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venerdì 13 aprile 2018

Il monte Albán, Oaxaca

In un mondo a parte, in un luogo privilegiato dove la boscaglia lascia spazio alla visione ampia, domino Oaxaca e le montagne che la circondano. Una giornata limpida dopo i temporali. Quale piacere immaginare che la piccola cima sopra cui mi trovo un tempo fosse una piramide.

In pochi minuti sono uscito dal traffico caotico e violento del periférico, salendo verso il verde, la pace e la frescura degli 1800 metri. Un lunedì dove rade nuvole svogliate, ricche di umidità e ricordi, lambiscono le basse cime all'orizzonte. Ho come l'impressione, un robusto dejà vu, di aver vissuto questi momenti.

Arrivo all'entrata del sito archeologico con il primo van turistico. Pur trovandosi appena sopra Oaxaca, gli autobus urbani non raggiungono il monte Albán. I venditori ambulanti più o meno legali stanno ancora organizzandosi. Cappelli, improbabili resti archeologici, copie di manufatti precolombiani, bevande, artigianato.
Pago il biglietto d'entrata, snobbo le visite guidate a pagamento, e mi avvio quasi in solitudine tra l'erba umida in uno dei luoghi più significativi del Messico. In un altra vita l'erba del monte Albán era secca. Tutto era giallo. Anche il cielo.

Istintivamente mi dirigo verso i reperti Zapotecos più periferici: tombe con rimasugli di muri e colonne, circondate da arbusti ed erba alta. Appena oltre gli alberi bassi si delineano lontane sagome di colline.

Raggiungo la Gran Plaza da dietro, di soppiatto, silenziosamente, prendendola alla sprovvista. Dai resti dell'edificio A collocato su una possente piattaforma vedo tutto quello che devo vedere: i palazzi, gli obelischi, l'osservatorio astronomico al centro, la Piattaforma sud speculare a dove mi trovo. A sinistra si intravede la struttura del gioco della pelota. In lontananza ancora le montagne che racchiudono le lunghe vallate di Oaxaca. Le masse di turisti non sono ancora arrivate. Siamo pochi, felici, visitatori.

Scendo le gradinate ripide per posare i piedi sull'erba della Piazza Grande. Cammino nel prato bagnandomi le scarpe, percorrendo in senso orario le centinaia di metri della spianata, passando accanto a massicci manufatti di pietra. Come ogni visitatore immagino cosa pensavano, a cosa aspiravano, cosa facevano ogni giorno i privilegiati abitanti del nucleo centrale di un insediamento che prima di Cristo raggiungeva già decine di migliaia di persone. Civiltà e mistero, sfarzo e miseria.

Il sole è forte, l'aria è ancora fresca. La città silenziosa ottenebra i sensi.

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sabato 10 marzo 2018

I mercati di Oaxaca

Difficile scegliere la migliore città del Messico. Facile dire quella che offre la cucina più articolata e deliziosa.
Lascio l'abitazione sulla Trujano per dirigermi in centro. Tre cuadras e sono nello Zócalo, un incredibile garbuglio di caffè rétro e alla moda, venditori ambulanti, turisti, e indigeni in perenne protesta davanti al palazzo del governo. Prendo la Flores Magón, percorrendo un altro isolato. Entro nel mercato coperto Juárez dove medicanti e sfaccendati si mescolano a truppe di turisti che affollano i negozi di artigianato e le bancarelle di alimentari. Vestiti, succhi di frutta, gelati, peperoncini secchi, latticini, oggetti artigianali e tante bancarelle di mezcal. Prima di uscire acquisto mezzo chilo di asiatici rambutan, freschi di Chiapas.

