riescono a vincere l’austerità del territorio.

L’autobus passa il minuscolo villaggio di Cofete, quindi si ferma di fronte alla distesa di sabbia.

Dopo aver camminato per diversi chilometri sul lungomare, incantato dai suoni delle onde e del vento, raggiungo Cofete per prendere il sentiero che mi riporta a Morro Jable attraverso Gran Valle. All’inizio del percorso il cartello indica un tempo spropositato per raggiungere la destinazione: quattro ore e cinquanta.

Sono le 14:30 e il sole a dicembre tramonta alle 18. Dovrò accelerare molto il passo. Non sono preoccupato.

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domenica 22 novembre 2020

Tra i vigneti di La Geria, Lanzarote


Appena dopo il paese di Uga i piedi sperimentano i lapilli del sentiero che entra nella regione vitivinicola di La Geria. Il paesaggio è straordinario: colline vulcaniche tappezzate da viti e da qualche altro albero da frutto in un ambiente quasi surreale che pare costruito da un artista.

Percorrendo il sentiero in lieve ascesa riesco a vedere meglio la sistemazione dei vigneti in un territorio estremamente ostile. Le essenze sono collocate a gruppi in poste sotto il livello del suolo per sopportare meglio i venti da nord e il caldo. Attorno alle singole coltivazioni sorge una mezzaluna, una trincea di muretti a secco. Tranne le coltivazioni più recenti, la maggioranza di questi frutteti non beneficia dell’irrigazione a goccia. Sono mesi e mesi che cade nulla dai cieli di Lanzarote.

Vedo un agricoltore alle prese con le sue piante e mi avvicino. <Buon giorno, che bel paesaggio! Sta mettendo a posto il terreno attorno alle viti?>

<Sì, il vento e il secco fa franare la terra attorno le piante, allora bisogna governare ogni singola posta>, mi risponde, aggiungendo: <la maggioranza dei coltivatori qui hanno poche centinaia di piante e lo fa per diletto, meno per guadagno.>

Rimaniamo a chiacchierare una decina di minuti utili al sottoscritto per conoscere qualcosa di nuovo. I lapilli, la ghiaia vulcanica, riescono a trattenere la poca umidità, consentendo alle radici di vite di svilupparsi. La Malvasia è una delle cultivar preferite.


La strada agricola continua verso La Asomada fino a un cartello che indica il sentiero che porta al cratere che vedo sulla sinistra. Decido di salirvi per una traccia ripida.


Il vento da nord è molto forte dalla bocca del vulcano. Una bocca imperfetta dato che la lava ha fatto franare buona parte della sua parete circolare. Qui, sulla terra divenuta improvvisamente chiara, sotto la possanza del vento e del sole di una calda giornata novembrina, lo sguardo domina oltre Arrecife a nord, e la magnificenza della isola de Lobos e le prolungate dune di sabbia paglierina di Corralejo verso sud.

 

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martedì 3 novembre 2020

Jandía


 

domenica 1 novembre 2020

Verso Punta Jandía, Fuerteventura

 Mi trovo all'estremo sud di Fuerteventura in una calda giornata di novembre 2020. Esco dal pueblo di Morro Jable e subito sono nel deserto. I suoni dei venti Alisei rimangono anche oggi dormienti; solo una brezza sottile da est accompagna il cammino.

Quasi subito incontro il sentiero che porta a Punta Jandía. I piedi pestano terra, pietre, rocce nere. Risalendo la dorsale delle colline vulcaniche il paesaggio si allarga: spiagge chiare e costa sabbiosa a nord, scogliere brulle e insenature si caratterizzano a sud. In questi giorni di quasi Calima l'oceano Atlantico è tranquillo. Dall'alto posso distinguere che la strada asfaltata che porta alla Punta presto diventa sterrata. Su di essa scorrono svogliate auto a noleggio dei turisti e vecchi, impolverati, SUV dei residenti.

