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sabato 4 marzo 2023

Fratelli argentini nel parco nazionale Los Alerces

 

Leo e Fer li conosco per caso. Stavo cercando un alloggio a Trèvelin, e mi fermo a chiedere in una cartoleria accanto la scuola. Ne esco almeno due ore dopo con la promessa di rivedermi con i due proprietari. Insieme alla Bolivia tropicale, Argentina è la Casa adottiva.

Ho da poco attraversato il confine cileno al passo del río Futaleufú.  Ho lasciato la regione dei Laghi cavalcando le Ande, immerso nei suoi panorami indescrivibili, e ora mi trovo nella provincia Chubut. Trevelin. Come mi conferma l’amico John da Coyhaique, anche se siamo a fine febbraio, il clima della Patagonia pacifica sta lentamente peggiorando, così pure la sua variabilità. Meglio spostare lo sguardo (e la passione) da sud a est, nella Patagonia argentina.

Sabato mattina sono sulla Ford di Leo e Fer per una nuova visita nel parco nazionale Los Alerces. Questa volta con due guide di straprima categoria. Avvicinandoci alla catena andina si nota come l’umidità influisca sulla vegetazione: in pochi chilometri essa si fa più rigogliosa e potente. Varchiamo rapidi il posto di controllo dei guardiaparco con lo status privilegiato di residenti e penetriamo una delle riserve naturali più affascinanti della Patagonia.

La strada divenuta polverosa costeggia laghi e laghi, mentre il socievole Leo racconta le diverse località dove hanno vissuto, Terra del fuoco inclusa, per poi decidere di stabilirsi a Trevelin. La cittadina è piaciuta a Fer e al marito; la vicinanza delle università per i figli e, non ultimo, la contiguità con il parco hanno portato la famiglia a fermarsi nella provincia Chubut. Il racconto viene spesso interrotto per informare riguardo i vari punti del territorio attraversati.

Le mie esperte guide si fermano in un parcheggio gratuito dopo la conosciuta passerella sopra il río Arrayanes. Portiamo l’essenziale: acqua, il binocolo e una carta per riconoscere la fauna. Il clima si sta faticosamente riscaldando, nonostante il  vento occidentale offra continui tappeti di nuvole alte.

Il sentiero che subito inforchiamo serpeggia tra saliscendi nei boschi sempreverde di sua maestosità il coihue, accompagnati da maitén, e dai tronchi chiari e levigati del arrayan. Odore di muschio e acqua. Camminiamo in ascesa fino al mirador alto sopra il lago Verde. Gli occhi spaziano da montagne di alberi a montagne innevate verso il Cile, al sottostante lago Verde che viene alimentato dal lago Rivadavia attraverso un fiume. Quando Dio ha creato la fabbrica dei laghi ha pensato a questi luoghi.

Poco dopo Fer indica il cielo, esclamando: “Guarda Estefano, due condor!”. I rapaci dalle ali superiori di color chiaro volano in moto circolare, in equilibrio perfetto con quello che li avvolge, allontanandosi verso l’alto.

Nella passerella sopra il río Arrayanes incontriamo molti turisti. Attraverso il ponte è possibile raggiungere il lago Menéndez e porto Chucao. Da questo porticciolo immerso nel bosco riconosciamo cigni dal collo nero, un veloce Martin pescatore e anatre australi.

Raggiunta l’auto viene estratta la borsa del mate, quindi andiamo a sorbirlo lungo la riva pacifica del lago Verde. Yerba mate prodotta da Fer, un yuyo speciale, tassativamente senza zucchero. Sto bene. Un nuovo fratello e una sorella.

 

Testo e foto Diritti riservati Creative Commons 

 




 

 

 

sabato 24 ottobre 2020

Humahuaca, Jujuy, Nord Argentina

 


La montagna dei 14 Colori, l'Hornocal

 Nella stazione degli autobus di Humahuaca si respira il caos contenuto di molte realtà andine. Sono forse in Bolivia, Perú, Ecuador? Bastano poche parole della signora che vende i biglietti per distinguere il suo accento argentino con tracce di quechua nel castellano. Argentina über alles. Sempre.
Dopo aver capito che per arrivare alla montagna dei 14 Colori non esiste trasporto di linea, mi tocca mestamente cercare un tour organizzato. Ne trovo uno a un prezzo vantaggioso. Ci diamo appuntamento tra una ora.

Il minivan carica turisti fino a riempirsi. Davanti a me ci sono quattro giovani palestrati, bianchi, di città. Il resto del gruppo comprende una famiglia, un ragazzo e una ragazza magra molto abbronzata. Dalla cittadina di Humahuaca, 2900 metri, il van imbocca una polverosa strada sterrata all'interno di una valle sconfinata e deserta. Cespugli e ciuffi d'erba colonizzano l'altopiano andino. Il percorso sale lungo tornanti e brevi rettilinei sotto il sole limpido di questo sabato 25 gennaio 2020. I quattro palestrati davanti a me bevono acqua e si scambiano battute con aria supponente.
A 4200 metri il mezzo si ferma per farci ammirare la valle di Humahuaca. Scendiamo. Fiori gialli contrastano con le montagne brulle e il cielo perfettamente azzurro. Lontano e verso ovest si riescono a individuare picchi innevati. L'aria fresca è mitigata dal sole.

