martedì 15 novembre 2022

Dalla gola Kavros a Loutro. Creta

 

Quasi per caso mi imbatto nella descrizione di un percorso non consueto: raggiungere l’ameno villaggio di Loutro passando per un canyon sconosciuto ai più, Kavros. Subito l’idea mi attira, considerando la formidabile qualità e quantità di queste conformazione naturali presenti nell’isola di Creta.

Dopo aver goduto delle visioni ampie sul mar libico che concede la strada deserta conducente ad Anopolis da Sfakià (Hora Sfakion), giungo a un tornante che asseconda una potente linea di livello: da una parte la spiaggia di Ilingas, dall’altra il profondo solco nella falesia. Non ho alcun dubbio di preferire la seconda opzione. Per oggi.

Nonostante Kavros gorge nella sua parte iniziale appaia piuttosto ariosa con qualche ometto decadente che indica la via, il sentiero antico posto leggermente in alto rispetto al fondo della fenditura quasi subito si nota che è franato, quindi non resta che muoversi in basso, con le pareti della montagna progressivamente in avvicinamento. Cespugli come il timo arbustivo, l’aulaga, la cimiciotta, germogliano tra pietre sagomate dal tempo; una natura avara condizionata da stagioni estreme. Nelle zone che possono beneficiare di una ombra parziale crescono ginepri.

Muovo i piedi guardando la falesia che cambia con l’angolazione della luce, delle forme e dei colori, con le pupille che continuamente si adattano, accecate dai contrasti del sole e dell’ombra. Muovo i passi con moderata attenzione, senza fretta, seguendo una traccia ormai definita solo dal passaggio delle capre. Qualche ometto solitario appare ancora.

È nei tratti più stretti della gola che sento la profondità della montagna, la vibrazione del suo grembo, riparato e contemporaneamente esposto al mondo sconosciuto là fuori.

Dopo aver passato una parete con facile arrampicata, mi rendo conto che il tempo sta passando velocemente in un canyon che pare infinito. Due preoccupazioni si affacciano: siamo a metà novembre e le piogge di ottobre possono aver causato frane e bloccato la via. Il secondo motivo di tensione è quello delle diramazioni della forra che potrebbero portare perdita di tempo e di orientamento. Cerco di camminare veloce tra i disagevoli ciottoli modellati dalle intemperie, rallegrandomi quando incontro delle pietre impilate non casualmente. La vegetazione di maggiore altitudine offre cipressi, querce e qualche acero sempreverde.

Sono passate due ore e quaranta minuti e circa sei-sette chilometri di sviluppo quando vedo una strada sterrata che sale a sinistra, dopo una cisterna dell’acqua. La gola di Kravos continua. 700 metri di altitudine, ancora in ascesa.

Ci sarebbero aneddoti legati alla strada di terra che conduce ad Anopolis come l’allevatore che mi chiede stupito da dove vengo o i due cani aggressivi incatenati ai lati dell'obbligato percorso, invece preferisco saltare temporalmente appena più avanti, appena sotto la chiesa di Santa Caterina, sull’ultima cresta di montagna che separa dalla costa. In basso si nota un immacolato borgo, una gemma, raggiungibile via mare o attraverso sentieri: Loutro. Quando arriverò al villaggio deciderò di tornare a Hora Sfakion a piedi.

 La traccia danza a zig zag verso il mare della Libia, vertiginosamente. La prendo.

 

Testo e foto diritti riservati Creative Commons

 





 

mercoledì 9 novembre 2022

Il cammino che conduce a Balos, Creta

 

Momento importante quello che riserva il giorno che inizia: raggiungere con le proprie forze la penisola dove si trova Balos, una delle primarie attrazioni di Creta. Quando esco dall’alloggio di Kissamos, nel sangue vagabondo circolano tonnellate di adrenalina.

L’adrenalina continua ad assuefarmi dopo aver passato il porto ormai deserto della città e inoltrarmi nell’ultimo peduncolo della baia di Kissamos. Sono passati quaranta minuti nei quali le gambe hanno liquidato la parte meno interessante del percorso. Ora il profilo apparentemente infinito della penisola di Gramvousa e della lunga fascia di strada marrone tendente al porpora che la attraversa risulta più limpido, nonostante l’opacità portata dai ricurvi raggi solari di novembre. È il momento di estrarre dallo zaino i bastoncini da trekking.

Alle 10:35 sono sulla strada di terra che porta alla laguna di Balos. Vento di nord est asciuga parzialmente il sudore. La baia di Gramvousa (o di Kissamos) è stata agevolmente oltrepassata in trenta minuti, senza incontrare alcun essere umano.