 Più avanti il percorso pedonale si congiunge alla strada, quindi si avvicina alla costa. Cespugli quasi secchi situati nei luoghi riparati dal vento attendono con ansia qualche goccia di salvifica pioggia che da mesi e mesi frusta le aspettative della natura.

Lascio il sentiero per lambire da vicino scogliere che si gettano nel mare. Lascio il deserto e i vulcani per toccare l'acqua colma di vita. Quasi subito si apre una spiaggia moderatamente grande dove alcune persone giunte in auto prendono il sole. 

Dopo l'insenatura sabbiosa la scogliera risale per ridiscendere in uno stretto canyon. Il forte sole e il movimento mi stanno scaldando troppo. Decido di vedere se riesco a raggiungere il mare attraverso questo antro sinuoso. Passo alcuni facili balzi rocciosi in discesa, mentre ai lati le pareti delle scogliere rimangono alte. Il rumore delle onde si fa più vicino.

Presto vedo una piccola spiaggia di sabbia gialla che si sviluppa tra le rocce. Dopo dieci chilometri di percorso toccare la segreta insenatura diventa un piacere incalcolabile. Nonostante l'ora centrale riesco perfino a trovare l'ombra dentro brevi cunicoli scavati dalla potenza delle onde. Un bagno rinfrescante sarà il passo successivo. 


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sabato 24 ottobre 2020

Humahuaca, Jujuy, Nord Argentina

 


La montagna dei 14 Colori, l'Hornocal

 Nella stazione degli autobus di Humahuaca si respira il caos contenuto di molte realtà andine. Sono forse in Bolivia, Perú, Ecuador? Bastano poche parole della signora che vende i biglietti per distinguere il suo accento argentino con tracce di quechua nel castellano. Argentina über alles. Sempre.
Dopo aver capito che per arrivare alla montagna dei 14 Colori non esiste trasporto di linea, mi tocca mestamente cercare un tour organizzato. Ne trovo uno a un prezzo vantaggioso. Ci diamo appuntamento tra una ora.

Il minivan carica turisti fino a riempirsi. Davanti a me ci sono quattro giovani palestrati, bianchi, di città. Il resto del gruppo comprende una famiglia, un ragazzo e una ragazza magra molto abbronzata. Dalla cittadina di Humahuaca, 2900 metri, il van imbocca una polverosa strada sterrata all'interno di una valle sconfinata e deserta. Cespugli e ciuffi d'erba colonizzano l'altopiano andino. Il percorso sale lungo tornanti e brevi rettilinei sotto il sole limpido di questo sabato 25 gennaio 2020. I quattro palestrati davanti a me bevono acqua e si scambiano battute con aria supponente.
A 4200 metri il mezzo si ferma per farci ammirare la valle di Humahuaca. Scendiamo. Fiori gialli contrastano con le montagne brulle e il cielo perfettamente azzurro. Lontano e verso ovest si riescono a individuare picchi innevati. L'aria fresca è mitigata dal sole.

Il punto panoramico dal quale si osserva la catena montuosa dell'Hornocal o montagna dei 14 Colori si trova a 4300 metri. Da questo luogo diparte un sentiero in discesa che si avvicina maggiormente alle vette dalle formazioni calcaree patrimonio UNESCO.

Ancora una volta quasi toccando la Bolivia cammino verso l'Hornocal fino a un luogo isolato dove posso contemplare gli austeri panorami a est delle Ande.
La montagna dai 14 Colori è di fronte a me, separata solo da una valle. Questa meraviglia naturale è conformata da diversi tipi di roccia e di ambienti che con la pressione terreste hanno dato vita a massicci che mettono a nudo le diversità geologiche. Rimango per diversi minuti a osservare le tonalità di colore che velocemente si alternano spostando il punto di visione. L'erosione e il tempo hanno fatto diventare la catena montuosa molto frastagliata, scomposta in decine di picchi e avvallamenti; quello che conferisce unità all'Hornocal è la sequenza armonica delle fasce dalla stessa cromaticità che esprimono un periodo geologico.
Inspiro l'aria rarefatta con voluttà, seduto, sprofondato di piacere nell'arida terra sassosa. Il cammino d'individuazione continua.

