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venerdì 23 dicembre 2016

Sognando il Ladakh


Non ci sono autobus fino al pomeriggio e le jeep collettive arrivano sempre piene da Srinagar.
Sono a Sonamarg, 2640 m, reduce da una serie di trekking tra le montagne al confine con il Pakistan. Il solitario, crudele, asfalto mi porta alla dogana dei camion, sotto i cieli dell'Himalaya che sconfina in Asia centrale.
"Pregherò perché tu possa trovare un passaggio per il Ladakh"; con questo augurio ho da poco salutato il proprietario della pensione di Sonamarg. Brava persona.

Entro in un'immensa distesa di cemento dove pochi scalcinati camion Tata si apprestano ad essere pesati e ricevere il permesso per andare ad Est. Chiedo chi può darmi un passaggio a Kargil. Mi dicono di aspettare.

Galleggiando nel tempo nella valle che comincia a scaldarsi, la mattina dilatata mi concede il che attendevo: un camionista buddista diretto a Leh mi porta a Kargil per un prezzo onesto. Salto sul camion tappezzato da colorate bandiere tibetane e prendiamo la strada verso nord-est.

Pochi minuti dopo la partenza, oltre ad essere consapevole della velocità del camion, capisco che la giornata sarà impegnativa: un posto di controllo ci ordina di accostare per lasciare strada libera ad un lungo convoglio militare. Aspettiamo. Nel frattempo altri camionisti si fermano accanto a noi. Scendiamo dal mezzo.
Quasi subito conosco Chow, un conducente diretto alla Suru Valley, la mia destinazione. E' una persona socievole, giovane, e presto capisco anche sincera. "Vieni con me", mi propone. Parlo con il conducente buddista del primo camion, poi salgo sul mezzo di Chow. E qui comincia una nuova avventura tra i cieli rarefatti dell'Asia.

La via verso il passo è lunga. Risaliamo lentamente la valle alberata dove in alto cime parzialmente innevate cambiano continuamente la prospettiva. Quando la strada asfaltata si tramuta in sterrata la  pendenza diviene più critica. Dalla porta aperta sul mio lato sinistro vedo scorrere pietre, polvere, erbe e ruscelli. Jeep e auto ci superano. Il camion di Chow fatica a salire. Chow è contento di stare con il primo straniero che monta il suo mezzo; io godo la brezza, i luoghi, le ore che si allungano per allungare questa grande esperienza kashmira verso la sua decadenza. Tutto il giorno per raggiungere il Ladakh, a meno di cento chilometri. Va bene così. La strada di polvere e terra bianca diventa stretta con lo stringersi dei tornanti. Faccio foto dalla porta spalancata del camion: sotto di me il dirupo senza protezioni si getta vertiginosamente a valle.

Quando il passo per il Ladakh non è lontano, il camion di Chow si blocca. Il conducente si è dovuto fermare per lasciare strada ad altri veicoli ed ora non riesce a risalire una grossa pendenza. Prende la rincorsa ma non serve. E' troppo carico. Blocchiamo tutto il traffico sulla strada nazionale. In nostro aiuto arrivano altri camionisti kashmiri, curiosi e militari. Il camion sbuffa tonnellate di fumo nero, gratta la terra violentata, viene spinto da decine di uomini, infine la spunta.
La strada è ancora nostra. 



mercoledì 30 novembre 2016

Il lago Gangabal e l'Harmukh

"Vedrai che le nuvole oggi scompaiono. Stai attento ai cani dei pastori". Con queste parole Ali mi saluta. Lascio temporaneamente il rifugio montano a 3250 m situato alla base della valle dell'Harmukh per dirigermi verso un lago dal nome sconosciuto. Mi guidano i sensi e le spiegazioni non troppo esaustive di Ali.

Ieri ho raggiunto il lago Gangabal in un'ora e mezza. Le nuvole non riuscivano e nascondere la bellezza dei territori confinanti con il Pakistan. Ad un tratto mi sono trovato su una distesa di iris dalla quale dominavo parte del lago azzurro-ghiaccio. Le basse nuvole facevano il giro attorno a Gangabal ed io ero lì, nell'anfiteatro composto da pareti ripide senza più neve. Nel lago sottostante c'erano tende, cavalli, portatori e turisti; a Gangabal, 3640 m, ero solo.