Passo dopo passo la consapevolezza delle cose, di quello che sto compiendo, di quello che fa parte di me e che mi circonda si espande nella sua pienezza. Finalmente a contatto con la natura semidesertica marina dai colori rigorosi, quasi che si confonde con il suolo, dalle forme globose e basse per proteggersi da un mondo difficile. Con immenso piacere riconosco piante di altre isole lontane perdute nell’oceano: l’Aulaga, la Tabaiba, l’Espino del mar. Attorno all’incedere fluiscono essenze sconosciute e altre con le quali da poco ho fatto conoscenza come il Lentisco e la Carruba. Queste ultime riescono a svilupparsi nelle zone meno esposte.

Il tempo passa, e la strada mi conduce, al culmine di una salita a 200 metri sopra il livello del mare, all’entrata della riserva. Una quindicina di auto finora mi hanno passato lentamente. Adesso mi attende una moderata discesa senza alcuna vista della costa ovest, dove risiede la meta. Non è finita.

È da poco passato mezzogiorno quando mi appresto, volando di giubilo, a scendere verso Balos. Sul sentiero incrocio una giovane famiglia con bambini biondi di sole e di aria; il ragazzo comincia a sorridermi da lontano, di seguito anche la compagna. Mi avevano visto quando erano in auto, all’inizio della strada.

“Sei arrivato, grande!”, si complimentano.

“Tre ore, da Kissamos”, rispondo con gratitudine.

“Da Kissamos!”.

“Sì”.

La laguna di Balos esprime il suo splendore questo limpido giorno di novembre, con la brezza che allontana la foschia e la quasi assenza di visitatori. Una sottile striscia di roccia scura che collega l’isoletta di fronte, proteggendo dal moto ondoso diretto, permette che dal versante meno esposto del bacino si depositi sabbia e che si riesca a cristallizzare una laguna con diverse tonalità di chiaro che si mescola con l’azzurro del mare, a seconda della profondità.

Dopo più di tre ore posso toccare il mare e la sabbia bianca di Balos, nel cuore del Mediterraneo.

 

Testo e foto diritti riservati Creative Commons

 





 

 

 

sabato 5 marzo 2022

Il vulcano Teide da La Gomera


 

sabato 12 febbraio 2022

Nel parco nazionale di Garajonay, La Gomera

 

Da Pajarito in un attimo si arriva al punto più prominente de La Gomera. L’Alto di Garajonay, 1480 m, offre grande spazialità, nonostante la calima stazionata a basse altitudini: Tenerife e il suo picco alto, La Palma con le due serie di rilievi che superano i 2000 metri. L’isola El Hierro, l’isola più lontana dell’arcipelago, si nasconde tra le sabbie trasportate dai venti e l’umidità dell’oceano. Nella cima collinare rimango poco perché il percorso 18 che voglio affrontare oggi sembra impegnativo. Così dicono le compiacenti indicazioni fornite dal parco nazionale di Garajonay.

Scendendo da Contadero, 1350 m, il mondo toccato fino alle sue più lievi pulsazioni, cambia nell’interezza. Dal sole all’ombra, dalla luminosità a una profonda oscurità. Sono nella più importante area di laurisilva della Macaronesia. Nel bosco sempreverde di lauracee del parco di Garajonay, oltre a trovarsi in un altro ambiente, ci si sente proiettati indietro in quelle che erano le antiche foreste che coprivano il mediterraneo. Superstiti del passato. Nella sua ricca biodiversità riconosco appena l’acebiño, l’erica arborea, la faya, il tilo ‘canario’; piante antiche che raggiungono fino a quaranta metri di altezza. Ammiro brezos (erica arborea) le cui basi superano i cinquanta centimetri di diametro!

Discendo il sentiero 18, nella selva ombrosa cosparsa da felci e fiori strani, con muschi e licheni penzolanti dagli alberi che raccolgono l’umidità dalle nuvole portate dagli alisei.

Le gambe portano fino alla località El Cedro, dove i suoi spazi aperti abbagliano gli occhi. Ora bisogna salire per raggiungere Reventón Oscuro (…) e La Zarcita. Poco prima di guadagnare quest’ultima meta, in un miracolo, il bosco sempre più rado si apre con un paesaggio da favola: sopra un grosso masso ai cui piedi riposa una sabina o un cedro, vedo l’oceano, il Teide e i torrioni rocciosi del parco di Garajonay, come il roque di Agando; sulla sinistra viaggia il mare di nuvole in continua mobilità interna.

 

 

Testo e foto diritti riservati Creative Commons

 




 

domenica 30 gennaio 2022

Il soffio dai vertici del Teide


Non è facile trascrivere le aspettative provate alla vigilia della salita sulla la montagna alta, simbolo e icona dell’arcipelago canario: il Teide. Quello che è sicuro sono le incertezze legate alle condizioni del tempo nelle alture del vulcano.

Il bus 348 ci lascia poco dopo le 11 alla fermata Montaña Blanca, a 2350 metri di altitudine. La neve caduta qualche giorno fa e il gelo notturno osservato già parecchio più in basso fanno nascere qualche preoccupazione nella mia mente e in quella di Nando, compagno di escursioni alpine con il gruppo SEI. Ma la bella giornata e la potenza di questo sole meridionale incoraggiano le speranze.