Attraversata la calle Aldama, sotto un cielo che promette pioggia, passo al mercato 20 de Noviembre. E qui le cose si fanno interessanti. Odori di carne cotta e spezie si mescolano a quella del pane fresco e della salsa di cacao. Vengo attirato da una entrata laterale dalla quale fuoriescono esalazioni stuzzicanti: è le parte del mercato dove si vende e cuoce la carne. Ciascuna bancarella trabocca di file interminabili di salsicce e diversi tipi di carne finemente tagliata. Lampadine affumicate illuminano precisamente la mercanzia.
La parte finale del corridoio è destinata al consumo dei pasti con carne alla griglia. Imbonitori cercano continuamente di attrarre nuovi avventori. La contigua grande  area del mercato 20 de Noviembre mostra tutta la ricchezza culinaria di Oaxaca: qui è possibile mangiare qualsiasi specialità della zona e non. Spiccano montagne di grandi e croccanti tlayudas, specie di pizze non lievitate di farina di mais. Chiedo alcuni prezzi, poi opto per una enchilada con carne e mole (salsa) di cacao. Un panino e cioccolata calda. 40 pesos totale.
Seduto precariamente sullo sgabello di un ristorante del mercato un poco turistico, di fronte alle cuoche che continuamente preparano nuove pietanze, con lo stomaco e la mente ottenebrati piacevolmente dal superbo cacao di Oaxaca, sommerso dal vociare degli ambulanti, tento di allungare questi significativi squarci di viaggio.





venerdì 16 febbraio 2018

La città ritrovata. Puebla

Un mercoledì di ordinario traffico sul boulevard Héroes del 5 de Mayo. L'autista dell'autobus che viene dalla CAPU è in lotta continua con tutti i veicoli che gli sono intorno. Mi lascia sull'avenida Palafox, a pochi isolati dal cuore della città.
Sono a Puebla.

Il viaggio notturno da Morelia ha concesso la grazia di passare il turbolento stato di Michoacán con poche conseguenze. L'arrivo al terminal di Puebla, il crepuscolo sulla città degli angeli.
La stanchezza non esiste per coloro che sono alla ricerca.

Il cammino irrequieto percorre il deserto viale centrale che porta alla cattedrale. Passi che coprono tracce di un venticinquenne che visitava per la prima volta l'America centrale e settentrionale. Ancora compagno della solitudine. Cercando qualcosa che non riesco pienamente a comprendere.
Quest'ora del mattino è l'ideale per visitare la città che non ha vergogna a disvelarsi, a rispondere sul passato ed il presente. Palazzi barocchi e rinascimentali finemente decorati si affacciano sulla strada lastricata per annunciare lo Zócalo verdeggiante che affianca la ponderosa cattedrale. Respiro alberi e mattino.
Proprio qui, tra uomini anziani con giacca e cravatta, in vista dei primi venditori de la calle, chiedo ad uno scopino dove posso trovare alloggio. Ambulanti, negozianti, lustrascarpe, spazzini conoscono la strada.
"Vada sulla 3 poniente. Lì ci sono diversi alberghi", consiglia. E aggiunge: "Se poi vuole mangiare bene spendendo poco, nella 3 sur con la 5 poniente troverà un buon ristorante. C'è anche un panettiere".
Mi fermo qualche minuto a chiacchierare con questo signore sotto le torri oscure della città degli angeli, sotto il cielo nuvoloso e fresco della città ritrovata.

Esco dalla stanza rumorosa dell'hotel Venecia alla riscoperta della metropoli. Dalla 4 prendo la 3 norte, sommerso dal traffico, da gente con l'ombrello, da mendicanti e da creoli vestiti a festa. Passo negozi di abbigliamento e minimarket OXXO.

Dove sono celati gli aliti di gioventù? Dove era passato quel venticinquenne, a cosa anelava, quanto era diverso? L'affascinante città di Puebla riuscirà a restituire qualcosa alle inquietudini? 

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venerdì 19 gennaio 2018

Cerro de la Bufa

Dietro la cattedrale cominciano le indicazioni per il cerro de la Bufa. Ci sono cartelli e frecce disegnate sui muri angolari. Le gambe portano verso l'alto, penetrando ancora una volta l'ignoto.

