Visualizzazione post con etichetta Mente del viaggiatore. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mente del viaggiatore. Mostra tutti i post

mercoledì 28 ottobre 2015

La mente leggera nella stanza a 3550 metri

Sonno lieve che lambisce il dormiveglia. Apro gli occhi su una stanza scarna con un letto a castello vuoto e coperte di lana. Illuminata dalle luci della strada, la carta da parati delinea disegni semplici sul muro chiaro. Cartoline di posti lontani sono attaccate alle pareti. Su un comodino sono appoggiati un deodorante, una crema solare, l'orologio e l'astuccio della toilette. Dal soffitto spunta una lampadina bianca collegata a due fili elettrici colorati. Nel silenzio totale solo il vento ha il coraggio di insinuarsi negli spifferi delle finestre dell'hostal di doña Anita. 
Alle cinque del mattino, con il buio violentato dalle luci dondolanti dell'unica piazza di Zumbahua, sepolto da coperte pesanti e con il naso freddo, la mente lucida si inabissa incontrando l'estraniazione. Un buco senza oscurità, un momento dove la coscienzaCdP rimane attiva nel centro e vacillante in periferia. Riporto le iridi a fissare senza scopo la carta da parati. Non è la solitudine ne' una temporanea amnesia, non si tratta del ventesimo giorno di viaggio che inizia oggi, ma avviene in me qualcosa che assomiglia ad uno spaesamento consapevole, un vuoto che pone interrogativi, un vuoto. E nel silenzio arrivano domande senza risposta: cosa faccio qui? Chi sono?
Rimango immobile a lungo, sovrastato dalle coperte di lana grezza, nella nicchia di calore che si disperde lentamente.
In quei momenti non riuscii a comprendere bene l'estraniamento di quella mattina nella stanza dall'aria fredda; solo qualche ora dopo, tra praterie di erba dura dei 4200 metri della cordillera Central, illuminato dal sole forte dell'equatore, capii qualcosa di più, capii che quel vuoto, quelle domande appartenevano a piccoli pezzi di me che stavano mutando, rinascendo, alla ricerca di una ricollocazione mobile. Al viaggio.
L'erba d'alta quota scivola sotto le scarpe. I sandali avanzano rapidamente verso una meta sconosciuta. Dopo la visita al lago di Quilotoa tornerò a Zumbahua. 
Diritti riservati Creative Commons

mercoledì 28 novembre 2012

Prima di partire: i legami si sfilacciano

Ewan aveva sempre avuto un ottimo rapporto con il sonno. Negli ultimi giorni invece, prima dell'alba, navigava in modo progressivo verso la veglia. Come soldatini dalle figure sfumate, come luci dai colori spuri, i pensieri si affacciavano nella mente di Ewan. Dapprima riusciva a scacciarli perché voleva concedere spazio al sonno; quando riusciva ad azzerare una prospettiva, l'inquietudine successiva prendeva il suo posto con maggiore rilevanza. E allora pensava. Pensava alle cose ed alla partenza del suo lungo viaggio.
Dapprima erano stati i genitori, poi i parenti e qualche amico. Dubbi, consigli, approvazioni venivano trasmessi al giovane con pacata logicita', altre volte con toni e sentimenti che si umidivano di dolore. Gli stati d’animo di Ewan si spostavano dalla confusione all'eccitazione, quasi ugualmente alla variabilita' meteorologica del suo paese.
La notte precedente, al ritorno dal pub, calpestando l'acciottolato della strada, un'antica e semplice verità lo fece rabbrividire: era scandalosamente nsolo. Nonostante la rete di amicizie, la famiglia, la sua scelta e probabilmente il suo futuro avrebbero riverberato di consapevole solitudine. Sarebbe stato lontano, assente, una persona dall'esistenza fluida e mobile. Questa la prospettiva. 
Aveva appena lasciato gli amici che si erano raccolti nel rumoroso locale come ogni mercoledì sera, eppure un velo di distanza, un'aura che sapora di amaro distacco, si frapponevano fra Ewan ed suoi compagni di vita.
Mentre Ewan fissava ostinatamente la strada, chino su quello che avrebbe lasciato, sulla fallibilita' della sua decisione… se le sue iridi chiare si fossero spostate in direzione delle nuvole volteggianti nel cielo, probabilmente queste ultime gli avrebbero suggerito che qualcos'altro stava perdendo di consistenza, si stava sfilacciando per poi rompersi. Erano i legami che fino ad ora avevano definito la sua persona, il suo esserci in quanto tale. Ma si sa', solo le nuvole conoscono bene come funziona il mondo.
Diritti riservati Creative Commons

