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venerdì 8 luglio 2011

Le donne della fatica

Da mercoledi’ sto partecipando ad una tre giorni di sostegno alle donne che si dedicano alla piccola impresa agricola, organizzata dalla ONG boliviana CEPAC. Sotto una pioggia frutto dello scontro tra venti caldi del nord e quelli freddi patagonici, le signore arrivano piano piano a gruppi nella sede del CEPAC di Yapacani', cittadina a circa 120 chilometri da Santa Cruz. Ora sono nelafue salone e ascolto Yaque, un'esperta della Casa de la Mujer che coinvolge e stimola le donne a raccontare le loro storie, le difficolta' di essere imprenditrice e donna nelle localita' rurali. Osservo queste signore cosi' diverse tra loro: sono donne giovani e meno giovani, che provengono dalle zone collinari delle preande e dalla pianura tropicale, signore vestite con la gonna voluminosa, i sandali e i capelli neri intrecciati secondo le loro origini dell'altopiano, ragazze dalla pelle chiara in jeans e scarpe da tennis. Donne che non hanno paura. Anche se sono cosi' eterogenee tra loro, tutte rivendicano l’urgenza di assumere un maggiore ruolo nella societa' boliviana. Ascolto parole come perseveranza, responsabilita', compassione, partecipazione, onesta', mentre fuori la pioggia cade sulle piante di mango, sui cespugli e l'erba delsal giardino, con galline libere che zampettano indisturbate.
Ieri sera Trinidad, una signora con il volto scolpito da rughe profonde, raccontava la sua storia, la sua vita di giovane donna proveniente dai climi secchi all'altopiano catapultata a coltivare la terra nella selva tropicale con strumenti arcaici insieme al marito ed un figlio piccolo, in un lotto senza vie di accesso offerto loro dallo stato. Per muoversi avevano solo sentieri tra alberi alti ed una vegetazione dimenticata che ora si rifugia sempre piu' tra le montagne o nelle riserve naturali.
Insieme ad un altro signore siamo gli unici uomini presenti in questa sala, eppure qui, avvolto nell’energia di queste donne con le mani segnate dalla fatica e dalle difficolta’, mi sento troppo a mio agio.

martedì 7 settembre 2010

Il pianeta Birmania

In Myanmar pare di toccare un pianeta lontano in cui il tempo scorre con maggior lentezza, dove gli orologi camminano piano quasi fossero fermi; un mondo a se', isolato nella sua ricchezza culturale.
Ancorati al suolo paiono i pochissimi aerei dell'aeroporto di Yangon, rarefatte auto private circolano in una citta' che conta diversi milioni di abitanti, sparuti i turisti che si muovono insicuri lungo strade soffocate dal rumore, osservati da timidi birmani quasi fossero merce preziosa e finita. Un paese quasi senza pubblicita', dove le multinazionali sono presenti ma tengono un  basso e sporco profilo per non indignare l'opinione pubblica internazionale, scarsi i cellulari, i PC, le televisioni e altri oggetti di consumo piu' o meno superflui.
Uscendo dalla citta' il pianeta dal tempo rallentato mostra il meglio di se' con una campagna antica e la tecnologia quasi campagna sconosciuta; in cambio la simbiosi dell'individuo con l'ambiente si percepisce in tutta la sua pienezza. Muovendoti vedi animali ovunque, spazi verdi e cerchi di immaginare le foreste primarie che il regime dittatoriale ha cancellato per sopire la sua infinita sete di denaro.
Nel treno, in bicicletta, a piedi, sulla strada polverosa, incontri persone incantevoli con desiderio di parlare, curiosi della tua provenienza, delle destinazioni e di quello succede al di fuori del loro Paese. Trovi uomini in longyi dal continuo masticare e sputare saliva rossa di betel, quasi a marcare un territorio conteso; ricordo un mototaxista in lunga attesa di clienti che uomoaveva attorno al suo mezzo una serie impressionante di fresche macchie rosse. Incroci donne magre dal volto e le braccia coperte di bianco leggero della pasta di palma che tonifica e protegge la pelle dai raggi solari, trasportando pesi sul capo. Vedi bambini giocando a biglie, bambini lavoratori in cerca di un sorriso e approvazione.