Il punto panoramico dal quale si osserva la catena montuosa dell'Hornocal o montagna dei 14 Colori si trova a 4300 metri. Da questo luogo diparte un sentiero in discesa che si avvicina maggiormente alle vette dalle formazioni calcaree patrimonio UNESCO.

Ancora una volta quasi toccando la Bolivia cammino verso l'Hornocal fino a un luogo isolato dove posso contemplare gli austeri panorami a est delle Ande.
La montagna dai 14 Colori è di fronte a me, separata solo da una valle. Questa meraviglia naturale è conformata da diversi tipi di roccia e di ambienti che con la pressione terreste hanno dato vita a massicci che mettono a nudo le diversità geologiche. Rimango per diversi minuti a osservare le tonalità di colore che velocemente si alternano spostando il punto di visione. L'erosione e il tempo hanno fatto diventare la catena montuosa molto frastagliata, scomposta in decine di picchi e avvallamenti; quello che conferisce unità all'Hornocal è la sequenza armonica delle fasce dalla stessa cromaticità che esprimono un periodo geologico.
Inspiro l'aria rarefatta con voluttà, seduto, sprofondato di piacere nell'arida terra sassosa. Il cammino d'individuazione continua.

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martedì 29 settembre 2020

Canyon de las Señoritas


 

sabato 19 settembre 2020

Dintorni di Tilcara, Jujuy

Il sentiero tracima nelle profondità di una gola. Sotto scorre un torrente invisibile che arriva a valle senza essere assorbito dalla sete del deserto.
Il mio cammino austero non è quello pieno di turisti che porta alla Garganta del Diablo di Tilcara. E' un sentiero di pastori, di contadini, che si addrentra in valli, altopiani e montagne. L'ho individuato quasi per caso, osservando il territorio e chiedendo agli agricoltori.

Risalgo veloce il percorso ben tracciato, accompagnato da una temperatura mattutina ideale, mentre il sole e la luce diritta mi dicono che in questo fine gennaio 2020 siamo ancora in piena estate australe.
A sinistra continuo a costeggiare dall'alto il canyon dalle profondità impenetrabili, orgoglioso del cammino che stimola la consapevolezza di sé stessi. Alla fine della ripida ascesa oltre i 2600 metri, il sentiero curva a destra per entrare in un altopiano. Prima di violare il nuovo paesaggio mi volto ad ammirare la valle del Río Grande con le sue acque rosse, il verde prossimo ai corsi d'acqua e le montagne policrome che deliziano tutta l'area UNESCO delle Quebradas de Humahuaca. Il paese di Tilcara è nascosto da colline rocciose.

Una breve discesa e sono nel mezzo della valle deserta, così grande che potrebbe essere considerata un altopiano. Il sole è raramente oscurato da nuvole passeggere. Il cielo azzurro di montagna contrasta con la terra, la vegetazione e la roccia grigia che tende alle diverse tonalità di rosso. L'ambiente è così piacevole che quasi vorrei saltare dalla gioia: cactus Cardón, cactus Perro, cactus, cespugli di altre piante grasse sottili, appuntite, spinose, sopravissute alle quotidiane sfide che l'ambiente porge loro. In omaggio alle piogge del periodo qualche fiore ramingo spunta dal basso. A tratti ho l'impressione che da qualche roccia soprastante balzi un magnifico puma. Nessun puma mai vedrò, nessuna banda di fuorilegge pieni di polvere armati di pistole e di cavalli, in cambio vedo da lontano un cavaliere che alza la mano in segno di saluto. 

Cammino per qualche ora in questo altopiano americano senza conoscere la meta, attento a non perdere la strada, appagato dal muovermi nella Natura, con i sensi abbacinati dal sole e da quello che mi circonda, con le colline a nord-ovest che toccano i 4000 metri. Ancora una volta contaminato dalla potenza del viaggio.

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martedì 25 agosto 2020

L'infinita godibilità del transito: Tilcara, Nord Argentina

«Le canto porque (la Luna) ya sabe de mi largo caminar» Atahualpa Yupanqui

 Lame sottili di sole filtrano tra le foglie dei pioppi. Montagne colorate e clima stupefacente mi circondano. È questa l'eterna primavera che cerco nel mio vagare. Gennaio 2020 a sud dell'Equatore perso oltre i duemilatrecento metri delle Ande argentine. L'autobus per Tilcara arriva in anticipo. Lo stato di transitorietà, il movimento senza uno scopo apparente è la mia droga. Prendo posto insieme ai molti turisti nazionali ancora accompagnati dalla spensieratezza.