giovedì 8 novembre 2012

Prima di partire: la scelta inizia a cambiare l'individuo

Minuti. Furono sufficienti una manciata di insignificanti secondi per modificare opinione sulla scelta che gli avrebbe cambiato la vita. Dopo l'iniziale euforia, nella mente di Ewan si erano affollate incertezze che magnificavano lo status quo. E quanta logica avevano gli spudorati tentativi di ritorno sui propri passi.
Mercoledì 8 maggio. Il giovane credeva che fissare la data era un punto di non ritorno, il versare buona parte dei suoi risparmi nel volo intercontinentale fosse il primo atto di cesura verso il passato, uno sguardo oltre la quotidianita', i prodromi del distacco.
Non era proprio così, non era affatto così. Come diceva il suo amico Stu, bisognava provare di persona le cose per comprenderle.
Ewan non comprendeva. Ewan partiva per un viaggio che sarebbe durato due anni. Un mese alla dipartita.
Ma ora aveva voglia di aria fresca, quindi scese le scale, infilo' il giubbotto di pelo e gli scarponcini alti. Il lettore musicale era in tasca dei pantaloni; penso' che un poco di musica gli avrebbe fatto bene. Invece non ascolto' il post-rock dei suoi connazionali e neppure qualcosa di dubstep, perché il suono del vento che si adagiava tra gli alberi, i richiami indecifrabili PdP1dei gabbiani, il fruscio delle scarpe sull'erba gialla e umida, il rumore di terra stanca d'inverno avevano assunto una tonalita' meno ordinaria. Ewan faticava a intendere che il tarlo della scarsita' si era timidamente e precocemente infilato dentro di lui. Un mese vola in fretta.
Subito pero' ripresero forza le prospettive della scelta: avrebbe realizzato innumerevoli desideri, avrebbe visitato colline diverse da quelle che aveva davanti, incontrato persone, lavorato quando i soldi scarseggiavano... magari la sua fresca laurea sarebbe servita a qualcosa. Non voleva piu' dipendere da alcuno.
Ewan camminava piano nel viottolo di campagna, la sua campagna, seguendo le delicate tracce della volpe e della lepre, guardando il cielo e le ombre proiettate dalle nuvole sui prati e nei boschi. 
Diritti riservati Creative Commons

giovedì 18 ottobre 2012

Nuotare

Nuoto, con il respiro prolungato nel boccaglio e le iridi raminghe oltre il vetro della maschera. L'acqua e' sorella, compagni  pesci e coralli. Minuti, ore, volando di piacere immerso nel liquido trasparente di Tioman fino a rimanere travolto dai brividi di freddo. Un semplice movimento di spalle e percorro un universo sconosciuto e familiare, un mondo senza strade e con tante strade. Un mondo sotto il mondo, una terra immersa in qualcosa di diverso. Vago lentamente, cercando di imitare i pesci, la foglia  trasportata dalle onde, offrendo la parte  sottile del corpo all’armonia della corrente   nuotohttp://www.youtube.com/watch?v=H-iNOK3RayA
Riusciro' mai a considerare fratello il mare? Quando la profondita' aumenta e, la' sotto, il fondo diventa imperscrutabile e la mente germoglia lampi di incertezza, il volo pare meno stabile.
Lena nuotava bene nelle vie dell'imprendibile. La ragazza incontrata sotto i cieli d'America -i piu' belli- sapeva volare. Osservavo i suoi movimenti, gli occhi tranquilli, il capo, e contemporaneamente vedevo le difficolta' del viaggio, gli scogli dell'incontro con l'estraneo divenire in lei linfa ed espiazione. Lena comprendeva, incorporava le brezze di un luogo con una velocita' oscena e naturale; era antropologa, sociologa, era alunna ed insegnante, le bastava nuotare un poco in acque aliene per intendere. Carpiva la corrente, anche la piu' leggera, al punto che la gente del posto le domandava se viveva da tempo in quel territorio.
Stava presso le cose, umilmente, facendole proprie senza impossessarsene.
Scritto a Tioman, l'isola dai coralli infiniti
Diritti riservati Creative Commons

