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martedì 22 novembre 2011

Alla fine del mondo: destinazione Ushuaia

Ancora pascoli e vento e rari alberi. Di nuovo sull’autobus verso Sud. Questa volta il mezzo e' tadella compagnia Tecni-Austral ed e' decisamente meno confortevole di quello a due livelli della Andesmar sul quale ho vissuto un giorno e mezzo. L'autobus ha il vetro anteriore schermato da una rete metallica come protezione dalle pietre della strada sterrata. La destinazione invece... ovvio, e' la fine del mondo.
Le immagini che scorrono fuori dal finestrino sono simili a quelle viste da Comodoro Rivadavia in giu': colline, animali, cielo e vento proveniente da nord-ovest.
In fretta raggiungiamo il confine cileno dove si perdono molte decine di minuti nelle pratiche di immigrazione. Un addetto del bus mi confida che le ore per raggiungere Ushuaia saranno 15 e non 12. Questa e' la destinazione: la citta' piu' a sud del mondo.
Poco dopo essere entrati nel territorio cileno il mare comincia a vedersi sul lato sinistro; in breve la strada si infrange sull'oceano dello stretto di Magellano. Causa il vento cheem supera i 120 km orari il ferry non effettua il servizio di trasporto. Bisogna attendere che le condizioni siano piu' favorevoli. Nel frattempo usciamo ad ammirare il severo passaggio delle antiche rotte navali verso il Pacifico. Se non fosse per il vento, la temperatura sarebbe piacevole.
Ad un certo punto arriva il ferry ed in 20 minuti siamo sulla isola Grande della Terra del Fuoco. Si'.
Sulla pista sterrata i vetri del bus della Tecni-Austral vedono morbide colline, pecore e guanachi, prati e ciuffi di cespugli dagli estremi rinsecchiti. Nelle vallate scorrono TFtorrenti color etere contornati da piccoli fiori. In alcuni momenti mi pare di stare in quei minuscoli eden che si scoprono sopra i 2000 metri sulle Alpi; le iridi si adagiano piacevolmente su tali orizzonti. Come nella querida Santa Cruz in alto le nuvole proseguono a gareggiare tra loro.
Passata la frontiera argentina torna la strada asfaltata e, con essa, la Ruta Nacional 3.
Dopo le ore 22, quando la luce australe comincia decisamente ad abbassarsi, insieme a fitte foreste scorgo il grande lago Khami ed i picchi innevati che rendono eccezionale il sud della Terra del Fuoco. Le valli sono bagnate de torbiere ed acqua senza fine.
Sono le 23 passate quando i piedi toccano l'asfalto di Ushuaia alla ricerca di un alloggio economico. La Ruta Nacional 3 ha da poco oltrepassato i 3050 chilometri; il mio corpo li conosce tutti, uno per uno.