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martedì 29 settembre 2020

Canyon de las Señoritas


 

sabato 19 settembre 2020

Dintorni di Tilcara, Jujuy

Il sentiero tracima nelle profondità di una gola. Sotto scorre un torrente invisibile che arriva a valle senza essere assorbito dalla sete del deserto.
Il mio cammino austero non è quello pieno di turisti che porta alla Garganta del Diablo di Tilcara. E' un sentiero di pastori, di contadini, che si addrentra in valli, altopiani e montagne. L'ho individuato quasi per caso, osservando il territorio e chiedendo agli agricoltori.

Risalgo veloce il percorso ben tracciato, accompagnato da una temperatura mattutina ideale, mentre il sole e la luce diritta mi dicono che in questo fine gennaio 2020 siamo ancora in piena estate australe.
A sinistra continuo a costeggiare dall'alto il canyon dalle profondità impenetrabili, orgoglioso del cammino che stimola la consapevolezza di sé stessi. Alla fine della ripida ascesa oltre i 2600 metri, il sentiero curva a destra per entrare in un altopiano. Prima di violare il nuovo paesaggio mi volto ad ammirare la valle del Río Grande con le sue acque rosse, il verde prossimo ai corsi d'acqua e le montagne policrome che deliziano tutta l'area UNESCO delle Quebradas de Humahuaca. Il paese di Tilcara è nascosto da colline rocciose.

Una breve discesa e sono nel mezzo della valle deserta, così grande che potrebbe essere considerata un altopiano. Il sole è raramente oscurato da nuvole passeggere. Il cielo azzurro di montagna contrasta con la terra, la vegetazione e la roccia grigia che tende alle diverse tonalità di rosso. L'ambiente è così piacevole che quasi vorrei saltare dalla gioia: cactus Cardón, cactus Perro, cactus, cespugli di altre piante grasse sottili, appuntite, spinose, sopravissute alle quotidiane sfide che l'ambiente porge loro. In omaggio alle piogge del periodo qualche fiore ramingo spunta dal basso. A tratti ho l'impressione che da qualche roccia soprastante balzi un magnifico puma. Nessun puma mai vedrò, nessuna banda di fuorilegge pieni di polvere armati di pistole e di cavalli, in cambio vedo da lontano un cavaliere che alza la mano in segno di saluto. 

Cammino per qualche ora in questo altopiano americano senza conoscere la meta, attento a non perdere la strada, appagato dal muovermi nella Natura, con i sensi abbacinati dal sole e da quello che mi circonda, con le colline a nord-ovest che toccano i 4000 metri. Ancora una volta contaminato dalla potenza del viaggio.

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martedì 25 agosto 2020

L'infinita godibilità del transito: Tilcara, Nord Argentina

«Le canto porque (la Luna) ya sabe de mi largo caminar» Atahualpa Yupanqui

 Lame sottili di sole filtrano tra le foglie dei pioppi. Montagne colorate e clima stupefacente mi circondano. È questa l'eterna primavera che cerco nel mio vagare. Gennaio 2020 a sud dell'Equatore perso oltre i duemilatrecento metri delle Ande argentine. L'autobus per Tilcara arriva in anticipo. Lo stato di transitorietà, il movimento senza uno scopo apparente è la mia droga. Prendo posto insieme ai molti turisti nazionali ancora accompagnati dalla spensieratezza.

Ieri ho cenato in una peña folclorica di Purmamarca. Roba per villeggiatori con prezzi non economici, ma dovevo farlo. Buona musica dal vivo prodotta da un gruppo locale. Ad un certo punto il leader del conjunto ha cominciato a chiedere la provenienza dei commensali. Quando è toccata a me ho detto con noncuranza che venivo da Santa Cru(z), Bolivia orientale. Qualcuno si è girato verso di me. Il "cruzeño" si è poi commosso quando ha risentito Luna Tucumana interpretata dal gruppo musicale.