Ieri ho cenato in una peña folclorica di Purmamarca. Roba per villeggiatori con prezzi non economici, ma dovevo farlo. Buona musica dal vivo prodotta da un gruppo locale. Ad un certo punto il leader del conjunto ha cominciato a chiedere la provenienza dei commensali. Quando è toccata a me ho detto con noncuranza che venivo da Santa Cru(z), Bolivia orientale. Qualcuno si è girato verso di me. Il "cruzeño" si è poi commosso quando ha risentito Luna Tucumana interpretata dal gruppo musicale.

Ancora con le note di Tucumán querido nel cuore attraverso spazi semidesertici della remota Provincia di Jujuy. Quasi subito l'autobus raggiunge la Ruta 9 che collega Buenos Aires con Tarija, Bolivia.  Prendiamo la direzione Nord. La valle che percorriamo è ampia, illuminata di sbilenco da un sole accecante. Dove scorre i torrente rosso di limo crescono pascoli, orti, campi coltivati e alberi; risalendo con gli occhi la vegetazione si limita a cespugli, ciuffi d'erba e cactus. La terra, i sassi, la roccia mostrano a nudo attraverso i loro colori le differenze geologiche che quei territori hanno vissuto. Panorami meno estremi di Atacama e senza cime innevate di 5000 metri in vista; panorami da ovest selvaggio dalle montagne smussate, dalle valli secondarie che si incuneano in profondità misteriose.

Molto presto arrivo a Tilcara. Il bus si ferma nel polveroso terminal di provincia. L'aria fresca odora di tortillas, di fiori e di secco. Ad un signore che scende da un datato pick-up Ford chiedo dov'è l'ufficio comunale del turismo. Ho bisogno di un alloggio. L'uomo di mezza età mi risponde con quel modo quasi compassato ma gioviale, gentile e sincero di molti argentini.

Quanto mi fermerò nelle Quebradas de Humahuaca? Molto più del previsto.

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mercoledì 22 luglio 2020

Purmamarca, Jujuy, Argentina

Dopo 8 ore di viaggio sono a Purmamarca. L'autobus della compagnia Andesmar ci ha rapiti, ammaliati, indolenziti per 600 chilometri attraverso la catena andina che dal Cile ci porta a Jujuy, Argentina. Dislivelli impossibili e visioni difficili da descrivere che dal deserto di Atacama portano all'altopiano e quindi alle quebradas.

Salto giù dal bus e tocco ancora una volta la terra argentina. Insieme alla Bolivia tropicale, l'Argentina è il posto del cuore.
Oltre la barriera di pioppi che sorridono all'estate australe, incontro il paese di Purmamarca, 2300 metri sopra il livello dei lontani oceani. Oltre Purmamarca, le montagne dai molti colori della Quebrada de Humahuaca, patrimonio dell'umanità UNESCO.

Dopo aver trovato con fatica un alloggio prendo subito la strada che porta al Paseo Colorado. È un tardo, lungo, pomeriggio del gennaio 2020, affollato da turisti argentini provenienti dalle regioni più a sud. Il sole è nascosto da uniformi nuvole volatili.

Le terre aride di queste zone partoriscono gli splendidi cactus Cardón: piante massicce, compatte, dai fusti estremamente aggraziati. Insieme a quelli della Bassa California sono i cactus più spettacolari mai visti. Il Paseo Colorado attraversa panorami del nord del Messico, di film ambientati nel Far West statunitense: cespugli spinosi, terra arida, sassi dalle mille tonalità e cactus. Polvere di meraviglia che penetra lentamente nel circolo sanguigno. Tutto viene incorporato.


Lasciato il paese di Purmamarca a sinistra si innalza un dosso, una collina le cui venature orizzontali sono diversamente colorate. La montagna dai Sette Colori. Più avanti la strada si restringe quasi in una gola la cui terra circostante è uniformemente di rosso mattone. Successivamente il suolo diventa grigio, verde, beige, marrone.
Scambio qualche battuta con una coppia di Tucumán i quali mi consigliano di visitare Tilcara e Humahuaca. Lo farò.
Quasi tutti quelli che incontro hanno il thermos di acqua calda per la sacra yerba mate. Obvio.

Sono stanco. È ora di tornare. Devo acquistare del vino, frutta e qualche alimento rigeneratore.