Da qualsiasi punto di Zacatecas si vede la collina della Bufa, un'aspra rugosità del terreno disseminata da sempreverdi, cespugli e da macigni marron chiaro. Salgo piano costeggiando case spagnoleggianti dal color pastello, auto in sosta, vie anguste pavimentate da mattonelle di pietra. Qualche cane libero dall'uomo vaga indisturbato sotto il groviglio di fili elettrici che compongono una ragnatela instabile appena sopra la testa. Signore con qualche chilo di troppo conversano pacatamente davanti alle case. Il centro storico non è lontano ma ho l'impressione di trovarmi in un altro rione, più popolare, dove la gente si conosce bene. Saluto qualche raro passante.

Dopo una via in forte pendenza ed una strada di collegamento, arrivo al cammino che porta al cerro. Un percorso largo con panchine e lampioni. Lascio le abitazioni in basso e comincia la panoramica su Zacatecas. Voglio aspettare per ammirare bene la città. Uomini e donne praticano sport prima di recarsi al lavoro.

Appena sotto la cresta rocciosa, in uno spazio relativamente pianeggiante, sorgono il museo, un raccolto santuario e l'osservatorio. Mi dirigo verso il punto panoramico ombreggiato dal portico esterno al luogo di culto. Da poco meno di 2600 m domino Zacatecas, la Civilazadora del norte. Cento metri di dislivello consentono di ammirare il centro abitato, le colline circostanti che si perdono nella foschia lontana dell'altopiano brullo. La città dell'argento che ha arricchito i conquistatori spagnoli è sotto, nella sua conca, feconda di palazzi e chiese dai tetti vermiglio, da piccole piazze alberate, dalle arcate dei mercati, dal brusio incessante dell'urbe. La massiccia cattedrale con la cupola ed i campanili finemente decorati.

La cima è composta da una gobba attraversata da rocce lamellari che fanno sembrare la sua cresta ad un immenso bruco. Mi incammino in assoluta solitudine verso un sentiero che porta verso quelle rocce mascherate da cespugli e cactus in miniatura.







mercoledì 13 dicembre 2017

Zacatecas

Zacatecas alle ore 12 è un fiume di gente.

Scendo dal viaggio da nord saturo di panorami essenziali, disabitati, costituiti da montagne e pascoli, da un cielo sazio di sole. Persone con camicie a quadri, jeans, stivali e cappelli da cowboy. L'estetica western tradotta e sussunta negli aridi altopiani della Sierra Madre.
Esco e respiro con pienezza l'aria del luogo. Inspirando la brezza fresca e, al contempo, esalando l'atmosfera che congiunge rétro con piccole frange di contemporaneo messa insieme nel tragitto da Durango, non posso che gioire del mondo. Zacatecas è laggiù nella conca. Una perla custodita nella sua valva.
Fuori dal terminal un taxista mi chiede se voglio un passaggio. Gli sorrido e gli chiedo invece dove passa il pullman urbano che porta alla città. Mi risponde con gentilezza.

Il bus numero 8 si insinua lentamente nella Silver Town patrimonio dell'UNESCO. Zacatecas alle ore 12 è un fiume di gente. Palazzi ben conservati in stile europeo, case coloniali, hotel e negozi con le insegne scritte rigorosamente sui muri frontali. Chiese e piccoli giardini verdeggianti. Turisti locali, indigeni e curiosi. Gli ambulanti vendono frutta e verdura, empanadas e gorditas, bevande fresche dai colori sgargianti.
La città è circondata da colline di rocce e vegetazione rada. Tra loro spicca il cerro de la Bufa dove in passato abitavano gli indiani zacatecos, ora sede di un osservatorio e di un santuario. La storia della conquista continua a reiterarsi.  
Mi fermo in quella che pare sia la zona più centrale della città. Il traffico serpeggia lentamente per le vie strette. Clima perfetto. Mi godo l'atmosfera che si dilegua tra strade anguste in pendenza.