venerdì 18 novembre 2011

Rotta Australe: da Buenos Aires a Río Gallegos

Arrivo nella stazione Retiro di Buenos Aires in un tardo pomeriggio di piena primavera. Il terminal dei bus e', come sempre, pieno di viaggiatori e di autobus a due piani che si irradiano in tutte le arterie della nazione. Il mezzo che mi condurra' a Río Gallegos e' della compagnia Andesmar. Il viaggio che sto per intraprendere e' il piu' lungo che abbia mai percorso. Buenos Aires-Río Gallegos: 2600 chilometri sulla Ruta Nacional 3, dal Río de la Plata alla Patagonia del sud, a 50 chilometri dallo stretto di Magellano. 
Il mio posto a sedere e' quello panoramico del piano superiore del bus. Lasciamo alle 20 passate una Buenos Aires con il tramonto appena consumato, passando per Puertobs as Madero e poi verso sud, inforcando la Ruta Nacional 3 (RN3). Al Sur.
Scorrono veloci i chilometri nel buio stellato, con ancora i riverberi della piu' affascinante capitale dell'America del sud. Accanto a me e' seduta una ragazza danese con la quale comincio a discorrere. Poi arriva il pasto ed un buon bicchiere di vino di Mendoza. Quando si chiudono tutte le luci del bus osserviamo in silenzio il nastro asfaltato che scorre sotto di noi.
Il preludio dell'alba ci accoglie a Bahía Blanca con il vento proveniente dall'oceano ed i gabbiani che sfrecciano nella prima luce. Con la musica dei Cinematic Orchestra nella mente e gli occhi piantati sulle due corsie della strada ornata da minuscoli fiori gialli, nasce un nuovo giorno di viaggio. E' una cosa impossibile da spiegare, eppure qui, nel piano rialzato del bus, con il mondo perfettamente diviso in due colori, di cui uno -quello verde- partito a meta' dalla riga d'asfalto, la monotonia e' oggetto alieno; il sangue ramingo annega di piacere nella strada e nel movimento, assaporando la pat3lentezza e godendo l'interminabilita'. Attorno al bus della Andesmar scorrono mari di praterie e di cespugli. Il cielo tagliato da ombre di nuvole sottili preannuncia una giornata di sole. Ad un certo punto, ad un lato della carreggiata, vedo un autoarticolato immenso coricato su un lato: come il suo conducente pare che stia riposando sui prati della infinita Patagonia.
Sebbene la Patagonia argentina fosse iniziata dopo il río Negro, e' al solcare la provincia Chubut che vediamo i cartelli che annunciano questa immensa zona.

Dopo 24 ore di viaggio il cartello sulla strada segna 1752 chilometri; parecchio piu' avanti il crepuscolo si adagia sui pascoli bitorzoluti della Patagonia centrale. Lame di raggi di sole attraversano il panorama frustato dal vento. Río Gallegos dista ancora 870 chilometri.

Il giorno dopo, alle 8 del mattino, arrivo a Río Gallegos: 36 ore precise di viaggio non-stop; sono stanco ed eccitato. Fuori dal bus della Andesmar il fiato fuma leggermente, il vento e' forte, ma si capisce che la giornata sara' abbastanza mite.

lunedì 24 ottobre 2011

I colori della Bolivia che guarda alla biodiversita'

Dopo quasi un mese torniamo a Cuevas, con le Ande tutte intorno,  a 1100 mt. di altitudine. Quando giungiamo con la jeep in prossimita' dell'istituto scolastico del paese ci rendiamo conto che ci aspetta un evento importante. Infatti, per il primo concorso pittorico “Prendiamoci cura della biodiversita'” promosso dal nostro progetto di cooperazione, la scuola ha fatto le cose in grande: autorita', impianto audio, esposizione dei lavori e rinfresco.

Anche questa volta salutiamo l'umida e querida Santa Cruz con il buio del vergine mattino. Dovevamo partire il giorno prima per combinare la visita con il piccolo istituto di Tres Quebradas, ma le piogge cadute su tutto il dipartimento hanno fatto franare parte della lunga pista sterrata che porta al paesino. Durante il viaggio ancora per una volta assaporo i pascoli e gli alberi di tropico ringiovaniti dalla pioggia, le ondulazioni del paesaggio, le montagne rosse del Bermejo ed i panorami quasi scozzesi delle colline sopra i 1200 metri di altitudine che portano a Samaipata.

Insieme a Liliana e Fabiola veniamo subito accolti dai quasi 200 studenti e dal direttore di Cuevas che immediatamente propone il programma della mattinata. Tra gli ingredienti ci sono l'inno nazionale con alzabandiera, discorso delle autorita', costituzione della giuria, visione degli elaborati artistici divisi per classe e premiazione dei vincitori.
Sotto e dentro le montagne d'America, e con l'aria frizzante attorno a noi che sapora di festa, partecipiamo con passione all'evento. cuev
I disegni a contenuto ambientale sono davvero interessanti, rendendo difficile l'elezione dei vincitori. Sono elaborati che propongono una maggiore responsabilita' verso la Natura, contro gli incendi che distruggono animali e piante, l'importanza della diversita' biotica, contro l'abbandono dei rifiuti e altro ancora: disegni fatti con passione e con coscienza.
Viene quindi scelto e premiato uno studente per classe; qualche bambino si mette a piangere per la delusione di non trovarsi tra gli eletti. Anche i ragazzi piu' grandi partecipano con disciplina ed interesse.
Prima di lasciare la scuola e gli studenti consegniamo del materiale didattico cartaceo e digitale al direttore perché venga utilizzato dai professori durante le loro lezioni.