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lunedì 23 aprile 2012

Viandanti su Buenos Aires

E' sufficiente uscire dalle vie del grande commercio e del turismo per inalare la fragranza invisibile di Buenos Aires. Un'atmosfera impossibile da determinare che mischia odori di lavoro e di collettivita' irradiata a tela di ragno, vento di metropoli contaminato da vigorose brezze social-popolari provenienti da tempi non lontani e storie di genti. E' raschiando la pelle sulla strada, annusando i muri porosi delle case, inspirando il tempo per lasciarlo libero insieme all'aria che le cose si riescono lievemente a percepire. Un poco.
Nell'ostello ieri ho conosciuto Gu Tae, un ragazzo coreano alla scoperta dell'America australe. Altezza media, magro ma non esile, capelli neri indomabili. L'ho portato nel colorito ed intasato quartiere La Boca. LBAppena fuori dalle sgargianti vie colme di procacciatori, file di bus e comitive di turisti, abbiamo incrociato famiglie dedite al rito della carne alla parilla in strada, negozi d'altri tempi con proprietari che portavano gli stessi aromi della loro merce, case ingobbite, oscure, con tetti e pareti in lamiera ondulata e finestre piccole, trasudanti vicende antiche d'immigrazione.
Vagando casualmente per vie e strade siamo arrivati dietro lo stadio del Club Atlético Boca Juniors; non so come e non ricordo per quale strano percorso, qualche minuto dopo eravamo tra le scalinate vuote dello stadio, attorniati da boca jsedili di plastica e da insegne pubblicitarie vuote di significato, con sotto l'erba che guardava il cielo pieno di America.
Nell'area coperta dello stadio, sotto le gradinate, abbiamo trovato diversi gruppi di ragazzini guidati da giovani allenatori. Anche qui siamo stati ad osservare in silenzio le persone, cercando di guardare il mondo con le loro iridi: i bambini che si passavano la palla con la serieta' che emula gli adulti, lo scanzonato trainer, i genitori ansiosi e compiacenti pronti a riportare a casa i figli. Inspirando profondamente l'aria leggera e popolare del luogo.
Prima di prendere il bus di linea per tornare in centro, Gu Tae dice che vorrebbe mangiare un gelato. Immagino che avesse letto da qualche parte che a Buenos Aires fanno buoni gelati, oppure solamente aveva voglia di mangiarne uno, in ogni caso siamo andati alla ricerca di una gelateria.
Seduti su una panchina di legno saziandoci di gelato, con la calda primavera che vola sulla citta' della Buona Aria, Gu Tae mi ha raccontato del suo paese, delle colline verdi, del traffico e dei clacson di Seul. Io ho parlato di una citta' lontana piena di mercati e di case bianche, di caldo vento Norte che porta la sabbia dei fiumi tropicali e mescola ricordi privi di oblio.
Due citta', due mondi, veicolati da nostalgici epigoni della solitudine.
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martedì 27 marzo 2012

Il cuore di Buenos Aires

I pappagalli volano insieme nella citta' della Buona Aria. Il loro movimento in dissonanza col vento li ha fatti posare sui rami dell'immenso toborochi che si espande sopra di me. I piccoli e rumorosi uccelli verdi beccano il contenuto fibroso dei frutti del toborochi, il palo borracho, l'albero dal tronco panciuto.
Osservo in silenzio gli animali dal prato della plaza San Martín. Sono disteso sull'erba giovane che la primavera ha portato, mentre viaggiatori, funzionari, coppie di ragazzi, transitano dal centro verso le stazioni di Retiro. Rumore di brezza marina e di volatili che cantano la stagione della luce si mescola al rombo del traffico della grande avenida Del Libertador.
Pappagalli e palo borracho. Uno dei simboli di Santa Cruz è il toborochi. In mezzo a Toborsensazioni di tropico dove il sudore svanisce nell'asfalto bollente della strada e la pelle scorticata ogni giorno a sangue incontra se’ stessa nella solitudine, i pascoli immensi fuori dalla Citta' della Croce potenziata offrono visioni di palme motacú, bibosi rampicanti  e toborochi incastonati nel cielo d'America; nella selva che scompare per sempre dal patrimonio della Terra si possono ancora osservare pappagalli giganti Ara dal volo maestoso. In quella citta' lontana il mese di giugno esibiva pingui toborochi fioriti di rosa e rosso pastello.
Dopo aver vagato per il Microcentro, in tarda mattinata mi sono recato al terminal dei bus di Retiro per informarmi sugli orari delle destinazioni verso il Sur, il Sud. I prezzi sonoav. del Lib saliti in modo osceno rispetto al 2007. Da domani andro' a dormire nell'ostello vicino al mio alloggio. Guardo gli uccelli verdi sfibrare il bianco dei frutti dell'albero, addormentandomi nel cuore di Buenos Aires.
Mi fermo qualche secondo ad osservare il cartellone, tra la confusione di gitanti, venditori ed impiegati. E' una promozione turistica governativa della provincia norteña di Misiones. Non volevo passare per la calle Florida, invece mi trovo qui, assorto ad osservare il poster. In pochi istanti decido di modificare i programmi: “Acquisto un pass di cinque viaggi a lunga percorrenza con l'autobus, e mi lancio anche al Norte, dalle parti di Iguazú!”, dico con rinnovata contentezza. Un'amica conosciuta nella Regione dei Laghi, affermava: “La curiosita' verso il mondo, la liberta', si ingigantiscono nel viaggio indipendente”.
Sotto gli affascinanti palazzi bianchi la via pedonale è colma di lucidi negozi di artigianato, di caffe', di bancomat e di venditori ambulanti. A quell'ora pomeridiana la gente è tanta, troppa, che ti obbliga a rendere frammentaria e fugace l'osservazione; accelero il passo per dirigermi nella via San Martín, verso la piazza De Mayo.
La sera il mondo sembra diverso. Nelle grandi citta' l'imbrunire porta una fresca, elettrizzante tranquillita': la gente si muove con passo rilassato, parla forte, ride, gode dell'aria e degli spazi liberati.
Sposto i passi lievemente intorpiditi da una birra fino ad incrociare il viale immenso; forse correndo veloce veloce si potrebbero attraversare tutte le diciotto corsie della avenida 9 de Julio. Continuando a percorrere Congril viale De Mayo verso il Congreso, gli occhi si spostano dalle vetrine gaie dei ristoranti, ai platani dalle foglie giovani, per raggiungere gli edifici stile europeo che culminano in torri e cupole.
Dopo aver passato la Inmobiliaria ed il maestoso palazzo Barolo sono nella piazza del Congresso: negli spazi verdi, signori distinti portano a passeggio il cane ed improbabili sportivi fanno ginnastica su fazzoletti di prato. Nel lato sinistro della piazza intravedo diversi gruppetti di persone. Mi avvicino e capisco che sono uomini e donne senza fissa dimora che stanno ricevendo pasti caldi da un gruppo di volontari.
Sotto il buio della citta' che guarda alla primavera rimango ad osservare il palazzo del Congreso e le case, le persone sedute nei bar alla moda e i senzatetto curvi sui gradini della strada.
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giovedì 1 marzo 2012