Un negoziante mi indica un hostal economico situato in una via tranquilla. "E' l'unico nel centro, ed è buono", aggiunge. Entro. Una signora mi mostra la stanza con bagno e acqua calda. Quasi un lusso. 250 pesos scontata.
Una delle più belle città del centro-nord del Messico è lì, fuori.

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venerdì 17 novembre 2017

Hidalgo del Parral

Se ora sento di essere arrivato ad una svolta della vita, non è per ciò che ho guadagnato, ma per ciò che ho perduto.
A. Camus

Arrivo a Parral in un pomeriggio caldo e senza vento. La stazione degli autobus regionali è una vetrina situata in una strada qualunque della città e la sua sala d'aspetto tracima nell'entrata di un hotel ad ore. Chiedo alla signora della ricezione se il prefisso telefonico scritto sul vecchio biglietto aereo corrisponde alla località. Lei annuisce, offrendomi una chiamata dal suo cellulare.
Timoteo arriva quasi subito con il pick-up. La sacra domenica mi introduce nell'ambiente familiare radunato attorno ad una parrilla, al riparo dal sole bruciante di Chihuahua.
Sono giorni che assumo poche proteine e la grigliata nella casa di Timoteo è davvero provvidenziale. Birra, agua de jamaica fatta in casa, carne, patate e molte pietanze portate dai parenti.
Mentre Timoteo mette musica elettronica europea, la famiglia allargata mi pone domande alle quali non sempre riesco a rispondere. Cosa. Dove. Chi. 
Un figlio arriva dopo il lavoro in un ristorante. E' stanco ed accaldato. Mi racconta che ha studiato scuola alberghiera proprio a La Paz, Baja, dove ho conosciuto il padre. Cerco di bere poco. La madre di Timoteo infine serve nieve de limón per tutti.

Quando il sole si rifugia dietro colline lontane ed i parenti cominciano a diminuire, Timoteo mi porta a fare un giro per la città. "Vedi, questa è la strada dove hanno ucciso Pancho Villa", mi spiega. "Questa è la cattedrale, il municipio, il fiume".
Il buio è rischiarato dalle luci dei lampioni e dei palazzi, dai fari delle auto che carosellano compulsivamente attorno le vie centrali.
"Dove ti porto?", chiede infine il mio ospite.
"Alla stazione degli autobus interstatali", rispondo.

Una notte senza sonno, con il tempo immobile, in un terminal dove arriva e parte gente. Dove anime, famiglie, parenti, si lasciano senza sapere se mai si rivedranno. La separazione, la perdita sono i momenti più strazianti che contraddistinguono gli umani.

E' l'una e venti precisa quando parto verso il sud, Durango. 555 pesos. Al salire gli addetti della sicurezza ci riprendono con una telecamera e perquisiscono il bagaglio a mano.
Il primo di tanti viaggi notturni nelle praterie del Messico.
  
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venerdì 27 ottobre 2017


venerdì 13 ottobre 2017

Scendendo la Sierra Madre

Le cose avanzano troppo velocemente. Non riesco a metabolizzare tutto nonostante la mia identità si faccia sempre più minuta per far spazio al mondo che entra.
Sono a Guachochi, 2400 m. Ancora per poco in cima alla Sierra Madre. 

Il viaggio da Creel a Guachochi è stato spettacolare: strade intricate, pareti rocciose chiare che terminavano in canyon profondi, boschi di aghifoglie, querce e cespugli. Sole. Nell'autobus salivano e scendevano indiani Tarahumara timidi e gentili, sovente vestiti con abiti tradizionali. Gli uomini portano una tunica bianca di cotone che arriva alle ginocchia, maglioni o casacche colorate, una fascia attorno alla testa e gli immancabili sandali sottili legati alle caviglie. Pochissime auto, pochissima popolazione. Cominciavo a scoprire l'immenso Nord.