L'utima traccia dal Myanmar la dedico alla signora dagli occhi navigati che mi ha accompagnato alla guest house -chiamando un riscio' a proprie spese- attraverso una Yangon downtown allagata di buia pioggia torrenziale, alla signora della bancarella del cibo che forse mi attendeva da un destino infinito. Il pensiero conduce al taxista di Yagon con una sola estraibile manopola per i quattro finestrini del suo violentato mezzo; lungo il tragitto si e' fermato, ha acquistato da un ambulante betel e sigarette sfuse e poi, prima di rimettersi alla guida, mi ha offerto la sua spesa.
Non riesco a dimenticare il ragazzo timido seduto accanto nel bus per Taungoo: dopo avermi spiegato con estrema purezza il suo lavoro di piantatore di riso ha espirato con dolce calma: "Nel mio Paese non esiste democrazia".u beins
In questa isola paziente dal tempo rallentato ricordo il lavoratore di metalli preziosi con il quale era impossibile non essere felici in sua presenza. Ricco di solarita' virulenta racconta della sua Mandalay, dei figli, di tutto; ad un certo momento, forse confuso dal caldo, con un sorriso straripante afferma che potrei essere un perfetto attore cinematografico.
Sempre in Mandalay ho conosciuto una manciata di giovani monaci i quali mi hanno invitato a visitare il loro monastero e  i locali dove vivono. Nel semplicissimo dormitorio, seduti per terra bevendo the tiepido, hanno spiegato i loro studi di lingue straniere, la loro sete di conoscenza e la volonta' di appartenere ad un mondo piu' vasto.
Il pensiero finale lo dedico allo studente di Yangon che mi ha aiutato a districarmi tra la babele di bus arrugginiti della metropoli e poi, non contento, ha insistito nel pagarmi il biglietto.
Per queste persone e molte altre incrociate in un destino ramingo desidererei che il tempo mutasse, vorrei per loro minuti con forma e spazi diversi. Nello stesso momento -e per contrappasso- percepisco l'urgenza di conservare piccoli respiri di aria salutare del pianeta dal tempo rallentato.

mercoledì 19 agosto 2009

Frammenti di viaggio 9

Malattia inconfessabile.
Devo dire la verita'. Sono stato infettato da una strana malattia: si chiama Durian ed e' molto difficile da estirpare. L'unica cura e' ingerire dei semi con attorno della polpa bianca burrosa emananti un odore non troppo gradevole ma con un sapore che non scordi piu'.
Il frutto Durian, appunto! http://en.wikipedia.org/wiki/Durian
I cinesi e molti indonesiani vanno matti per questo grosso frutto marrone spinoso non facile al palato e troppo ingiustamente censurato da irrimediabili conservatori. Infatti, anche se viene rifiutato da diversi hotel per il suo aroma che si espande, una volta che vieni contagiato non puoi quasi piu' farne a meno. Il gelato al Durian e' buonissimo, chissa' come sara' con sopra della fresca e dolce panna!
Ho deciso di intraprendere questo grande passo a Bandung, Jawa, presso un negozio che si occupava solo di questo. Dei seri professionisti. Fuori da questo locale/ripostiglio, su un largo marciapiede prossimo ad una strada secondaria di periferia, erano ammucchiati in diverse pile decine di durian e parecchi estimatori attorno a loro. Il mio posto. Quella sera, dopo una salutare e fresca doccia, mi sono approssimato presso questa mecca del gusto ed ho chiesto umilmente di farne parte. Ho preso un basso e sporco sgabellino di legno, mi sono seduto di fronte ad una inquietante montagna marrone di prodotti della terra ed un signore di mezz'eta', con un grosso coltello, ha aperto la coriacea buccia del frutto facendomi assaggiare la polpa. Difficile descrivere il sapore: burro di arachidi, avocado e molto altro ancora, con un retrogusto indubbiamente forte. L'addetto del durian ha assaggiato a sua volta il frutto aperto ed ha annuito. A questo punto ho cominciato lentamente a gustare. Con la mano destra mettevo in bocca un grosso seme e succhiavo la polpa posta al suo esterno. Da neofita non gustavo a lungo ogni singolo seme, mentre la coppia di indonesiani vicino a me ci sapeva fare. Ci vuole tempo per tutto. Dopo i primi 5-6 semi la pancia del postulante Stefano era colma, la sua sciocca mente si chiedeva quali effetti poteva avere questo frutto sull'apparato digerente e cose di questo tipo. Ma, alla fine, come per molte cose, la passione la vince e quindi il novizio riusci' a terminare con successo il grosso frutto che porta il nome di Durian. L'amore era scoppiato.