lunedì 29 agosto 2011

Le nuvole dentro Santa Cruz – Panorami metropolitani

Anche se nessuno lo sa, le nuvole gareggiano tra loro nel cielo. Non è una competizione insana come avviene più in basso tra scatole di latta a motore, ma un divertimento appassionante. I globi con maggiore esperienza cercano aliti propizi di corrente con lo scopo di guadagnare qualche metro rispetto ai loro compagni, tuttavia l'impresa risulta non facile. Il Norte è troppo maledettamente uniforme, e l'America è il luogo dove si celebra il viaggio per eccellenza.
Dopo la cavalcata sul mare di foreste e sui coralli montagnosi che lentamente si innalzano verso ovest, le nuvole sono al cospetto della Città. Là sotto è sabato pomeriggio e tutto pare più tranquillo. Meno micros e clacson in giro, meno esseri a due zampe che inseguono l'affanno: sono condizioni favorevoli per abbandonare per qualche minuto il gioco della velocità nel cielo e osservare quello che succede in basso. 

 
Due milioni di abitanti, la stessa quantità di bancarelle nei mercati, decine di migliaia di pick-up e tanti cani liberi. Bianca SCZcome le pareti delle case, verde come i pascoli immensi che la circondano, marrone di tetti e di sabbia su cui è fondata. Negli alberi dei suoi viali le nuvole si ammantano di giallo, arancione, malva, rosso, impregnandosi di pollini e di aromi straordinari; incontrano piccoli gruppi di pappagalli verdi il cui suono acido arriva in alto, vedono le piastrelle esagonali delle strade che portano al centro.
Anche se in basso il vento del Norte ha aumentato la sua intensità causa la distruzione della riserva forestale del Choré, passato il tercer anillo le nuvole scendono di quota per osservare da vicino il nucleo di Santa Cruz. Qui cominciano i palazzi dei benestanti, i semafori, le ville chiuse da muri con filo spinato elettrificato, le case a quadrilatero con il patio centrale, i locali del divertimento. Qui si raccolgono anche ragazzi di strada che sniffano colla, prostitute e uomini sventrati dalla vita. Sulle chiare strade pavimentate scivolano tranquilli mezzi a motore, mentre negli angoli più oscuri odoranti di orina piccoli vortici trasportano un insieme di carta, sabbia, plastica.
E' sabato pomeriggio con il sole tropicale in ritirata verso altri mondi ma ancora ricco di calore, e dai cortili inizia la preparazione del rito della festa: sedie di legno poste in circolo, pentole ricche di cibo, pile di piatti di vetro, musica a livelli pornografici, pornografiche quantità di alcol che nei casi migliori dura fino alla luce del giorno successivo. E sbornie e balli infiniti.
Ora le nuvole passano radenti il campus dell'Università autonoma, attraversano il primo anello e sono nel cuore della metropoli. Risalgono la breve pendenza della calle Junín contando le sue piastrelle dai sei lati e le case basse dai tetti sporgenti sorretti da colonne in pregiato legno tropicale. Quasi al termine della via ci sono un paio di alberghi dove dei giovani europei venivano a passare il fine settimana; gli occhi delle nuvole respirano ancora i sentieri raminghi dei loro amori e l'eroica solitudine che impregnava i loro corpi magri. Mai sarà dimenticato tutto questo.