Ancora con le note di Tucumán querido nel cuore attraverso spazi semidesertici della remota Provincia di Jujuy. Quasi subito l'autobus raggiunge la Ruta 9 che collega Buenos Aires con Tarija, Bolivia.  Prendiamo la direzione Nord. La valle che percorriamo è ampia, illuminata di sbilenco da un sole accecante. Dove scorre i torrente rosso di limo crescono pascoli, orti, campi coltivati e alberi; risalendo con gli occhi la vegetazione si limita a cespugli, ciuffi d'erba e cactus. La terra, i sassi, la roccia mostrano a nudo attraverso i loro colori le differenze geologiche che quei territori hanno vissuto. Panorami meno estremi di Atacama e senza cime innevate di 5000 metri in vista; panorami da ovest selvaggio dalle montagne smussate, dalle valli secondarie che si incuneano in profondità misteriose.

Molto presto arrivo a Tilcara. Il bus si ferma nel polveroso terminal di provincia. L'aria fresca odora di tortillas, di fiori e di secco. Ad un signore che scende da un datato pick-up Ford chiedo dov'è l'ufficio comunale del turismo. Ho bisogno di un alloggio. L'uomo di mezza età mi risponde con quel modo quasi compassato ma gioviale, gentile e sincero di molti argentini.

Quanto mi fermerò nelle Quebradas de Humahuaca? Molto più del previsto.

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domenica 23 agosto 2020

Vagando libero attorno Purmamarca

 

mercoledì 22 luglio 2020

Purmamarca, Jujuy, Argentina

Dopo 8 ore di viaggio sono a Purmamarca. L'autobus della compagnia Andesmar ci ha rapiti, ammaliati, indolenziti per 600 chilometri attraverso la catena andina che dal Cile ci porta a Jujuy, Argentina. Dislivelli impossibili e visioni difficili da descrivere che dal deserto di Atacama portano all'altopiano e quindi alle quebradas.

Salto giù dal bus e tocco ancora una volta la terra argentina. Insieme alla Bolivia tropicale, l'Argentina è il posto del cuore.
Oltre la barriera di pioppi che sorridono all'estate australe, incontro il paese di Purmamarca, 2300 metri sopra il livello dei lontani oceani. Oltre Purmamarca, le montagne dai molti colori della Quebrada de Humahuaca, patrimonio dell'umanità UNESCO.

Dopo aver trovato con fatica un alloggio prendo subito la strada che porta al Paseo Colorado. È un tardo, lungo, pomeriggio del gennaio 2020, affollato da turisti argentini provenienti dalle regioni più a sud. Il sole è nascosto da uniformi nuvole volatili.

Le terre aride di queste zone partoriscono gli splendidi cactus Cardón: piante massicce, compatte, dai fusti estremamente aggraziati. Insieme a quelli della Bassa California sono i cactus più spettacolari mai visti. Il Paseo Colorado attraversa panorami del nord del Messico, di film ambientati nel Far West statunitense: cespugli spinosi, terra arida, sassi dalle mille tonalità e cactus. Polvere di meraviglia che penetra lentamente nel circolo sanguigno. Tutto viene incorporato.


Lasciato il paese di Purmamarca a sinistra si innalza un dosso, una collina le cui venature orizzontali sono diversamente colorate. La montagna dai Sette Colori. Più avanti la strada si restringe quasi in una gola la cui terra circostante è uniformemente di rosso mattone. Successivamente il suolo diventa grigio, verde, beige, marrone.
Scambio qualche battuta con una coppia di Tucumán i quali mi consigliano di visitare Tilcara e Humahuaca. Lo farò.
Quasi tutti quelli che incontro hanno il thermos di acqua calda per la sacra yerba mate. Obvio.

Sono stanco. È ora di tornare. Devo acquistare del vino, frutta e qualche alimento rigeneratore.