La primavera gira su Buenos Aires

Veloce scivolano le orme sulle piastrelle della Suipacha, Microcentro, nel cuore della capitale piu' attraente dell'America del Sud. Le mie orme, la pelle, il mio fiato vorrebbero includere per sempre la primavera australe che gira sopra Buenos Aires. Nella via scorrono ragazzi in bicicletta e affrettati passanti; nei loro vestiti che anticipano climi piu' miti e nei loro ampli respiri riconosco l'afflato verso il tempo propizio.
Sono mesi e mesi che affronto stagioni che durano una manciata di ore, stagioni perdute, stagioni lontane che i venti modificano come girando un vecchio interruttore manuale pieno di polvere. Questo avviene a Santa Cruz, parecchio piu' a nord, nel tropico americano, dove le nuvole gareggiano pacificamente tra loro sopra le foreste arretranti; durante il mese di giugno e luglio la temperatura poteva variare di una ventina di gradi da un giorno all'altro. Poi è arrivato il caldo. E non è andato via.
Quando viaggio a volte mi viene da fare un gioco mentale che consiste nel catapultare una persona conosciuta o me stesso nel luogo dove mi trovo. Ovviamente non si deve conoscere il posto, con il proposito  -secondo quello che nell'immediatezza i sensi offrono- di avvicinarsi alla comprensione di dove ci si trova. Allora. Il clima è mite, l'odore intorno sa di primavera, di infiorescenze e di alberi di citta' dalle forme poco esotiche; gli imponenti palazzi sono in stile occidentale, la gente, be' la gente è soprattutto di carnagione bianca e la lingua... facile: sono in Europa; dai vestiti e dai movimenti delle persone, dalle scritte e dai volantini sui muri pare pero' un’Europa strana che incrocia modernita', rigore, decadenza, retrò, anarchia e ventate rivoluzionarie. Come in un film degli anni settanta ritoccato ai giorni nostri.
Ho preso la Suipacha perché lungo il tratto del Microcentro è una via libera dal traffico privato e meno affollata della parallela Florida. Portandomi verso il quartiere Retiro vedo negozi antichi gestiti da signori d'eta', banche, bar, chioschi dominati da palazzi costruiti nel vicino secolo scorso. Ma è nei ed1grandi viali che ora attraverso dove si puo' ammirare l'architettura francese ed italiana mescolata a qualche edificio piu' recente, mentre sulla sinistra scorgo l'imponente obelisco bianco che spunta dalla avenida 9 de Julio.
Sono arrivato da un paio di giorni nella citta' dalla Buona Aria e mi pare di essere qui da un mese. All'aeroporto ho chiesto a due taxisti se il bus di linea 86 si reca ancora in centro; con la consueta gentilezza disinteressata di questo popolo mi hanno risposto affermativamente, anche se ora il numero del mezzo pubblico e' diventato 8. Con i vestiti e l'epidermide che respirano la stagione dove tutto comincia, mi avvicino alla fermata del bus. Domando ad una ragazza che aspetta il suo turno per salire sul convoglio quanti soldi ci vogliono, lei mi risponde: “Due pesos in moneta”; le chiedo se mi puo' cambiare una banconota di piccolo taglio, lei mi regala i soldi come fosse la cosa piu' normale del mondo. “Sono a casa”, mi son detto.
Dall'autobus vedo pascoli, fattorie e piccoli centri urbani. Negli spazi verdi prossimilleg all'autostrada sono parcheggiate auto con adulti e bambini che si godono il clima mite domenicale. Dopo due ore di strada, di periferie e di viali infiniti sono sulla Yrigoyen, a due passi dalla 9 de Julio. Dirigo le gambe verso un piccolo hotel economico del centro. La prima notte nell'albergo ed il volo di ritorno è l'unica cosa che ho fissato in questo lungo cammino sulle strade d'America.
La primavera gira su Buenos Aires e colui che cerca senza mai trovare si muove lungo vie illuminate di bianco e di sole, verso la stazione di Retiro. Con il tempo una volta sovrano, ora liberato. 
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venerdì 23 dicembre 2011

