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sabato 4 agosto 2012

Attraversando Mindoro, Filippine

Il giorno arriva con la luce dell'alba e con il suono invadente dei tricicli a motore. Mi trovo a Puerto Galera, una cittadina dell'isola di Mindoro nota per le sue spiagge. Sono gia' in strada, ed in una decina di minuti raggiungo lo squallido spiazzo dove partono i minibus diretti nel sud-est dell'isola. Prima di arrivare al terminal dei van, due conducenti di jeepney mi offrono la corsa per Calapan per venti pesos in meno. Rispondo in modo negativo perche' vedo solo un passeggero sul loro mezzo, mentre in minibus e' semipieno, quindi e' probabile che parta subito.
Dall'ultimo posto del pulmino posso osservare bene il panorama ed i passeggeri. Tranne il driver ed il sottoscritto, il resto dl mezzo e' composto da donne di differenti eta'. Alle 7:30 siamo fuori Puerto Galera, e come compagni abbiamo la strada, il movimento ed immagini di esotico che si tinge lentamente di familiare. Inutile aggiungere parole riguardo l'abilita' (o l'incoscienza) dell'autista il quale guida a velocita' sostenuta, tentando di oltrepassare senza troppi scrupoli ogni ostacolo sul percorso, facendo abbondante uso del clacson come metodo preventivo e di comunicazione. Forse e' la presenza di una corona del rosario legata allo specchietto retrovisore a concedere invulnerabilita' al veicolo.
Il tratto costiero sulla nostra sinistra e' spettacolare: ripide colline colme di vegetazione fanno spazio a lingue di sabbia chiara e mare, contornate da palme da cocco e cespugli. Dopo il sogno impossibile dell'incontro con una isola al contempo deserta e perfetta, quanto sarebbe  attraente esplorare ciascuna di queste baie ed immergersi nell'acqua cristallina scoprendoIMG_6275 la vita che essa offre! Sulla strada scivolano villaggi con tetti di foglie di palma o di lamiera, botteghe semplici, bambini diretti a scuola, magri cani liberi, galline e galli spesso usati per il combattimento in quelle che i filippini chiamano “arene”; oltre grosse piantagioni di palme da cocco vedo boschi e montagne.
Il minibus di ferma saltuariamente  in altri villaggi di case semplici ma arricchite dalla presenza di bambini e piante ornamentali con fiori. E poi chiese color pastello tenute con orgoglio e cura da parte degli abitanti, campi di basket, pubblicita' di sigarette ed alcolici. Il percorso stradale costiero offre molti saliscendi, con improvvise aperture di  panorama verso nuove baie.
In una ora e mezzo sono a Calapan; qui il driver mi accompagna gratuitamente alla partenza dei bus per Roxas, citta' meridionale di Mindoro.
Dopo diversi chilometri con il nuovo mezzo cominciano a farsi spazio pianure coltivate a riso con mezzi meccanizzati o con l'aratro trainato dai buoi e governato da un contadino.
E' molto particolare, eppure nella mente che tenta invano di  comprendere i mondi attraversati, si fanno strada ancora di piu' brezze disorientanti, brezze conducenti a Paesi queridos, come se le Filippine fossero un arcipelago emerso nel mare sbagliato, in acque che si trovano molto piu' a nord rispetto a luoghi dove lo spagnolo ed ilIMG_6252 portoghese sono parlati dalla maggioranza della popolazione.
Le ore passano in modo tranquillo sul minibus che solca asfalto e terra, i volti dei passeggeri cambiano e Roxas si avvicina. Da qui spero di prendere il ferry diretto a Caticlan, isola di Panay, un'altra terra germinata nel mare sbagliato. 

venerdì 4 novembre 2011

La pelle (assorbe il tropico)