Dal rifugio di Ali ora prendo una conca dove scorre il torrente. Gli alberi ed i cespugli sono ormai spariti; rimangono pietraie di massi chiari e pascoli. Salgo l'avvallamento senza fretta assaporando i luoghi; il clima è mite, senza vento.
Percorro la valletta per meno di un'ora e, prima di avvicinarmi ad un passo parzialmente innevato, guadagno un pendio ripido a sinistra dove sopra si delineano delle conche che potrebbero contenere un lago. Intanto veloci finestre d'azzurro compaiono nel cielo. Forse vedrò il massiccio dell'Harmukh.
  
Infine trovo il lago: un piccolo specchio di acque limpide che guarda verso nord-est. In fronte posso ammirare le cime aguzze della valle di Naranag. Come diceva Ali, la giornata sta volgendo al bello. Scendo un poco verso la mia ultima meta.

Da questa bassa cima a 3800 m, situata nel centro della valle, ho davanti a me tutto lo splendore di una delle aree più significative del Kashmir. Di fronte, a meno di un chilometro, è emersa dalle nuvole

l'Harmukh, la montagna di 5142 metri, con un possente ghiacciaio dal quale colano torrenti d'acqua; a destra domino Gangabal, di colore turchino, ed il suo lago sottostante. Intorno montagne e picchi di media altezza con i nevai in via di estinzione. Da qualche parte a nord c'è il Nanga Parbat.

Rimango ad ammirare il paesaggio che muta da questo punto di osservazione privilegiato. Sono seduto tra piccoli fiori dai colori sgargianti, primule con le foglie pelose.

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mercoledì 23 novembre 2016

Trekking verso il lago Gangabal

Non sono mai stato così vicino alla frontiera con il Pakistan.
Tutto quello che possiedo è nello zaino, sulle spalle: dieci chili di libertà. Nonostante il disordine intestinale che durerà mesi mi sento decisamente in forma. Naranag (2210 m) appena sotto e una foresta di sempreverdi vegliano sulla mia solitudine.

Sveglia quando il crepuscolo è al preludio dell'alba, una colazione frugale e quindi il sentiero che porta al lago di Gangabal ed alla catena dell'Harmukh. In Kashmir non è facile intraprendere un trekking di più giorni in autonomia: mappe scadenti, nessuna indicazione nei sentieri, pochi punti di appoggio, gente locale non sempre disposta a fornire informazioni.  

Alle sei sono ad una cinquantina di metri sopra il villaggio di Naranag, in una giornata afosa e piena di nuvole. Supero pastori nomadi con piccoli cavalli carichi di mercanzie, parlo con uomini che accompagnano poche capre di loro proprietà in alpeggio. Il sudore del passo veloce trasuda acqua e l'antibiotico iniziato a prendere ieri.

Il sentiero permane nella sua assoluta ripidità fino a quando non scollina. Qui mi trovo in una foresta distrutta da un vecchio incendio. Il percorso ben definito ora porta verso nord, costeggiando basse montagne e dando un po' di respiro al corpo.
Oltre i 3000 m i boschi, gli alberi, i prati sono nel loro massimo splendore, offrendo alla vista differenti specie di aghifoglie. Le rare persone che incontro rispondono che la via per Gangabal è giusta, stupendosi del fatto che sono solo.

L'orgoglio si somma alla contentezza quando finalmente entro in una conca immensa: a 3300 m, con un ritmo dolce dei Bent in testa, nonostante le nuvole basse stronchino parzialmente il panorama, riesco a vedere pascoli verdi infiniti, pietre e massi, gruppi di alberi e cespugli che si allungano verso il Pakistan e le montagne alte. Se non fosse per i prati rasati dai troppi animali penserei di trovarmi in altri mondi.

Una leggera discesa e sono quasi ai piedi della valle dell'Harmukh, di fronte al rifugio alpino dello stato del Jammu e Kashmir. Tre ore e dieci per arrivare. Da uno dei due stabili colorati d'azzurro esce Ali, il gestore. Indossa un pheran grigio, la tunica tipica kashmira. Dopo brevi convenevoli, con tranquilla fermezza gli dico quanto posso spendere. Ali mi guarda negli occhi, consapevole della cifra molto bassa che gli propongo. In altri casi forse avrebbe ribattuto, ma il suo intuito comprende che so. "OK, però dormi nell'edificio più piccolo con noi, e... non dire a nessuno che ti faccio questo prezzo". Annuisco, conoscendo bene quest'ultima parte di frase.