In seguito di una ascesa sulle facili pendenze della Montagna Bianca, dove sbucano floridi cespugli di retama del Teide, la ginestra indigena, siamo ai piedi della impervia muraglia che conduce al rifugio di Altavista. Qui un cartello avvisa che il sentiero è chiuso causa ghiaccio e neve. Una coppia sta salendo mentre un individuo torna a valle. Poso lo zaino a fianco di una solitaria pianta di jara. Ci guardiamo negli occhi di califfi SEI e subito partiamo verso l’alto, alla ricerca della cima vulcanica.

Quasi subito raggiungiamo la coppia polacca rimasta a chiedere informazioni all’uomo discendente. Il duo viene dietro di noi con baldanza. Anche se la pendenza è forte, tranne per alcuni limitati tratti, la neve ghiacciata con il calore del sole diventa cedevole, permettendo una buona aderenza e velocità. Dopo una ventina di minuti i polacchi sono spariti dalla vista.

Solo in prossimità del refugio de Altavista, 3270 m, il vento meridionale comincia a farsi sentire. È proprio la calima, vento che porta sabbia dal Sahara, colpevole oggi della scarsa visibilità a quote medio basse, che offusca le visioni lunghe proposte dal rifugio Altavista. In alto il cielo è straordinariamente azzurro, consentendo di vedere parte della corona di cime dell’altopiano del Teide. Un poco d’acqua, due parole con dei ragazzi canari saliti con i ramponcini, e poi ancora in alto, per respirare da vicino il soffio del Pico che ancora si cela dietro aguzze rocce appena innevate.

Solo quasi al termine dell’ultima ascesa Lui diventa visibile: prima la punta, infine tutto il cono montuoso si mostra nella sua interezza. Qualche passo sulla neve e siamo al Mirador de la Fortaleza, 3540 metri di altitudine.  Sono quasi le ore 14. Sotto, a ovest, è solo possibile sognare l’oceano e l’isola di La Palma, il cui vulcano ha da poco cessato di vomitare lava, mentre gli ultimi duecento metri del picco del Teide appaiono così vicini, così familiari. Qualche nuvola portata da venti veloci tenta inutilmente d'incoronare la montagna regina.

Il nostro tempo è finito; dopo un inchino non rimane che tornare in basso, fino alla calima e poi fino alle acque dell’oceano Atlantico.



 Testo e foto diritti riservati Creative Commons 

 




 

giovedì 13 gennaio 2022

Consumando suole al Lomo Centeno


«The call of the wild

is driving me crazy»

Jimi Tenor

 

La roccia lavica consuma le forze, erode le suole come fossero formaggio, ma ti porta in alto. Siamo quasi a metà gennaio, sotto i cieli indulgenti di Tenerife. Alla ricerca dei preamboli della montagna alta.

Inizia da Barranco Hondo, 400 m, l’ascesa verso l’area speciale denominata Las Lagunetas, sul crinale nord est dell’altopiano che si arrampica così tanto nella volta celeste. Barranco Hondo con i suoi peschi in fiore e i piccoli angeli volatili che chiamano la primavera li lascio presto, iniziando un sentiero che segue una rugosa lingua di lava dai colori purpurei, addobbata ai lati da vegetazione che lentamente sta recuperando il caldo arido della stagione passata: gli endemici balo, aeonium, tabaiba amarga producono timide foglie nuove, nella speranza che le nebbie donino gocce di vera pioggia.

Salgo su quella lava rafferma con velocità, con il sudore che impregna la camicia, fino a 700 metri di altitudine, quando il mare di nuvole inonda parzialmente la visuale, abbassando le temperature. Ora l’oceano e la stupenda Gran Canaria con il Roque e le montagne di Tamadaba a est sono più lontane.

Dopo gli 800 metri l’anello di nubi viene oltrepassato, e il sole forte è solamente mitigato quando si entra nella foresta perenne di conifere canarie. Mai un attimo di respiro concede il cammino che ora è infinitamente morbido nel tappeto preziosamente intessuto da aghi di pino. Senza quasi percepire quella fascia intermedia di vegetazione arborea, gli occhi si sono presto abituati alla luce debole filtrata da imponenti piante di pino canario che più avanti si mischieranno sì, a faya e brezo.

Las Lagunetas e il Lomo Centeno, 1400 m, li raggiungo in una ora e trentacinque minuti, con tanta adrenalina da vendere. I luoghi offrono ben poca visuale. Solo una radura permette di osservare la costa est e il mare che guarda l’Africa perennemente invisibile. Il Teide? Ancora troppo, troppo lontano. E alto.

 

Testo e foto diritti riservati Creative Commons

 





 

 
Creative Commons License
Travel Viaje Viaggio Voyage by Dr. Stefano Marcora is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at travel-ontheroad.blogspot.com.