La pelle è la spugna sul mondo.
Esce ora dalla mia abitazione ancora rinfrescata dai sospiri della notte e dagli aliti del ventilatore, per scontrarsi con l'inevitabilita' dell'aria bollente di Santa Cruz. L'epidermide cozza con i rumori dei micros, dei clacsons, delle voci e dei lavori alle otto del mattino. La pelle incontra altre pelli che si approssimano quasi a venir a contatto, vede gli ambulanti di salteñas, yuca e empanadas, di refrescos, sentendone gli odori emessi; percepisce il brontolio continuo del viale Cañoto in avvicinamento.
Dopo aver goduto dell'ombra degli alberi, delle tettoie e dei palazzi, l'epidermide avverte la presenza dei raggi solari: come puo' essere il sole delle otto tanto terribile? Gia' il fumo nero ed il braccrumore dei micros bianchi e verdi avevano fatto abbassare il suo umore, ora si aggiunge il sole dei tropici americani. Sì.
Percorrendo la calle Mexico le labbra della pelle salutano la signora dei computer, il dito della pelle saluta il portinaio di un palazzo ed il signore delle arance. Quest'ultimo risponde con un: “Buen día don Choco”, e comincia a spremere gli agrumi. L'epidermide assorbe il tropico assorbendo il succo delle arance di Yapacaní, e con esso l'u(a)more comincia a salire. E il rumore, e le persone che quasi ti vengono addosso, ed il caldo portato dal Norte, e le auto che non fanno attraversare la strada, e tutto, sembra davvero meno aspro.
La pelle supera il viale, poi risale la Cuellar evitando rifiuti scodinzolanti al vento, ignorando le ondate di urina che traspirano dai muri, emettendo sudore e cercando l'ombra magra verso la calle España. Le orecchie della pelle incontrano anche oggi la voce conosciuta dello strillone dei giornali.
Prima di salire sul micro 57 la temperatura che si legge sull'orologio attaccato alla pelle segna 35 gradi. Nel mezzo pubblico probabilmente quel numero salira' di un grado, ma l'epidermide sa che il piu' difficile sta passando.
Così la pelle assorbe il tropico (che ama).
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lunedì 10 ottobre 2011

Insieme agli studenti nei boschi tropicali di Avaroa

La partenza avviene da una Santa Cruz ancora immersa nel buio. Liliana passa a prendermi con la jeep grigia del CEPAC presso il quartiere Panamericano. Inforchiamo il viale Centenario e passiamo da Radio Alternativa dove ci aspetta Fabiola. Nonostante il mattino presto percepiamo che ci attende un'altra giornata torrida.
Con scarso traffico usciamo dalla metropoli fino ad assaporare gli immensi pascoli bagnati da un sole infuocato che attorniano la citta' della Croce potenziata.
Una strana coincidenza attende il nostro viaggio verso Avaroa: 150 chilometri di asfalto e 17 di pista sterrata; gli stessi precisi numeri per arrivare a Tres Quebradas, la  scuola che visitammo in settembre. In cambio adesso non dobbiamo arrampicarci tra le pendici delle Ande ma dirigerci verso nord e poi ad ovest, costeggiando il lato sud del parco Amboró.
Proseguendo per la strada che porta a Cochabamba passiamo circYapacaní e dopo 27 chilometri arriviamo a San German; in quest'area un'operazione della polizia due mesi or sono ha sequestrato piu' di una tonnellata di cocaina.
E' proprio da S. German che entriamo nella zona di boschi e pascoli tropicali per dirigerci a Moile-Avaroa. Pochi chilometri dopo aver imboccato la strada sterrata veniamo fermati da una fune metallica che blocca la strada. Con uno scarno spagnolo il signore del controllo, immigrato dall'altopiano, ci chiede soldi per poter transitare. In realta' questo casello illegale                          –dicono realizzato dai narcotrafficanti- ha lo scopo di monitorare le entrate dall'unica strada di accesso alla zona del Moile. Proseguiamo abbastanza velocemente lungo la pista polverosa ben livellata, incontrando qualche jeep ed un paio di scassati camions. All'avvicinarsi delle montagne del parco Amboró il panorama diviene maggiormente ondulato mettendo in mostra alberi, smilzi torrenti e qualche casa.
La scuola di Avaroa è posta su una collina dalla quale si colgono ulteriori visioni di tropico.  I ragazzini che ci attendono in questa lontana comunita' sono 26. Due gli insegnanti. Zero corrente elettrica.
Il mio gruppo inizia con una presentazione da parte dei singoli studenti ed una breve introduzione al nostro programma didis educazione ambientale. Scorrono accompagnate da disegni, domande e idee le tre ore insieme a questi ragazzini seri. Tra loro mi colpisce Moira, una bambina minuta con la coda di capelli color pece ed una intelligenza particolare. Prima di uscire dalla scuola le dico: “Cerca di studiare perché sei molto brava”. Lei mi guarda, poi si incammina lungo la strada bollente  in direzione di casa.