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martedì 21 luglio 2020

Laghi salati in Argentina


venerdì 26 giugno 2020

Da San Pedro de Atacama verso l'Argentina

 
L'autobus per l'Argentina mi aspetta nella stazione di San Pedro. Qualche cileno, qualche argentino, molti viaggiatori occidentali. Piccola babilonia di cani randagi dagli occhi dolci alla ricerca di qualcosa di commestibile: dovere offrire una timida carezza a qualcuno di loro.
Lentamente un altro magnifico giorno rinasce dalla terra fredda del deserto di Atacama.
Invincibile sarà la data del 22 gennaio 2020. Ancora nell'estate australe attraversando frontiere. Velocemente prendo posto nel piano superiore del bus salutando il singaporiano seduto accanto a me. La compagnia di trasporto è Andesmar con la quale feci non-stop 36 ore di viaggio da Buenos Aires a Río Gallegos. 2600 chilometri sulla mitica Ruta Nacional 3, con gli occhi che guardavano a sud https://travel-ontheroad.blogspot.com/2011/11/rotta-australe-da-buenos-aires-rio.html

È nelle cose. Era già scritto nelle aspettative e nelle sensazioni che quasi subito fuori dal finestrino di quell'autobus diretto a Salta l'inverosimile, ciò che non è terreno, prendesse corpo. Precipitiamo in salita nel deserto più secco del mondo guidati da un nastro d'asfalto perfettamente riconoscibile. Tornanti, curve in mezzo al nulla apparente, in avvicinamento alle montagne. Qualche piccola gola e poi, in un attimo o quasi, siamo sulla Puna. La coppia di francesi davanti a noi non dissimulano la loro eccitazione.

La Puna, l'altopiano, si mostra nella sua preziosa nudità, svelando la sua uniforme terra rossa che tende al grigio, le sue colline e le montagne vulcaniche coperte da neve verginale. L'autobus Andesmar corre veloce verso l'Argentina passando con noncuranza i 3000, 4000, 4500 metri.
Il singaporiano mi fa notare alcuni esemplari di vicuña la cui lana preziosa serviva a coprire i re dell'antichità: gli animali quasi perfettamente mimetizzati con il paesaggio corrono lontani da noi.

Il passo di Jama che divide il Cile dall'Argentina arriva all'improvviso dopo aver vagato con il mezzo a motore su e giù per l'altopiano desertico. Le nostre visioni sono ancora piene di neve, montagne e laghetti da cui escono vapori caldi. Fenicotteri dai colori lisergici abitano le pochissime aree dove arriva l'acqua.

In Argentina le visioni mutano solo quando si comincia lentamente a scendere. Il versante est della Puna risulta via via più umido e verde popolato da lama e viscacce di montagna. Nuvole grigie vagano nel cielo rendendo meno abbacinante il riflesso dei laghi salati che appaiono quasi alla fine del promontorio.

Poi comincia la discesa vertiginosa verso la Quebrada de Humahuaca, Jujuy.

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venerdì 5 giugno 2020

San Pedro de Atacama


venerdì 29 maggio 2020

Nella Gola del Diavolo/Garganta del Diablo

Mi lascio ipnotizzare dal sentiero tortuoso che si insinua tra montagne aride. La pista della Gola del Diavolo dapprima è stretta, ombrosa, quasi oscura, nonostante il sole del deserto di Atacama. Dove saranno ora le simpatiche ragazze cilene con le quali ho scambiato qualche battuta all'inizio della forra?

Terzo giorno a San Pedro de Atacama, 2400 metri di altitudine. Ancora libero di non avvalermi di un tour ho risalito la valle del río San Pedro dominato da un contrasto accecante: dove scorre il torrente si incontra un poco di verde e qualche albero, appena fuori dal corso d'acqua splendono colline e montagne marziane.

