venerdì 19 marzo 2010

Il silenzio del girovago

Si siede su una roccia scura. Un lampo mi fa intuire che la sua attenzione volteggia rapida nell'orizzonte aperto. Riscaldato da un sole distratto, faccio galleggiare i sensi sulle acque increspate che pare non terminino mai, per poi alzare lo sguardo verso lontane montagne boscose e scure. Sento che tira fuori dallo zaino verde la macchina e scatta lentamente qualche foto.
Nel silenzio gonfio di qualche richiamo di uccelli, con una voce che pare non appartenga a lei, chiede “Cosa facciamo qui?”
Non capendo se è una domanda rivolta a me o a se stessa, muovo leggermente il capo verso Lena, ma non arrivo al suo volto. Dopo questo inutile gesto torno nella posizione primigenia, di fronte alle acque del lago Llanquihue.

Ci siamo conosciuti tre giorni fa nell'hostal Hellwig, in una giornata dove sole, grandine, pioggia e tonalità di luce passavano con uno stormo di volatili marini. Ero appena arrivato dalla costa est e, mentre il custode dell'hospedaje mi mostrava la stanza, l'ho vista seduta sul divano consumato del primo piano mentre leggeva una guida. Ha alzato gli occhi chiari e poi ha sorriso lievemente mentre con la mano stuzzicava le punte dei capelli lisci ancora umidi per la pioggia.

Dopo qualche minuto di vuoto carico, riempito dal fruscio leggero delle piccole foglie di coihue, mormoro “Ma lo chiedi...”
“Non intendi cosa voglio dire?”
Mi giro verso la sua magra figura, questa volta trovando i suoi occhi spaesanti “Sì, Lena, ma è difficile rispondere...”
Lei mi guarda con iridi che sembrano appena fuoriuscite dal recondito più intimo del lago. 1q
Perché questa domanda proprio adesso? Mi pone uno dei quesiti focali che incontra il viaggiatore durante la cavalcata libera dentro i mondi. Nell'esperienza del movimento che sviluppa autonomia, la possibilità di creare spazi personali e di riflessione aumenta, non solo perché il tempo slegato si dilata, ma anche perché la diversità di colui che girovaga impone considerazioni necessarie e immediate su se stessi e quello che lo circonda.
Siamo qui vicini, in questa porzione di Mondo immenso, con il cielo il lago gli animali gli alberi, e le nostre vite piacevolmente affaticate dall'alterità. 'L'argilla è immobile, ma il sangue è randagio. Il respiro è merce che non si conserva', scrive Housman con una prosa che mi toglie il fiato; devo assolutamente raccontarla a Lena mentre ci tiriamo delle capsule di piante sconosciute sulla sabbia vulcanica. Lanciando questi circolari contenitori di vita ormai liberi dal seme, con i polmoni pieni di aromi e di vento, e i corpi abbagliati dal vulcano dominante, capisco che le parole sono inutili: il silenzio della consapevolezza ha risposto.

Uccelli bianchi si posano lontani sul lago il cui colore mutevole volta per volta viene forgiato da nuvole e sole, mentre la brezza ci porta l'odore del maestoso Osorno. Mangiamo bevendo birra sulla sabbia grigia del lago Llanquihue. Non c'è alcun turista nello sfiorito inverno australe della Región X; solo due stranieri che alternano silenzi a momenti giocosi, quasi mimando il tempo che li avvolge.
Da un villaggio vicino percorriamo il sentiero nel mezzo del bosco che ci porta alle lagune, piccole pozze di acqua verde che confluiscono nel lago: gemme segrete celate da fitte essenze sempreverdi, dove il vento è alieno e gli animali svernano liberi. Proseguendo la strada sterrata, imbocchiamo il percorso che porta all'Osorno. Il paesaggio è costellato da bitorzolute rocce scure foderate di muschio, e da alberi con tronchi graffiati dall'umidità che aggrappano la loro vita all'impervio terreno. 2s Dopo un'ora di cammino siamo quasi ai piedi della montagna che da tutti questi giorni ci ammalia: il vulcano Osorno. Esso cela parte della sua possanza dietro lesti conglomerati nuvolosi, mostrandosi ogni volta differente. Lena mi chiede di fermarci per poterlo catturare meglio. Rimaniamo in questa posizione a lungo, affascinati dall'impossibile disvelamento della montagna innevata, quando improvvisamente Lena mi tocca il braccio, indicando un punto in alto. È lontanissimo, eppure entrambi sappiamo che quell'apertura alare, il lungo collo, non possono che appartenere al gigante del cielo, il condor. Osserviamo il volatile penetrare  strati di bianco leggero, per poi dileguarsi nei meandri infiniti dell'aria.