Lascio lo zaino in capanna e mi dirigo verso il lago Gangabal. Le cime dell'Harmukh rimangono ancora celate dalle nubi del lontano monsone.

domenica 30 ottobre 2016

Il ghiaccio del Kolahoi, 5425 m

"Dieci anni fa il ghiacciaio arrivava fin qua", dice Manzoor, mentre risaliamo le ultime porzioni della Lidder Valley.
All'aria sottile dei tremila metri, al sole giovane che illumina di sbieco quello che gli occhi hanno la grazia di vedere, si aggiunge un'ulteriore piacevole notizia: i due figli dei nostri ospiti pastori ci accompagnano verso l'alto. I genitori infatti hanno lasciato un giorno libero ai due giovani per venire con noi. Il ragazzo è sveglio, impertinente, gioviale e veloce come un fulmine. Un animale di montagna. La ragazza sedicenne è un po' robusta, tranquilla ma per nulla timida. Come in altri casi in questa parte di viaggio kashmira a contatto con le famiglie, si è mostrata un paio di volte senza il velo islamico. Ho subito legato con i due ragazzi.

Assorbo con intensità il panorama che si modifica lentamente. Dai nevai passiamo a prati disseminati di pietre e massi, dove qua e là sorgono macchie di fiori che gli animali non possono mangiare. A 3350 metri, prima del ghiacciaio, la valle diventa pianeggiante, lasciando allargare il fiume dalle acque bianche. Controsole vediamo pastori con decine di pecore attraversare il torrente alla ricerca d'erba. Spronano gli animali a solcare le acque violente. Scatto foto dove il fluido trasparente di sorgente si mischia a quello nebuloso.

Quando diviene più faticoso camminare sulla neve, prendiamo un ripido sentiero alla nostra destra, e, oltre una collina coperta da cespugli simili a rododendri, la mente satura di passione scorge l'inaspettato: un picco perfetto e ripido di erge verso est, verso il Ladakh, a coronare la sequela di cime imponenti. "E' la punta più alta del Kolahoi", spiega l'amico Manzoor.

Con il figlio dei pastori raggiungo quota 3700, il bordo dell'antica morena dalla quale dominiamo il gruppo montagnoso.
Ai margini di una turbolenta Asia centrale, in una ordinaria, limpida, giornata estiva, veneriamo lo straordinario panorama sotto e sopra di noi fatto di rocce, ghiacciai, crepacci e rumore d'acqua che si mischia a quello del vento. Stiamo in silenzio di fronte alla vetta aguzza del Kolahoi, dove la Natura, come non mai, riesce a congiungere il corpo allo spirito.



martedì 27 settembre 2016

Insieme ai pastori kashmiri

La catena del Kolahoi mi lascia senza respiro. Ad accorciare il fiato non sono gli oltre 3000 metri dove ora mi trovo e neppure il primo, emotivo, flutto. E' la montagna più bella del Kashmir, il panorama austero che la circonda, il calore della famiglia di pastori che ci ha da poco accolti.
Al termine del secondo giorno di trekking attorno al Kolahoi l'amico e guida Manzoor mi introduce nella tenda dei pastori. Dai modi impacciati ed accoglienti degli ospiti, e dal fatto che Manzoor raramente accompagna persone nelle sue montagne, capisco che si tratterà di una grande esperienza di condivisione. E di conoscenza.
La famiglia è composta da padre, madre e due figli. Quando non si trovano nei pascoli i figli, un ragazzo e una ragazza, frequentano la scuola. L'uomo ha occhi chiari e penetranti, fisionomia centro-asiatica, di poche, accorte, parole. Il contrario della moglie chiacchierona. La figlia sedicenne rimane in tenda aiutando la madre ed il padre. Il ragazzo invece sale in alto con le pecore ed un altro pastore alle loro dipendenze.
Siamo arrivati relativamente presto in questa specie di campo base famigliare, quindi possiamo consumare un pranzo tardivo tutti insieme. Dopo il rituale tè salato, finalmente mangio un pasto con piacere: il curry che accompagna il riso è composto da verdure e pezzi di formaggio di pecora. La madre cucina su un piccolo forno di terracotta alimentato a legna.
Fuori c'è il sole, sotto la tenda la temperatura è perfetta. Facciamo un riposino con una montagna di coperte ed abiti come schienale, semisdraiati sui tappeti. Dall'inutilizzabile telefono mobile del padre escono
concilianti musiche kashmire. Un triangolo di panorama fa entrare nella tenda immagini di cespugli, neve decaduta, ed il rumore del fiume Lidder che viene dai ghiacciai. Questa straordinaria ordinarietà mi confonde ed esalta. Sono per il secondo flutto, il primo rischia di travolgere, offendendo le percezioni.