L'affascinante Garganta del Diablo o Quebrada de Chulakao si restringe, si allarga, mi trascina avanti nel suo sentiero serpeggiante dal quale non è possibile deviare. Ogni curva a gomito riserva una sorpresa costituita da una caverna parziale, colline rosse scolpite dai profili spesso regolari. Il cielo è trattenuto da fiocchi di piccole nuvole zingare. A un tratto sulla sinistra compare un cespuglio di fiori dal colore analogo alla quello del terreno circostante. Il suolo è compatto ma friabile, con frammenti di pietre incastonate al suo interno.
Il cammino ora si fa più aperto e abbasso la testa sotto la potenza del sole. Qualcuno ha lasciato delle bici per risalire a piedi il mirador. Le risate delle giovani di Santiago sono ormai lontane.

Con un cammino totale di due ore e mezza da mio hostal giungo sulla cima del mirador, un punto panoramico che guarda la valle di San Pedro, la sua cittadina omonima immersa nel verde e la catena delle Ande a est. Travolgente bellezza.
Da questo promontorio noto una traccia irregolare sulla sinistra che dovrebbe condurmi a San Pedro, riuscendo così a compiere un percorso circolare. Decido di provare, non prima di essermi fissato per bene in testa i passaggi chiave del sentiero che a un certo punto si ramifica.

Il viottolo solitario è perlopiù pianeggiante fino a un bivio che conduce a un avvallamento nel quale si individua una lontana strada sterrata che porta al centro abitato. Anche in questo caso memorizzo bene il tragitto ricco di diramazioni e senza segnaletica. Cammino, respiro e cammino. La lingua è secca, il cuore è forte. Affrancato dai legami umani, legato alla Natura.

In una ora e mezza sono di ritorno a San Pedro.
Programma: pranzo nelle bancarelle dei boliviani e prenotazione biglietto per l'Argentina. Via Paso de Jama.

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sabato 16 maggio 2020

Uscendo da San Pedro de Atacama

Impossibile evitare la massa di turisti e procacciatori che affollano San Pedro. Sono arrivato ieri da un lungo viaggio proveniente da Tarapacá, I Región. Dalla Puna, dalla meseta vicina al cielo, al deserto di Atacama. Il deserto più arido del mondo.

Le solitudini dell'altopiano le ritrovo dopo aver abbandonato la Ruta 23, prendendo un sentiero indicatomi da un locale. La terra è rossastra con sassi e pietre, dura, a tratti polverosa. Ondate di calore cominciano a salire dal basso. Penetro ambienti estremi, luoghi ultraterreni, come i nomi delle lande che mi circondano. Il sole del mattino è forte e benefico. Non ho acqua né alimenti. Per qualche ora voglio essere purificato, ridotto all'essenzialità dalla sfarzosa natura disadorna.

Alla fine di una breve ascesa la traccia mi porta su un crinale, e la vista liberata comincia a spaziare nell'aria limpida del deserto.
A ovest vedo la valle di Marte, costituita da tanti piccoli dossi marron chiaro e scuro, e di tante tonalità di rosso. Tra queste piccole, singolari, colline si individuano ruscelli salati che lasciano sottili strisce bianche, la cui scarsissima acqua sotterranea ricca di minerali proviene da lontano. Oltre la miriade di minuscole colline e appena di lato osservo una cresta al cui culmine troneggia un manufatto, il preispanico mirador di Pukará de Quitor.

Verso est, dove le Ande confinano con la Bolivia e l'Argentina, prima che nubi cumuliformi impediscano di viaggiare con gli occhi, dominano due vulcani di oltre 5000 metri al cui culmine la neve ha trovato temporaneo riposo. Sono i vulcani Láscar e Licancabur. Nell'aria secca si distingue con chiarezza la fine del deserto di Atacama, la terra che sale, le gole, e quando l'acclivio termina inizia un altopiano meraviglioso.
San Pedro di Atacama è molto vicina, eppure invisibile, racchiusa nella sua oasi di verde creata dall'omonimo fiume che ora è ricco d'acqua marrone. Acqua che continuerà a scorrere sopra la terra arida per poco, dopo la cittadina.