In un soffio i globi sono sopra la piazza principale. Vedono palazzisczplaza chiari in stile coloniale e quasi toccano le guglie della cattedrale. Con addosso il profumo dei fiori di frangipane, quando ormai si trovano tra la calle Sucre e la René Moreno, le nuvole prendono quota senza distogliere l'attenzione dall'epilogo del centro cittadino, dove forse si raccolgono gli angoli più belli della metropoli.
Le ultime occhiate sopra la Città della Croce potenziata sono destinate ai locali più alla moda a sud, tra il primo e secondo anillo, di seguito le nuvole veleggiano definitivamente in alto. Ora possono tornare e dedicarsi alle loro pazienti competizioni, in attesa che il cielo d'America le accompagni verso nuove mutazioni di mondo.

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mercoledì 10 agosto 2011

Le nuvole sopra Santa Cruz – Panorami di preludio

Le nubi generano un lungo sospiro quando intravedono la Città della Croce potenziata. Si sa che esse preferiscono le montagne, le foreste, i fiumi e gli animali, ma per questa città riservano un sentimento di affezione proveniente da lontano.

Prima di giungere a Santa Cruz i globi immacolati hanno conosciuto cittadine come Warnes e Montero, passato una moltitudine di corsi d'acqua, tra cui primeggia il rio Piraí; tappeti di pascoli infiniti con fattorie, panorami di alberi tropicali e bovini a scelta, visioni di piantagioni di canna da zucchero e di stabilimenti dell'agroindustria, di strade asfaltate e strade marroni. Immerso tra le palme e i prati ad un certo punto spunta il rettangolo scuro dove risiede l'aeroporto Viru Viru; anche se non è nulla rispetto a quello conservato nella memoria delle evoluzioni nuvolose, i viaggiatori che qui atterrano hanno assaporato piacevoli visioni.

Quasi tutti siamo a conoscenza del potere omnisciente delle nuvole, tuttavia qualche giovane paffuto virgulto non ancora bene formato, vedendo quello che gli scivola sotto, potrebbe perifimmaginare che il vento del Norte riservi loro la savana secca del Chaco e poi le lunghe terre del sud. Invece la Città de la Sierra, la metropoli costruita sull'erosione naturale delle montagne, arriva come giungono i fenicotteri nel documentario musicato magistralmente dai Cinematic Orchestra.
www.youtube.com/watch?v=3smd5Ni3C0g

Le nuvole volano alte nell'empireo con il vento e gli uccelli e le stelle come compagni, eppure non riescono a scorgere la fine del conglomerato urbano che si dipana laggiù, in basso. All'inizio sono i nastri  d'asfalto che diventano sempre più trafficati, poi le fabbriche, i magazzini, i distributori di combustibile e case basse disposte a mosaico da un architetto fantastico. Già dalla periferia si intravedono molti puntini a due zampe in costante evoluzione: vendono in strada qualsiasi cosa possa risultare commerciabile, salgono e scendono dai micros, suonano il clacson, entrano nei supermercati, attendono un amore perduto, offrono piacere vuotato d'amore in cambio di denaro, controllano le ville e i condomini alti dei ricchi per pochi denari, cercano una vita nuova o ingannano la propria sfortunata esistenza. Si muovono come formiche ubique assetate di qualsiasi bene. Sono le stesse formichine che a nord, ad est ed a ovest divorano foresta  senza fermarsi. Alle nubi immacolate piacciono poco gli uomini. Quasi per nulla.

Il vento proveniente dall'Amazzonia boliviana riesce a spazzare via l'umidità e lo smog che aleggia sulla Città della sabbia, permettendo alle nuvole di dominarla meglio dall'alto: ecco i suoi anelli concentrici, le sue strade larghe ed i suoi alberi in fiore. Ecco i tetti di tegole marroni imbrunite dal tempo e dai licheni, le lamiere e i teli dei suoi mercati rionali.
 
Prima, non tanto tempo fa, era solo il segundo anillo, poi, per quei giovani europei colmi di vita dai capelli lunghi era il tercero, ora sono quasi una decina gli anelli che circondano Santa Cruz.
E' il preludio della città.