La tenda dove dormiremo per due notti è a perimetro rettangolare, grande abbastanza per ospitare 6-7 persone. Nei suoi tre lati è riparata da pietre accataste, mentre l'entrata, dove è situata la cucina, guarda verso valle. La piccola cucina è attorniata da legna da ardere pronta all'uso. I due teli impermeabili che la coprono sono sostenuti da pali di betulla. Da uno spiraglio esce a fatica il fumo prodotto dal focolare.

Con Manzoor esco a fare una camminata. Il pomeriggio è ormai avanzato. Saliamo un poco la valle alla ricerca del nostro cavallo lasciato libero a pascolare. Manzoor mi mostra una sorgente d'acqua dalla quale fare rifornimento. Dopo la tenda e una fascia di grossi massi, la stretta conca offre alle iridi nevai situati sul lato nord e cime che tentano inutilmente di serrare la visuale alla montagna di 5400 metri che annienta il fiato.
Tutto è uguale ed al contempo diverso: i monti, le rocce, i ghiacciai, i prati; tranne qualche particolare, le montagne esotiche che ho di fronte mi risultano nel loro insieme familiari... Sono le persone, le abitazioni, il modo di vivere degli esseri umani che confondono ancora una volta, riportandomi in un'altra vita, in un mondo passato che torna, che si riproduce quasi inalterato da migliaia di anni.

I ghiacciai del Kolahoi presto splenderanno della luce obliqua del tramonto.

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martedì 30 agosto 2016

Il Kolahoi disvelato

Il secondo giorno di trekking con la guida di Aru verso i ghiacciai del Kolahoi si fa decisamente più interessante.
Abbiamo da poco lasciato il rifugio a Lidderwat. Siamo in tre: io, Manzoor, il suo cavallo. Fin dal primo giorno del mio arrivo a Aru si è instaurato un rapporto di amicizia con questa persona. I suoi modi di fare spontanei e libertari, la sua giovialità, lo scarso interesse per il guadagno facile, forse per la prima volta, mi hanno convinto ad accettare la proposta di quattro giorni di trekking attorno la catena del Kolahoi, Kashmir.
La lucente mattina offre ai sensi tutta la bellezza dell'altopiano che stiamo attraversando: massi ed erba sottile ci portano dove la valle si restringe, lasciando spazio a sempreverdi, betulle ed altre latifoglie che puntano dritti in alto, verso lontane cime parzialmente innevate. Il Kolahoi rimane celato nella profondità della valle. Anche qui sono molti gli insediamenti di pastori nomadi che vivono in case di legno e pietra, oppure in tende.
Lentamente ci avviciniamo al fiume Lidder dalle acque bianche di ghiacciaio, estremamente rapide. Solo in Himalaya ho visto torrenti e fiumi tanto veloci, anche in presenza di pendenze irrilevanti.
Incontriamo qualche pastore, in discesa verso valle per fare provviste. Manzoor si ferma a scambiare qualche parola con loro. Camminiamo al passo del cavallo che trasporta tutto il necessario per quattro giorni. La mia guida segue l'animale spronandolo con un ramoscello o riconducendolo nel sentiero. "Non conosce questi percorsi", si giustifica.
La conca alterna praterie, dove pascolano cavalli, a pietraie con rocce di diverso tipo e morfologia.
Ad un certo punto siamo costretti ad attraversare un torrente in piena. "Il cavallo non riesce a passare", dice Manzoor, osservando lo stretto ponticello. Quindi, dopo essersi tolto le scarpe, procede a guidare l'animale nelle acque cristalline e violente del corso d'acqua.

A quota 2900 la conca esprime tutta la sua ponderosità, con alberi di betulle sul versante destro, mentre dalla parte opposta vedo cespugli, pietre e prati. Qualche nevaio scende fino in basso. In fondo si vedono solo i contrafforti del Kolahoi. Sono ansioso di ammirare la montagna alta.

La montagna alta comincia a disvelarsi dopo un'ora ancora di cammino. Dapprima una cima, poi un ghiacciaio, quindi un altra vetta ed un ghiacciaio ancora più massiccio. Eccomi, sono qui, grande montagna. Una delle catene più suggestive del Kashmir è sopra la testa, laggiù, verso nord. Nel frattempo stiamo attraversando alti nevai decaduti, frammisti a sfasciumi di massi e pietrisco. Il cavallo sale senza problemi. "Questa notte dormiremo presso una famiglia di pastori, miei amici", spiega Manzoor.
Vivere due giorni sotto la tenda di questa famiglia di pastori di pecore a più di 3000 metri di altitudine, sotto le vette ghiacciate del Kolahoi, 5425 m, sarà una grande esperienza.  