Scendo la cresta in direzione della valle di Marte. Chissà se riuscirò a entrare a Pukará de Quitor per un sentiero irregolare?

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venerdì 24 aprile 2020

Agli estremi del Parco Nazionale Vulcano Isluga

Finirà mai la giornata di oggi? Sono a Colchane, I Región, a poco meno di 3700 metri di altitudine. Data: sabato 18 gennaio 2020.
Prima d'incamminarmi verso la meta entro nel municipio del paese. "Qualcuno per caso va a Isluga?", chiedo. Nessuno.
Prendo a ritroso un piccolo pezzo di Ruta 15 fino al bivio per Isluga. La strada asfaltata che da Huara porta in Bolivia è deserta. Tutti i camion e gli autobus del mattino hanno varcato la frontiera da tempo. Il panorama che mi circonda è stupefacente: la via perfetta, la terra chiara disseminata da cespugli pronti a fiorire, le limitrofe montagne di 5000 metri con le cime innevate, il vento lieve che viene da est, nuvole sparse che indugiano presso i monti, i cirri che lambiscono cieli limpidi. Il corpo la mente provati dai dislivelli e dai chilometri sono prossimi a conoscere un altro confine segnato tra l'altopiano secco e quello desertico.

La strada che porta a Isluga è sterrata. Sulla sua sinistra scorre un corso d'acqua dalle acque calme, il río Sitani. Tutta la vita animale pare sia concentrata in questa oasi di verde intenso. Lama, oche delle Ande e una infinità di altri piccoli volatili colorati popolano le rive del torrente. La strada segue il fiume nell'avvallamento erboso, in una salita pressoché impercettibile.
Il sole abbaglia un corpo magro che cammina veloce sulla terra, sulle pietre della strada inumidita dalla pioggia della notte; la luce avvicina colline smussate di color marrone che vira verso il verde. Penso, contemplo. La rivelazione del mio intimo, di quello che sono, avanza col mio incedere.

Un minivan impolverato scende verso la Ruta 15. L'uomo e la donna sul mezzo mi osservano impassibilmente. Da qualche parte ho letto che la popolazione della zona è 0,39 abitanti per chilometro quadrato.

Le ore passano quando un cartello mi avvisa che sono a Isluga. Sulla sinistra un cimitero trascurato, davanti diverse decine di case basse col tetto in lamiera. Nessuno in giro. Molto presto giungo alla chiesa monumentale, uno dei siti più apprezzati della regione. Il campanile basso, la sagoma tozza del luogo di culto, le tre croci in legno prima dell'entrata sono attorniate da visioni lunghe della meseta andina, nel Parque Nacional Volcán Isluga.

Passato il borgo lascio la strada carrozzabile e salgo su una collina prospiciente. Arrivato a un dosso mi fermo. 3900 metri di altitudine e una dozzina di lucenti chilometri compiuti. Seminascosto da nuvole veloci vedo le anticime del vulcano Isluga. A est, in Bolivia, un grande lago salato circonda una montagna, probabilmente il cerro Villa Pucarani. Bevo un sorso d'acqua e decido di scendere. La giornata più lunga mi porterà ancora lontano. Molto lontano.
 
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martedì 21 aprile 2020

I Región, Ruta 15


mercoledì 8 aprile 2020

Destinazione Colchane: dislivelli iperbolici

«But heading out towards Ponoma
where you wont be alone»
Bon Iver

Acquisto il biglietto per Colchane nel quartiere boliviano di Iquique. Donne tarchiate con la pollera sedute appena fuori sulla strada rappresentano sconosciute compagnie di autobus internazionali. Faccio un giro per la via, chiedo prezzi e orari, infine decido per l'impresa che appare messa migliore. La zona più a est della calle Esmeralda, dove ora mi trovo, di notte è molto pericolosa. Dicono che anche i carabineros non si avventurino. Iquique è colonizzata da boliviani e peruviani.