Volti di viaggiatori.
Robert. Trent'anni circa, biondo, indossa camicia polo chiara, pantaloni corti, cappellino con visiera, occhiali da sole. Viene da Hannover e lavora nel campo della contabilita'.
Robert l'ho conosciuto ieri, di ritorno dalle isole malesi Perhentian. Delle diverse barche provenienti dai due atolli colme di turisti, siamo solo in due che aspettiamo il bus locale per Kuala Terengganu. Quasi subito concordiamo sull'isola appena visitata: troppi stranieri, nessun malese tranne quelli che lavorano nel turismo, prezzi alti, posti carini, ecc... Robert ha venti giorni di ferie e sta' visitando l'Asia per la prima volta. "Un mondo tutto differente", esclama quasi subito. Aspettando il bus delle 10 piano piano esponiamo a vicenda le proprie considerazioni sui posti visitati e sul viaggiare.
Robert e' un tipo di poche parole ma molto ben assestate. Si pone tante domande su quello che lo circonda per tentare di capire. Descrive cosi' Kuala Lumpur: "Una citta' dove il postmoderno si mescola con pezzi di terzo mondo".
Durante il viaggio verso Kuala Terengganu a tratti il nostro scambio continua. Arrivati a destinazione ci salutiamo stringendoci forte ed a lungo la mano. Lui rimane in citta', io cerco un bus notturno per il meridione.

Katerine. Ha preso il bus per Bandung all'ultimo momento. Io ero seduto nei sedili anteriori, lei e' salita dietro. Quasi subito un gruppo di ragazzi indonesiani ha prodotto delle considerazioni sulla ragazza; Katerine si e' messa a ridere ed e' stata al gioco.
Studentessa olandese, capelli color paglia scuro raccolti in cima alla testa, calzoni lunghi leggeri, maglietta e scarpe da ginnastica. "Porto i pantaloni lunghi per rispetto del Paese in cui mi trovo".
I giovani indonesiani tentano l'approccio plateale con l'attraente Katerine.
Arrivati a Bandung la ragazza mi si avvicina e chiede se sto andando a cercare un alloggio. Ci conosciamo cosi'.
Sul bus cittadino scherziamo bonariamente riguardo i diversi prodotti che gli ambulanti ci propinano a bordo: rivista di cucina introdotta da una spiegazione vocale, giornali, caramelle balsamiche e altro ancora in 20 minuti nel traffico cittadino.
Una volta scesi dal bus che si ferma di fianco ad una grossa moschea, ci incamminiamo alla ricerca di un alloggio economico. Uomini si voltano al passaggio dell'olandese.
Mi racconta che ha visitato Bali e ora Jawa insieme ad un'amica; ora si e' staccata temporaneamente dalla compagna per procedere in solitaria. "Mangiamo quasi sempre nei warung, le bancarelle gastronomiche". Poi: "Siamo scappate da Kuta, Bali, non la sopportavo", "Gli indonesiani sono estremamente simpatici, sei d'accordo anche tu?".
Katerine sorride sempre.
 
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