venerdì 5 marzo 2010

Il viaggio che purifica

Scorro verso il basso. L'immensa Panamericana si dispiega ancora, centellinando le sue più meridionali estremità e offrendomi visioni senza fine costituite da praterie, boschi di eucalipti intercalati da composti frutteti. Ho compiuto duecento chilometri e il paesaggio sta mutando: niente più agrumi, i quali cedono il passo al frumento e all'allevamento estensivo del bestiame. È sufficiente volgere il capo a sinistra per osservare lo scivolio costante di montagne sempre più innevate: ammiro a lungo il loro colore pieno, totale, cangiante, che le fa apparire ancora più imponenti.
Avvolto nella coperta azzurro-verde della Tur-Bus, questa mattina ho varcato la linea invisibile che mi ha condotto nella Región IX. L'Araucanía è qua attorno a me, dentro di me. “Eccomi”, mi sono detto con la fierezza potente di colui che è in movimento. Lontano dallo scopo, fuori dalla meta, alla ricerca di un qualcosa inafferrabile in continua evoluzione: la strada, l'alterità, l'io.  
Dopo un cambio nella assopita e squadrata Temuco, il bus Jac mi traghetta verso Pucón. Il momento si avvicina. Lo so, tra poco arriva... sì, adesso lo posso vedere.
Nonostante la preparazione, l'immaginazione viene ancora scavalcata in avanti dalla Natura: conico, perfetto, bianco dalle volc2 pendici fino al suo vigoroso culmine; una parte non meglio definibile della cima sbuffa pigre ondate di vapore tra le nuvole zuccherose che veleggiano alte. Assaporo l'impossibilità di descrivere meglio il vulcano Pucón e l'assenza di intelligibilità che esso offre: una imperscrutabilità a cui mi adatto serenamente. Credo di non aver gustato mai nulla di meglio.
Fuori dal Terminal degli autobus visito un paio di hostales economici,  optando per quello che mi ispira maggiormente. È gestito da una coppia notevole: lui biondo, appassionato, con cognome tedesco, lei è una peruviana dai modi cortesi e fini.
Esco quasi subito nel cielo punteggiato di bianco, nell'aria fresca leggermente aromatica della Araucanía. La cittadina è ordinata, con ville, case per turisti e il centro declinante verso il lago. Seduto sulla sabbia scura, in pace, stupefatto, ammiro il vulcano che si specchia nelle tranquille acque lacustri le quali sfidano vincenti la leggera brezza che circola impertinente. Tutt'intorno vigilano boscose montagne tinteggiate di un bianco lieve.

Il giorno dopo prendo un micro bus che mi conduce verso l'interno montagnoso. Il cielo porta nuvole umide dall'Oceano ma non concede loro la pioggia. Mi fermo all'imbocco di un sentiero. Ai lati ci sono statuarie catene montuose che preservano l'ampia valle ondulata, rigogliosa di boschi e prati. Chiazze di neve resistono nelle zone in ombra. Cammino piano osservando e annusando quello che mi circonda. Ora incontro pecore che strappano filamenti di erba giallastra, poi sparute case dai comignoli fumanti. Voltando il capo ritrovo la massa del vulcano Pucón: sembra che l'ancestrale silenzio soffiato nella valle sia impresso dalla sua presenza. Ancora qualche chilometro perpais sentieri e strade sterrate e raggiungo l'area delle pozze di acqua calda, los Pozones, semplici piscine all'aria aperta che racchiudono l'acqua proveniente dal sottosuolo.
Vago tra le pozze d'acqua termale nudo, solo, attraversando climi proibitivi ed incarnando alla perfezione le metafore del viaggio ma anche quelle della natura umana. Fuori c'è la neve morente, dentro, nell'acqua, la temperatura supera i quaranta gradi; due condizioni insostenibili che però riescono a compenetrarsi, due stati dove il corpo e la mente vengono messi alla prova. Dopo qualche immersione scelgo di rimanere fuori il più possibile, camminando lentamente tra le piscine vuote. Le braccia avvolgono spasmodicamente il petto tempestato dai brividi ma continuo questa strana e spontanea sfida con l'ambiente. Spogliato dai vestiti e dalle cose, con il luccichio dell'acqua negli occhi e la rifrazione della neve sul corpo, sotto il cielo e i monti dell'America australe, trovo parte dell'essenzialità perduta.
L'accogliente acqua manda odori sulfurei, di terra e minerali. Rivoli caldi confluiscono in un torrente di montagna ricco di pietre levigate. Tolgo le ciabatte dai piedi con difficoltà. Come in un battesimo risolutivo immetto la mia nudità tremante e randagia nel liquido vaporoso, ponendo termine alle sofferenze provocate dal freddo, per accoglierne altre.
 
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