La costa atlantica della Patagonia

I sandali raschiano sassi ovali e terra color mattone. Davanti a me cespugli, colline, cielo e vento da ovest: ora tocco i panorami a lungo osservati dal bus. Le gambe conducono nella riserva del ría Deseado a Puerto Deseado, Patagonia centro-sud. Sulla sinistra un golfo ricco di isole e dell'incontro tra acqua dolce e salata (ría). In questi spazi brulli con alberi pressoche' inesistenti, l'acqua calma della baia riceve una moltitudine di volatili ed animali acquatici.
La terra mi entra nei piedi, ed in testa un delizioso e acido mantra dei Mogwai si combina perfettamente con il rumore dei passi. L’ambiente quasi desertico di cespugli spinosi in fiore, erba secca e sabbia potrebbe farmi immaginare l’incontro con un rettile velenoso, se non fossimo in latitudini altre. E poi il vento. Vento imperante che determina il volo degli uccelli, la dimensione e forma delle piante, la temperatura, l’erosione…
La pelle che ha assorbito il (caldo) tropico, in queste settimane incontra il clima duro delle pendici australi. Istintivamente sento quasi necessaria l’urgenza di essere purificato e contagiato dagli elementi atmosferici; insieme a lasciare dietro le cose e l’inessenziale, il cambiamento, la ricerca, sono tutte dimensioni spirituali del viaggio. Una spiritualita’ arcaica, naturale, inevitabile.
is quiDopo aver passato un'isola rocciosa ed arida, separato da un breve tratto di acqua vedo e sento l'isola Quiroga. Qui e' un brulicare di animali dai colori bianchi, neri e grigi. D'apprima riconosco i rumorosi gabbiani reali, poi distinguo con chiarezza i pinguini di Magellano. Questi ultimi sul terreno assomigliano a: 1. Statue gommose, quando sono fermi; 2. Piccoli zombie sperduti, quando camminano. Essi si muovono in fila tra i cespugli per poi fermarsi in attesa quasi di un comando alieno, o forse pentiti di tanta strada su quel suolo per loro difficile. Rimango a lungo ad osservare gli animali dell'isola, mentre nell'acqua e sopra passano cormorani, anatre e ostreros dai richiami dolcissimi.
Con l'odore di salsedine e di polvere e sotto la possanza del cielo d'America attraverso la steppa fiorita della Patagonia, incrociando lepri solitarie ed impassibili rapaci dal voloria des immobile. Cammino e cammino su sentieri inventati alla ricerca di nuova costa e dei suoi abitanti, con il respiro forte che sottraggo al vento.
Dopo aver attraversato un canyon che l'alta marea inonda parzialmente di acqua salata, arrivo ad una scogliera dove nidificano i colorati cormorani grigi. Ancora una volta contemplo animali, il mare verde, il ricco deserto privo d'ombre, i rivoli di polvere alzati dal vento. A pieno contatto con il mondo.

mercoledì 14 dicembre 2011

Nel Parco de los Glaciares, Patagonia

Siamo a El Chaltén, Patagonia argentina, nel Parco nazionale de los Glaciares. Per una manciata di giorni mi ritrovo con Marco e Matteo. Il primo e' un compagno di escursioni alpine con il gruppo di amici del SEI http://sei-i.blogspot.com .
Imbocchiamo eccitati il sentiero che conduce ai piedi del Fitz Roy appena fuori il paese di El Chaltén. Per ora la giornata e' limpida con un vento assolutamente piu' calmo del giorno precedente. Saliamo un percorso coperto da prati, cespugli e alti alberi di lenga. Camminiamo veloci, superando gruppi di escursionisti iper equipaggiati che quasi sorridono vedendo i miei jeans acquistati al mercato Mutualista di Santa Cruz de la Sierra e le (mitiche) scarpe BK trovate in svendita per 6990 pesos a Punta Arenas.
Molto presto si domina l'infinita valle rigata valleda un torrente di cobalto che porta alla frontiera cilena; ai lati del solco glaciale si arrampicano porzioni di verde e roccia che sfumano nel cielo d'America, il cielo piu' bello.
Dopo un'ora di cammino affatto ripido siamo al cospetto di una delle cime piu' spettacolari che esistano: 3400 metri di pareti di chiaro granito con ai lati e sotto ghiacciai e ancora ghiacciai. Il cerro Fitz Roy. Ai piedi della montagna rendono omaggio vallate sconfinate di alberi, cespugli, acqua e torbiere. Dopo una ripida e pietrosa salita arriviamo al punto panoramico sotto il cerro, la Laguna de los Tres. In alto svetta la Montagna che Fuma, il Fitz Roy, con nuvoleFR lievi che le fanno il giro nella parte sommitale; a sinistra si ammira la ripida parete del Poincenot ed in basso due lagune create dai ghiacciai arretranti. Ogni tanto si ode un boato di ghiaccio che si getta nel vuoto. Nonostante l'esigua altitudine, il vento da ovest penetra con insistenza nella pelle, comunicandoci che la visita presso sua maesta' e' ormai conclusa.