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sabato 17 luglio 2010

Sulle rotaie del Myanmar

Il luogo e' presidiato dai militari. Un funzionario serio esamina il mio passaporto lentamente, poi ricopia alcuni dati sul biglietto. Quattro dollari. All'inizio mi rifiuta una banconota perche' malconcia, ma, vedendo non ne posseggo altre, accetta il denaro con una smorfia. Inizia cosi' il mio viaggio da Taungoo a Thazi.
Strati di nuvole monsoniche scivolano sul metallo liso delle rotaie mentre attendo. Il 5 UP arriva in ritardo con le sue carrozze color crema, pavoneggiando inizialmente la classe Superior, per successivamente presentare i vagoni di classe Ordinary. La mia. Cerco la carrozza 2 ma non vedo numeri, quindi domando informazioni. Un addetto mi accompagna velocemente al mio posto mentre il bagaglio viene generosamente portato da un ragazzo con la giacca mimetica e i denti incrostati dal rosso scuro del betel. Dopo una abbondante sosta partiamo dapprima a scossoni, in seguito dondolando lateralmente. Acuti rumori metallici si incrociano con voci reiteranti dei venditori e il parlare dei passeggeri. Dai finestrini generosamente spalancati e sotto un sole alternato a nubi mi si apre uno splendido mosaico antico: cesellato da mani esperte, un'infinita' di piccole risaie vengono coltivate da uomini e donne con i copricapo in fibra vegetale a forma conica. Mi si fissano negli occhi tonalita' diverse di verde, mischiate al marrone dell'acqua luccicante. Verde verginale del riso da poco piantato si intervalla al rosso del terreno arato ed al quasi giallo delle piante mature. Vedo scorrere case di paglia con tetti di lamiera, protette da un groviglio di palme da cocco, banani, papaye e manghi; nei campi si muovono magri cani liberi, mucche, zebu' e bufali indiani utilizzati per trainare carretti e antichi strumenti agricoli. Uomini tranquilli accompagnano mucche che divorano l'erba cresciuta tra gli appezzamenti del cereale. Cullato dal lento procedere del treno, attorno a me passa l'Asia.

Accanto al mio posto si e' seduto il ragazzo sorridente con la tuta mimetica. Su questi sedili di legno cigolanti mi spiega che torna a casa dopo aver fatto una visita medica. Anche se la comunicazione e' difficile, il ragazzo diventa un intermediario tra me e quello che avviene nella vivace carrozza. Ambulanti di tutti i tipi passano in continuazione vendendo principalmente generi alimentari; accanto a loro scorrono in competizione gli addetti del treno che offrono bevande e piatti di riso con curry. Ad un certo momento passano due giovani monaci che chiedono l'offerta porgendo a ciascun passeggero una busta vuota. Diversi viaggiatori contribuiscono generosamente. Poco dopo un signore si piazza alla meta' esatta del vagone e, dopo una pomposa introduzione con voce squillante, propone una serie di balsami di bellezza. Appena mostra ai suoi ascoltatori un prodotto nuovo, il ragazzo accanto mi informa riguardo il prezzo. Ridiamo scherzosamente ogni volta, come in uno scherzo semplice.
Di fronte a noi ci sono una coppia di giovani birmani che osservano con curiosita' il nostro parlare, guardando con discrezione i miei vestiti, i movimenti e quello che estraggo dallo zainetto. In questo mondo oppresso da una dittatura chiusa su se stessa, in modo speculare la mia persona e gli altri passeggeri del vagone siamo investiti dalla novita' che e' effetto del viaggio.
Mentre penso a come poteva essere la Birmania all'epoca del colonialismo, le mie narici vengono investite da un miscuglio di odori di frittura, l'aromatico del betel, di fiori e, con grande piacere, riconosco l'inconfondibile richiamo del frutto piu' particolare che esista, quello con cui l'amore e' per sempre. Il durian.
Le ore si affastellano su questo treno lento e gioviale; corro con il paesaggio che muta, vedo gente mangiare, incrocio ragazzi carichi di libri che affittano per qualche ora ai passeggeri, bigliettai immusoniti dalla loro carica statale. Nonostante non sappia bene a che ora raggiungero' Thazi, mi accorgo che quaggiu', infossato nei sedili di legno delle classe Ordinary, la mente e' profondamente libera, spoglia dai doveri. Spoglia, nulla piu'.