A Guachochi mi dirigo verso una minuscola e anonima stazione degli autobus. "Quando parte il primo mezzo per Parral?", chiedo alla signora della biglietteria. "Tra mezz'ora. Sì, solo seconda classe". La biglietteria/sala d'aspetto è piena di persone, valigie, pacchi con indirizzi di luoghi sconosciuti scritti a mano. Sulle pareti sono attaccati due poster sbiaditi raffiguranti i Copper Canyon.
Salgo sul bus diretto a Hidalgo del Parral ancora a stomaco vuoto. Questa sera nella città dove è stato ucciso Francisco "Pancho" Villa mi aspetta Timoteo con la sua parrilla domenicale.

La carretera estatal 23 scende, e discendendo un fluido caldo e denso entra dai finestrini. Ogni chilometro di strada che scorre sotto di me vede l'inesorabile, progressivo avvicinamento alla zona semidesertica: tra alberi spinosi, tra i cespi dove a volte si attaccano rifiuti di plastica, sorgono estesi pascoli d'erba rinsecchita che dovrebbero mangiare animali invisibili. Pali di legno congiunti dal filo spinato. Colline e montagne sagomate dal vento definiscono la cornice del paesaggio.
La strada continua a scorrere.



venerdì 11 agosto 2017

Camminando verso la chiesa indigena di San Ignacio


L'autobus mi lascia ai bordi del territorio indigeno. Passo indisturbato il posto di controllo. E' presto. Costeggio il lago Arareko, addentrandomi nel distretto autonomo degli indiani Tarahumara.
La giornata inizia nel migliore dei modi: il lago contornato da grandi boschi di conifere, i sentieri d'erba e aghi di pino, scoiattoli che si rincorrono attraverso acrobazie. Nessuno in giro.
Sono a pochi chilometri da Creel, Chihuahua. L'obiettivo di oggi è raggiungere la chiesa indigena di San Ignacio, il santo preferito.

Dopo aver passato un'area attrezzata per i visitatori, incontro un uomo che mi conferma l'esistenza di una scorciatoia per raggiungere San Ignacio.
Ad un certo punto il bosco di pini e querce si apre, lasciando spazio ad alcune fattorie attorniate da prati che attendono pioggia. La strada sterrata mi porta verso uno di questi casolari. Domando dove passa il sentiero a delle signore intente ad accudire gli animali. Una non capisce, l'altra mi indica una direzione vaga oltre la fattoria. Cani da guardia corrono verso di me ma vengono richiamati dalla donna.
Risalgo un dolce crinale boscoso composto da rocce calcaree e, oltre una nascosta zona di abbandono dei rifiuti, domino l'avvallamento successivo.
Il panorama montano è rappresentato da animali al pascolo, colline, foreste, qualche fattoria. Illuminate dal sole in lontananza si delineano bastioni di rocce modellate dal tempo. La stessa pietra morbida che forma i Copper canyon o Barrancas del Cobre.

La valle successiva è quella che racchiude la piccola comunita' indigena di S. Ignacio. Alcune case, una scuola, cimitero, un campo sportivo coperto. Ma è la chiesa la vera perla. Nelle squadrate pietre chiare che costituiscono la struttura, le arcate semplici, nella sua frugalita' inalo tutta l'essenza del nord del Messico rurale.
Incorniciata dalla limpidita' del cielo d'America, vedo immagini di un territorio scarno che ci hanno fatto conoscere le pellicole, ma anche le storie del declino indigeno, la religione, il sincretismo.
Entro nel luogo di culto che presenta diverse scritte in lingua indiana. Un Gesù dai tratti autoctoni.

Fuori il sole arde. La strada per tornare a Creel è tutta da definire.

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lunedì 24 luglio 2017

I canyon visti dalla ferrovia Chihuahua-Pacífico

Appena seduto sulla poltrona del treno sopraggiunge un forte attacco di sonno. Non posso dormire ora che inizia uno dei percorsi su rotaia piu' mozzafiato che esistano. Tiro fuori una bevanda dal leggero contenuto eccitante e quasi subito mi sembra di star meglio. Grazie Bernie per il dono.