martedì 6 dicembre 2011

Parco nazionale della Tierra del Fuego

Il minibus mi lascia sulla strada sterrata nelle vicinanze del sentiero Pampa alta, nel cuore del parco. Oltrepasso gruppi di turisti che scendono dal trenino panoramico e, dopo un chilometro, imbocco il sentiero. Nonostante l'estrema variabilita' del tempo, da ore il cielo e' coperto da uno strato di nuvole persistenti. In assoluta solitudine comincio a salire lungo il percorso ben segnalato da listelli gialli; all'inizio penetro un bosco fittissimo di piante giovani, poi la foresta si apre, mostrando grandi piante di lenga e coihue (faggio australe) sempreverde. In alto il vento si intrufola fra i rami muovendoli e provocando scricchiolii dei piu' disparati. Con attorno gli alberi che discorrono tra loro salgo lentamente la collina respirando muschio, fiori e mare. La temperatura e' cosi' dolce che rimango in maniche corte.
Sulla sommita' della collina il panorama e' mozzafiato: a sud il canale di Beagle e lert montagnose isole del Cile; a nord cime rocciose parzialmente innevate ricoperte a meta' da foreste e verde. Ma e' a ovest dove gli occhi e la mente incontrano il massimo piacere soffermandosi su picchi e ghiacciai della cordillera di Darwin. Quest'ultima estremita' del sistema andino raggiunge altitudini prossime ai 2500 metri.
Nella discesa incontro delle specie di lagune che hanno qualcosa di strano; infatti a valle sono sbarrate da tronchi, rami e terra, creando piccole pozze artificiali punteggiate da tronchi di alberi morti per asfissia. Sono opere edili compiute dai castori, specie introdotta incoscientemente dall'uomo. La foresta si sviluppa a macchie: zone di alberi deceduti e coricati cui sui tronchi semidecomposti crescono nuove giovani essenze. In altri punti crescono gruppi di alberi giovani e meno giovani. Il ciclo naturale del bosco lo si osserva chiaramente, come si nota l'assenza di alcun presuntuoso intervento umano.
Il sentiero costiero e' forse il piu' affascinante perche' percorre una baia rocciosa del canale di Beagle, tra alberi ed attivi volatili. E' qui, sopra un basso scoglio erboso, che decido di consumare il mio pranzo al sacco. Lo scarso vento mi permette di rimanere pacificamente ad osservare gli alberi, il mare e le montagne. Sopra l'acqua 5volano gabbiani, cormorani australi, anatre e oche del Kelp. In lontananza scorgo due grossi petrel che volano ad una velocita' ed una grazia incredibile senza praticamente muovere le ali lunghe e sottili. "Hanno quasi piu' stile dei rapaci", mi dico. Nonostante il sole sia quasi inesistente, la temperatura supera i 15 gradi.
Proseguo la camminata della senda Costera, passando alberelli a foglie laminate dai fiori rossi, i notros, cespugli di calafate e di ribes selvatico, con sopra alberi di lenga, ñire e coihue modellati dal vento.
Tra rocce e spiagge di sabbia scura trascorro le ultime ore nel parco della Terra del Fuoco. Anche se la giornata in questa stagione di fine primavera e' molto lunga, prima o poi mi tocchera' tornare ad Ushuaia.