sabato 3 luglio 2010

Da Pattaya a Bangkok

Il signore seduto davanti a me ha le mani scure e forti. I contorni delle sue unghie sono marchiate dal nero, forse e' il lavoro in officina. Porta una camicia blu ed un paio di bermuda verdi colmi di tasche laterali. Si e' portato per il viaggio un sacchetto di biscotti ed una bevanda color rosso venduta in tutto il mondo non certo per le sue proprieta' qualitative. Chissa' cosa andra' a fare a Bangkok il signore con la camicia blu, mi chiedo mentre ai fianchi scorrono colline ricoperte di alberi, palme da cocco, bandiere cangianti della Thailandia e ombrelloni dei venditori ambulanti. Un cielo monsonico costellato da nuvole in continuo accavallamento tra loro si libra sopra le nostre teste; una incomprensibile straordinaria ordinarieta' mi si posa sugli occhi e su quello che guardano, come se viaggiassi all'infinito.


Ancora una volta in movimento dentro il mondo, qui, assaporando The man with the movie camera dei Cinematic Orchestra, seduto nei posti terminali del bus. Volo insieme alla chitarra cinematica anche se la mente e' occupata ad elaborare quello che ho visto in questi ultimi giorni. Per riassumerlo potrei citare ancora musica con un crudo e realistico pezzo di Frank Zappa, ma basta far scorrere lo sguardo in avanti di alcuni posti per incontrare il classico frequentatore di Pattaya: maschio occidentale, abbronzato e tatuato, canotta, calzoni corti, capelli rasati per nascondere inutilmente la calvizie, corporatura abbondante e pancia da birra. A suo fianco l'acccompagna una ragazza thailandese che avra' venti anni meno di lui. Tento un difficile lavoro di fantasia ma non riesco ad immaginarmi questo individuo nel suo paese di origine; cerco di pensare che impiego potrebbe svolgere con la maggiore cattiveria possibile ma e' inutile, il lavoro e' troppo una cosa seria. Dalla finestra del mio alloggio questa mattina vedevo uomini vagare soli come zombie, anzi, come vampiri da film di serie B che fuggono dalla luce del giorno per rintanarsi nei loro lussuosi alberghi dopo una notte di alcol e 'Amore senza amore' (G. Marquez) in qualche hotel dalle pareti sporche con lenzuola rammendate da buchi di brace di sigaretta.

Il bus scorre veloce sotto questo cielo paziente zeppo di nuvole, anche se presto dovra' arrendersi alla periferia di Bangkok, dove il traffico infernale della citta' degli angeli rallentera' fino quasi ad azzerare il suo incedere. Quanti passeggeri, quante speranze e quanta solitudine piu' o meno infangata dovra' ancora portare?