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giovedì 25 agosto 2016

Lidder valley


giovedì 28 luglio 2016

Aru, Lidder valley, Kashmir

Nella jeep collettiva c'erano solo accompagnatori di cavalli per turisti. 
Estraggo dalla tasca il  nome di una persona che potrebbe ospitarmi. Chiedo dove abita e mi accompagnano presso una grande casa di legno con il tetto in lamiera. Entro nell'abitazione e in cucina vedo due uomini che stanno fumando. Manzoor Kuche esce dalla stanza e mi abbraccia in modo familiare. Ancora non lo so, ma quest'uomo con i baffetti ed il gilet da pescatore diverra' una delle persone piu' significative del viaggio in Kashmir.
Su consiglio di Manzoor prendo il sentiero che sale verso una delle due valli che si diramano da Aru. In alto, immobili, salgono catene di roccia e neve di 4000 metri. Il percorso passa per una serie di boschi di sempreverde, per poi aprirsi in una moltitudine di pascoli bagnati da ruscelli. Qui sorgono diverse case dei pastori nomadi. Sono strutture di legno e pietra con il tetto piatto ricoperto da arbusti e terra. Se non fosse per il telo impermeabile che copre qualcuna di queste case, sono abitazioni che gli esseri umani costruiscono uguali da millenni. Al vedere un occidentale qualche bambino in tunica lunga esce dall'oscurita' per salutarmi e chiedere qualcosa.


Seguo a caso i sentieri piu' battuti, per decidere infine la meta: un passo verdeggiante.
Come ad Aru, 2350 m, qui l'aria ed il cielo sono limpidi, lontani dallo smog della perigliosa Srinagar.
Dopo aver passato altri insediamenti di nomadi comincio a risalire la piccola valle che conduce al passo dal nome sconosciuto. Pietre ed erba bassa costellano il sentiero. Impiego molto di piu' del previsto, ma, finalmente, raggiungo la meta. 3250 metri. Dal passo domino parte della valle del fiume Lidder, le cui acque bianche provengono dala catena montuosa del Kolahoi. Con l'andare della giornata le nuvole si addensano attorno alle cime piu' alte, nascondendole.

giovedì 30 giugno 2016

Srinagar vista da dentro

E' difficile vedere Srinagar da questo locale. E' possibile ascoltarla, annusarla, anche se il curry della cucina confonde i sensi. Usero' gli occhi del cuoco Aziz per osservare.
Il ristorante di Aziz di giorno pare chiuso, oscurato dal totalitarismo del ramadan: spingo una porta ed una zaffata di gas e odori pungenti mi investono. Una stanza di diciotto metri quadri, un tavolo perennemente unto, due sgabelli, zanzariere quasi completamente otturate da polvere, grasso e sporcizia, finestre coperte da tessuti scuri. Sopra un mobile in cemento e piastrelle sono inseriti il lavandino, alcune mensole ed un frigo. Cosa contiene il frigo? Alimenti deperibili e... la cassa dei soldi.

Sopra il lavandino e' situato uno scaldabagno elettrico misteriosamente avvolto da un antico cellophane trasparente. Ancora piu' a destra sono situati i fuochi del gas e pentole fumanti di alluminio annerite alla loro base. Aziz mi volta le spalle mentre cucina la mia mezza porzione di curry di pollo. Prezzo concordato in anticipo: 130 rupie. Il cuoco lavora svelto indossando un grembiule da cucina.
Sopra le piastrelle una volta gialle si agita una ventola di aspirazione. I muri del ristorante sono vecchi, scrostati e unti.
Aziz  mi serve su un piatto d'acciaio del riso bollito di qualita' ed un buon curry. Su due ciotole di metallo sono adagiate verdure fresche e cetrioli grattugiati nello yogurt.
Nel locale in apparente penitenza entra lo strombazzare continuo e compulsivo del traffico di Dalgate ed il vociare degli ambulanti. Dentro, con il sudore che scende verso il basso sotto forma di goccioline, ascolto musiche kashmire da una radiolina.
Aziz mi descrive con orgoglio la sua moschea Jama. Parla male del governo nazionale e locale, dei militari (indiani, non kashmiri) massicciamente presenti con armi pesanti in pugno in ogni angolo della citta'. Dice che la situazione non puo' che peggiorare. Probabilmente ha ragione riguardo l'ultima affermazione.
Sono l'unica persona seduta a mangiare nel piccolo locale di Aziz, anche se ogni tanto entra un uomo a spiluccare qualcosa o a fumare una sigaretta proibita.
 
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