giovedì 3 giugno 2010

La fine della Panamericana

Un breve tratto di mare e poi verso la fine della strada motorizzata più lunga del mondo. Quasi quarantottomila chilometri di asfalto che affondano nelle vene di questo continente dove il viaggio nei sentieri della Natura e del tempo è ancora realizzabile. Il traghetto mi congiunge all'arcipelago di Chiloé, che ora è parzialmente occultato da una leggera nebbia marina, quasi fosse un'isola lontana del nord Europa. Anche se il mio vagare non è terminato, sento che qualcosa sta per chiudersi insieme alla Ruta 5, la Panamericana.
Sotto di noi un mare impenetrabile per effetto del moto ondoso ed un riverbero di provenienza indefinita. Raggi di sole sbilenchi filtrano tra nuvole cariche di cromaticità variabile; proiettando lo sguardo che dal filo dell'acqua raggiunge la terraferma a nord, si ricevono diverse sensazioni disarmoniche tra loro: luce al tramonto, arrivo di un temporale, occhi che osservano il mondo attraverso filtri improbabili. In alcune porzioni di cielo, nuvole e mare gareggiano a riflettersi il grigio, come in un continuo gioco di specchi. 
Il bus della Cruz del Sur vola sui prati verdi macchiati dal giallo del freddo dove pascolano bovini, attraversa fattorie di legno, boschi scuri piegati dal vento oceanico, masticando la strada solitaria. Una signora dai tratti indigeni sale ad Ancud: indossa una giacca color limone sbiadito e tra le mani porta un pacco voluminoso, forse un regalo. A tratti i cigvetri del bus si velano di una pioggia sottile e silenziosa, ottenebrando la visuale. Nelle vicinanze di Castro scorgo lembi di mare che si insinuano tra colline ricche di vegetazione. Fotografo mentalmente questa visione di mare-cielo-terra come un'unione sincronica di elementi che paiono fusi assieme. Forse le mie iridi sono prese d'inganno: forse gli alberi, i fiordi, le leste nuvole che confondono il cielo, i prati, non sono partizioni di paesaggio ma una inscindibile unità.
La cittadina di Castro mi accoglie con una tiepida luce che pare provenga dal sole. Questa volta ho un indirizzo sicuro dove dormire: un commesso viaggiatore che ho conosciuto molta strada più a nord mi ha fornito tutti gli estremi. Attraverso vie umide con la borsa a tracolla tra donne che tornano dalla spesa, artigiani con furgoncini rumorosi, operai e bancarelle dei commercianti. Suono al numero civico di una casa bassa e semplice. La signora con il grembiule blu mi ascolta in silenzio, poi, dopo essersi asciugata le mani in grembo, dice che è dispiaciuta ma tutte le sue stanze sono occupate.
Mi riesce difficile spiegarlo, ma Castro è una città diversa da quelle che ho appena visitato. Altra gente, altro sangue. Altri destini più severi. Visito la zona portuale e poi l'area delle tipiche palafitte poste sull'acqua. Cammino a lungo tra i quartieri popolari, osservando, accompagnato da ventate di pioggia invisibile e dalla brezza disarmante; come un vagabondo privilegiato e solitario sperimento cosa vuol dire vivere tutto il giorno fuori, facendosi corrodere piano piano dal cstfreddo, dall'umido, con la necessità corporale ed istintuale del  movimento. Percorro strade lunghe e diritte che si tuffano nel mare. Nella zona bassa della cittadina homeless avvolti da pesanti cappotti dormono sui marciapiedi accanto a bottiglie vuote. Come a Puerto Montt anche qui vedo ristoranti che si appoggiano su palafitte, ma pare siano chiusi. Prima di rientrare nella mia stanza faccio un giro nel movimentato terminal dei bus informandomi sulle destinazioni verso l'isola di Quinchao

La Panamericana è terminata. La scorro mentalmente lungo i tratti infiniti che ho percorso. Decine e decine di bus, ore su ore ascoltando musica, leggendo un poco, ma soprattutto con gli occhi abbagliati dal panorama che scorreva pazientemente sui vetri.
Da questo locale di Castro, Chiloé, seduto di fronte alla vetrata che si affaccia sulla strada, riesco a sentire sul corpo le vibrazioni che mi ha tramesso la Ruta 5, le molte persone sfiorate solo per un attimo e quelle invece che hanno portato significato. La strada è lì dura, calda, fredda, vuota, ma soprattutto inevitabile. Mi risulta difficile restare fermo mentre la via aspetta un nuovo passeggero dal destino ramingo, attende colui che affronta lo scopo disarmato.
Negli anni passati, durante un viaggio, vivevo il tempo trascorso sopra un bus, una barca, un treno come una perdita, una sconfitta. Adesso capisco che a cavallo della strada è possibile incontrare parte di sé stessi, è realizzabile il silenzio, mentre il flusso ci accompagna in luoghi sconosciuti.
Il movimento libero pare alieno alla senescenza, sembra alieno alla morte, trasmette uno status che si accosta alla invulnerabilità.
Con il corpo esausto, sotto questo cielo burrascoso, mi risale alla mente una frase del Kalevala: 'L'interna fiamma, la febbre di andare'.
 
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