giovedì 3 giugno 2010

La fine della Panamericana

Un breve tratto di mare e poi verso la fine della strada motorizzata più lunga del mondo. Quasi quarantottomila chilometri di asfalto che affondano nelle vene di questo continente dove il viaggio nei sentieri della Natura e del tempo è ancora realizzabile. Il traghetto mi congiunge all'arcipelago di Chiloé, che ora è parzialmente occultato da una leggera nebbia marina, quasi fosse un'isola lontana del nord Europa. Anche se il mio vagare non è terminato, sento che qualcosa sta per chiudersi insieme alla Ruta 5, la Panamericana.
Sotto di noi un mare impenetrabile per effetto del moto ondoso ed un riverbero di provenienza indefinita. Raggi di sole sbilenchi filtrano tra nuvole cariche di cromaticità variabile; proiettando lo sguardo che dal filo dell'acqua raggiunge la terraferma a nord, si ricevono diverse sensazioni disarmoniche tra loro: luce al tramonto, arrivo di un temporale, occhi che osservano il mondo attraverso filtri improbabili. In alcune porzioni di cielo, nuvole e mare gareggiano a riflettersi il grigio, come in un continuo gioco di specchi. 
Il bus della Cruz del Sur vola sui prati verdi macchiati dal giallo del freddo dove pascolano bovini, attraversa fattorie di legno, boschi scuri piegati dal vento oceanico, masticando la strada solitaria. Una signora dai tratti indigeni sale ad Ancud: indossa una giacca color limone sbiadito e tra le mani porta un pacco voluminoso, forse un regalo. A tratti i cigvetri del bus si velano di una pioggia sottile e silenziosa, ottenebrando la visuale. Nelle vicinanze di Castro scorgo lembi di mare che si insinuano tra colline ricche di vegetazione. Fotografo mentalmente questa visione di mare-cielo-terra come un'unione sincronica di elementi che paiono fusi assieme. Forse le mie iridi sono prese d'inganno: forse gli alberi, i fiordi, le leste nuvole che confondono il cielo, i prati, non sono partizioni di paesaggio ma una inscindibile unità.
La cittadina di Castro mi accoglie con una tiepida luce che pare provenga dal sole. Questa volta ho un indirizzo sicuro dove dormire: un commesso viaggiatore che ho conosciuto molta strada più a nord mi ha fornito tutti gli estremi. Attraverso vie umide con la borsa a tracolla tra donne che tornano dalla spesa, artigiani con furgoncini rumorosi, operai e bancarelle dei commercianti. Suono al numero civico di una casa bassa e semplice. La signora con il grembiule blu mi ascolta in silenzio, poi, dopo essersi asciugata le mani in grembo, dice che è dispiaciuta ma tutte le sue stanze sono occupate.
Mi riesce difficile spiegarlo, ma Castro è una città diversa da quelle che ho appena visitato. Altra gente, altro sangue. Altri destini più severi. Visito la zona portuale e poi l'area delle tipiche palafitte poste sull'acqua. Cammino a lungo tra i quartieri popolari, osservando, accompagnato da ventate di pioggia invisibile e dalla brezza disarmante; come un vagabondo privilegiato e solitario sperimento cosa vuol dire vivere tutto il giorno fuori, facendosi corrodere piano piano dal cstfreddo, dall'umido, con la necessità corporale ed istintuale del  movimento. Percorro strade lunghe e diritte che si tuffano nel mare. Nella zona bassa della cittadina homeless avvolti da pesanti cappotti dormono sui marciapiedi accanto a bottiglie vuote. Come a Puerto Montt anche qui vedo ristoranti che si appoggiano su palafitte, ma pare siano chiusi. Prima di rientrare nella mia stanza faccio un giro nel movimentato terminal dei bus informandomi sulle destinazioni verso l'isola di Quinchao

La Panamericana è terminata. La scorro mentalmente lungo i tratti infiniti che ho percorso. Decine e decine di bus, ore su ore ascoltando musica, leggendo un poco, ma soprattutto con gli occhi abbagliati dal panorama che scorreva pazientemente sui vetri.
Da questo locale di Castro, Chiloé, seduto di fronte alla vetrata che si affaccia sulla strada, riesco a sentire sul corpo le vibrazioni che mi ha tramesso la Ruta 5, le molte persone sfiorate solo per un attimo e quelle invece che hanno portato significato. La strada è lì dura, calda, fredda, vuota, ma soprattutto inevitabile. Mi risulta difficile restare fermo mentre la via aspetta un nuovo passeggero dal destino ramingo, attende colui che affronta lo scopo disarmato.
Negli anni passati, durante un viaggio, vivevo il tempo trascorso sopra un bus, una barca, un treno come una perdita, una sconfitta. Adesso capisco che a cavallo della strada è possibile incontrare parte di sé stessi, è realizzabile il silenzio, mentre il flusso ci accompagna in luoghi sconosciuti.
Il movimento libero pare alieno alla senescenza, sembra alieno alla morte, trasmette uno status che si accosta alla invulnerabilità.
Con il corpo esausto, sotto questo cielo burrascoso, mi risale alla mente una frase del Kalevala: 'L'interna fiamma, la febbre di andare'.
 
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