Nella stazione degli autobus c'è una grande confusione di persone, facchini, beni e valigie. Tutti i posti a sedere della struttura sono fottutamente occupati. Anche il pavimento. Pare di essere in altri mondi dislocati appena più a nord. Tranne qualche cileno e occidentale, la maggioranza dei passeggeri sono immigrati provenienti da regioni più povere che tornano a casa.
E' sera e sono stanco. Tutto il giorno che cammino lungo la costa respirando l'estate australe, la sua brezza, osservando gente di diverse etnie che si reca al mare, persone in bici, i richiami degli ambulanti che declamano i loro prodotti, uccelli marini che si destreggiano con il vento. Nelle ore più calde ho trovato l'ombra sotto le case coloniali di Iquique.

Il mio autobus per Cochabamba è in ritardo. Coño se conosco Cochabamba. Avevo 24 anni.
Continuano ad arrivare mezzi diretti in Perú, Ecuador e Bolivia presso i quali si accalcano immigrati stracarichi di bagagli. Televisori nuovi dallo schermo enorme vengono infilati nella stiva dei bus a due piani. Gente che contratta, grida, chiama, si abbraccia, si lascia, piange.
Vite interrotte. Vite spezzate. Vite raminghe.

Alla fine la signora della stazione mi avvisa che il torpedone è arrivato. Il nome della compagnia è diverso rispetto a quello che cita il mio biglietto, ma il bus è nuovo ed il posto a sedere assegnato è ottimo. Nulla da reclamare. Il bus cama è pronto per partire verso le ande, attraversando prima il deserto di Atacama, poi le gole, i canyon, e infine l'altopiano, la Puna. Troppo dislivello in poche ore.

Il lungo viaggio arriva nel buio appena dopo Colchane, a una manciata di chilometri dal confine boliviano. La frontiera è chiusa di notte. L'autobus si ferma, quindi posso approfittare ancora della mia poltrona. Riesco perfino a dormire un poco. Non sento ancora i 3700 metri di dislivello appena compiuti.

Alle sei e trenta esco dal bus. Giacca a vento leggera e zaino. Un tenue malore circola da qualche parte della testa, ma il crepuscolo sulla Puna annienta ogni disturbo. Sono eccitato, libero, leggero. Volo sulla strada asfaltata, illuminato dall'etere. L'aria è pura, vergine.
Infine arriva da est, dalla Bolivia, il sole abbagliante che porta contrasto sui contorni, rischiara di sbieco l'erba secca e spettacolari nuvole stratificate, e mette in evidenza montagne imbiancate di neve fresca.
Volo verso Colchane, con il sole sulla schiena che viene dalla Bolivia.
  
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domenica 22 marzo 2020

Iquique

Dopo una infinita quantità di movimento e transito atterro a Iquique.
L'ambiente si presenta alle iridi nella sua forma più austera.
Immagini di deserto e di mare. Oltre l'oceano fertile, la terra, la sabbia dalle quali nulla cresce. Mai.
Fuori le mura dell'aeroporto mi accolgono i taxisti, qualche cartellone pubblicitario, una lunga collina che si estende fino all'acqua salata e quindi i prodromi di quello che è il deserto più arido del mondo. Atacama. Oceano e deserto saranno i compagni e le icone del viaggio che inizia oggi.

Aspetto il Turbus che porta alla città. 3000 pesos. L'autobus schizza veloce su una strada costiera ben sistemata, offrendo panorami assoluti, immanenti. Un poco di foschia dovuta probabilmente all'effetto delle onde che si infrangono sulla costa appanna la visuale lontana. Nessun passeggero parla, tutti sono ammaliati da quello che scorre oltre il finestrino.
Poi la baia si allunga, le montagne si fanno più lontane e cominciano le prime urbanizzazioni. Case a schiera in mezzo al nulla, concessionari di automobili, magazzini, fabbriche e quindi la città. Mi faccio lasciare vicino al mercato centrale. Il sole è forte, anche se aliti di aria marina arrivano leggeri fino a dove mi trovo.

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venerdì 20 marzo 2020

Cactus Cardón


 
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