Tutto ha inizio la giornata precedente: il ferry che dalla Bassa California conduce a Topolobampo, con le magnifiche coste della penisola californiana viste dal mare, il passaggio fino alla stazione di Los Mochis, la notte, le zanzare e la coda per acquistare il passaggio. Il primo della fila, il primo a possedere un biglietto per Posada Barrancas.

Il treno con l'aria condizionata si arrampica lentamente. Prima i campi coltivati stranamente verdi, il fiume, le colline in avvicinamento. Il panorama iniziale e' piuttosto desolante: rifiuti abbandonati, fattorie e case disperse nel nulla, animali che vagano tra cespugli spinosi e cactus alla difficile ricerca di nutrimento. Auto di vecchia fabbricazione statunitense coperte dalla ruggine e dalla polvere.
Sopra i 700 metri, e dopo aver passato le prime gallerie, aumenta il verde, l'umidita' e l'altezza degli alberi. Le vallate diventano gole profonde dove in basso scorre qualche filo d'acqua residua. Sono mesi che non piove.

Il treno che porta in alto passando per i Copper Canyon o Barrancas del Cobre effettua le prime fermate. Controllori compassati in perfetta uniforme assegnano posti rigorosamente a sedere. Il mio vagone di seconda classe è praticamente pieno.

Da un alto ponte a forma di arco domino un lago artificiale lungo e stretto. Sulle sue sponde ci sono coltivazioni di ortaggi.
Nelle curve piu' acrobatiche vedo la motrice sbuffare fumo grigio e le successive carrozze. Entriamo in un nuovo tunnel, e, improvvisamente, all'uscita il paesaggio muta ancora. Scompare la foschia e arrivano deliziosi boschi di sempreverdi. Siamo a 1500 metri, l'inizio di un altopiano che, nelle sue scarse morfologie, seguiro' per migliaia di chilometri verso sud.


In prossimita' della mia meta si cominciano a vedere conformazioni rocciose stratificate che precipitano in valli strette e oscure. E' iniziata una delle aree piu' estese al mondo per quantita' e qualita' dei canyon.
Il controllore mi avvisa che la prossima fermata è Posada Barrancas. 2200 metri. Scendo dal treno nella piccola stazione montana. L'aria odora di conifere ed il sole è forte. Dopo molte ore di viaggio senza dormire sono a Copper canyon. Gli occhi salutano il treno che riparte. 

lunedì 12 giugno 2017

Il viaggio inizia

Con l'avanzare delle ore la foschia copre le montagne lontane. L'aereo vira su una Città del Messico che non finisce mai: strade, case, qualche parco, campi da calcio, le tende plastificate dei mercati rionali. Case-case-inquinamento-persone.
Oltre la capitale vedo montagne aride solcate da torrenti che talvolta si riempiono d'acqua. Proseguendo verso nord la cordillera si arricchisce  di alberi e qualche lago. Passo sopra uno di questi, molto grande e poco profondo. Piu' a ovest gli occhi raggiungono un paio di montagne alte semicoperte dalle nuvole. Il cratere di un vulcano spento dove si raccoglie un laghetto. Boschi che bruciano.

Ad un certo punto tocchiamo la costa pacifica: prima verde, poi una striscia regolare di sabbia, quindi le onde vigorose dell'oceano.

Il peduncolo della Bassa California arriva all'improvviso, di soppiatto. Anche da qui, dall'alto, si capisce che il mare, la costa, l'entroterra della California che guarda il mare di Cortéz possiede qualcosa di unico, straordinario. L'aereo scende verso La Paz. Prima di arrivarci viriamo attorno ad una lingua di terra che si protende verso est e poi a nord. In essa sono contenute piccole insenature. Il mare è verde, calmo, deserto. L'acqua di cristallo permette di vedere la sabbia chiara sottostante, le rocce marine e forse coralli. Montagne aride di pietre rossastre e gialle si gettano sul mare. Atterro a La Paz, Bassa California del sud.
Il viaggio inizia.




 
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