martedì 22 novembre 2011

Alla fine del mondo: destinazione Ushuaia

Ancora pascoli e vento e rari alberi. Di nuovo sull’autobus verso Sud. Questa volta il mezzo e' tadella compagnia Tecni-Austral ed e' decisamente meno confortevole di quello a due livelli della Andesmar sul quale ho vissuto un giorno e mezzo. L'autobus ha il vetro anteriore schermato da una rete metallica come protezione dalle pietre della strada sterrata. La destinazione invece... ovvio, e' la fine del mondo.
Le immagini che scorrono fuori dal finestrino sono simili a quelle viste da Comodoro Rivadavia in giu': colline, animali, cielo e vento proveniente da nord-ovest.
In fretta raggiungiamo il confine cileno dove si perdono molte decine di minuti nelle pratiche di immigrazione. Un addetto del bus mi confida che le ore per raggiungere Ushuaia saranno 15 e non 12. Questa e' la destinazione: la citta' piu' a sud del mondo.
Poco dopo essere entrati nel territorio cileno il mare comincia a vedersi sul lato sinistro; in breve la strada si infrange sull'oceano dello stretto di Magellano. Causa il vento cheem supera i 120 km orari il ferry non effettua il servizio di trasporto. Bisogna attendere che le condizioni siano piu' favorevoli. Nel frattempo usciamo ad ammirare il severo passaggio delle antiche rotte navali verso il Pacifico. Se non fosse per il vento, la temperatura sarebbe piacevole.
Ad un certo punto arriva il ferry ed in 20 minuti siamo sulla isola Grande della Terra del Fuoco. Si'.
Sulla pista sterrata i vetri del bus della Tecni-Austral vedono morbide colline, pecore e guanachi, prati e ciuffi di cespugli dagli estremi rinsecchiti. Nelle vallate scorrono TFtorrenti color etere contornati da piccoli fiori. In alcuni momenti mi pare di stare in quei minuscoli eden che si scoprono sopra i 2000 metri sulle Alpi; le iridi si adagiano piacevolmente su tali orizzonti. Come nella querida Santa Cruz in alto le nuvole proseguono a gareggiare tra loro.
Passata la frontiera argentina torna la strada asfaltata e, con essa, la Ruta Nacional 3.
Dopo le ore 22, quando la luce australe comincia decisamente ad abbassarsi, insieme a fitte foreste scorgo il grande lago Khami ed i picchi innevati che rendono eccezionale il sud della Terra del Fuoco. Le valli sono bagnate de torbiere ed acqua senza fine.
Sono le 23 passate quando i piedi toccano l'asfalto di Ushuaia alla ricerca di un alloggio economico. La Ruta Nacional 3 ha da poco oltrepassato i 3050 chilometri; il mio corpo li conosce tutti, uno per uno.

venerdì 18 novembre 2011

Rotta Australe: da Buenos Aires a Río Gallegos

Arrivo nella stazione Retiro di Buenos Aires in un tardo pomeriggio di piena primavera. Il terminal dei bus e', come sempre, pieno di viaggiatori e di autobus a due piani che si irradiano in tutte le arterie della nazione. Il mezzo che mi condurra' a Río Gallegos e' della compagnia Andesmar. Il viaggio che sto per intraprendere e' il piu' lungo che abbia mai percorso. Buenos Aires-Río Gallegos: 2600 chilometri sulla Ruta Nacional 3, dal Río de la Plata alla Patagonia del sud, a 50 chilometri dallo stretto di Magellano. 
Il mio posto a sedere e' quello panoramico del piano superiore del bus. Lasciamo alle 20 passate una Buenos Aires con il tramonto appena consumato, passando per Puertobs as Madero e poi verso sud, inforcando la Ruta Nacional 3 (RN3). Al Sur.
Scorrono veloci i chilometri nel buio stellato, con ancora i riverberi della piu' affascinante capitale dell'America del sud. Accanto a me e' seduta una ragazza danese con la quale comincio a discorrere. Poi arriva il pasto ed un buon bicchiere di vino di Mendoza. Quando si chiudono tutte le luci del bus osserviamo in silenzio il nastro asfaltato che scorre sotto di noi.
Il preludio dell'alba ci accoglie a Bahía Blanca con il vento proveniente dall'oceano ed i gabbiani che sfrecciano nella prima luce. Con la musica dei Cinematic Orchestra nella mente e gli occhi piantati sulle due corsie della strada ornata da minuscoli fiori gialli, nasce un nuovo giorno di viaggio. E' una cosa impossibile da spiegare, eppure qui, nel piano rialzato del bus, con il mondo perfettamente diviso in due colori, di cui uno -quello verde- partito a meta' dalla riga d'asfalto, la monotonia e' oggetto alieno; il sangue ramingo annega di piacere nella strada e nel movimento, assaporando la pat3lentezza e godendo l'interminabilita'. Attorno al bus della Andesmar scorrono mari di praterie e di cespugli. Il cielo tagliato da ombre di nuvole sottili preannuncia una giornata di sole. Ad un certo punto, ad un lato della carreggiata, vedo un autoarticolato immenso coricato su un lato: come il suo conducente pare che stia riposando sui prati della infinita Patagonia.
Sebbene la Patagonia argentina fosse iniziata dopo il río Negro, e' al solcare la provincia Chubut che vediamo i cartelli che annunciano questa immensa zona.

Dopo 24 ore di viaggio il cartello sulla strada segna 1752 chilometri; parecchio piu' avanti il crepuscolo si adagia sui pascoli bitorzoluti della Patagonia centrale. Lame di raggi di sole attraversano il panorama frustato dal vento. Río Gallegos dista ancora 870 chilometri.

Il giorno dopo, alle 8 del mattino, arrivo a Río Gallegos: 36 ore precise di viaggio non-stop; sono stanco ed eccitato. Fuori dal bus della Andesmar il fiato fuma leggermente, il vento e' forte, ma si capisce che la giornata sara' abbastanza mite.
 
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