giovedì 1 marzo 2012

La primavera gira su Buenos Aires

Veloce scivolano le orme sulle piastrelle della Suipacha, Microcentro, nel cuore della capitale piu' attraente dell'America del Sud. Le mie orme, la pelle, il mio fiato vorrebbero includere per sempre la primavera australe che gira sopra Buenos Aires. Nella via scorrono ragazzi in bicicletta e affrettati passanti; nei loro vestiti che anticipano climi piu' miti e nei loro ampli respiri riconosco l'afflato verso il tempo propizio.
Sono mesi e mesi che affronto stagioni che durano una manciata di ore, stagioni perdute, stagioni lontane che i venti modificano come girando un vecchio interruttore manuale pieno di polvere. Questo avviene a Santa Cruz, parecchio piu' a nord, nel tropico americano, dove le nuvole gareggiano pacificamente tra loro sopra le foreste arretranti; durante il mese di giugno e luglio la temperatura poteva variare di una ventina di gradi da un giorno all'altro. Poi è arrivato il caldo. E non è andato via.
Quando viaggio a volte mi viene da fare un gioco mentale che consiste nel catapultare una persona conosciuta o me stesso nel luogo dove mi trovo. Ovviamente non si deve conoscere il posto, con il proposito  -secondo quello che nell'immediatezza i sensi offrono- di avvicinarsi alla comprensione di dove ci si trova. Allora. Il clima è mite, l'odore intorno sa di primavera, di infiorescenze e di alberi di citta' dalle forme poco esotiche; gli imponenti palazzi sono in stile occidentale, la gente, be' la gente è soprattutto di carnagione bianca e la lingua... facile: sono in Europa; dai vestiti e dai movimenti delle persone, dalle scritte e dai volantini sui muri pare pero' un’Europa strana che incrocia modernita', rigore, decadenza, retrò, anarchia e ventate rivoluzionarie. Come in un film degli anni settanta ritoccato ai giorni nostri.
Ho preso la Suipacha perché lungo il tratto del Microcentro è una via libera dal traffico privato e meno affollata della parallela Florida. Portandomi verso il quartiere Retiro vedo negozi antichi gestiti da signori d'eta', banche, bar, chioschi dominati da palazzi costruiti nel vicino secolo scorso. Ma è nei ed1grandi viali che ora attraverso dove si puo' ammirare l'architettura francese ed italiana mescolata a qualche edificio piu' recente, mentre sulla sinistra scorgo l'imponente obelisco bianco che spunta dalla avenida 9 de Julio.
Sono arrivato da un paio di giorni nella citta' dalla Buona Aria e mi pare di essere qui da un mese. All'aeroporto ho chiesto a due taxisti se il bus di linea 86 si reca ancora in centro; con la consueta gentilezza disinteressata di questo popolo mi hanno risposto affermativamente, anche se ora il numero del mezzo pubblico e' diventato 8. Con i vestiti e l'epidermide che respirano la stagione dove tutto comincia, mi avvicino alla fermata del bus. Domando ad una ragazza che aspetta il suo turno per salire sul convoglio quanti soldi ci vogliono, lei mi risponde: “Due pesos in moneta”; le chiedo se mi puo' cambiare una banconota di piccolo taglio, lei mi regala i soldi come fosse la cosa piu' normale del mondo. “Sono a casa”, mi son detto.
Dall'autobus vedo pascoli, fattorie e piccoli centri urbani. Negli spazi verdi prossimilleg all'autostrada sono parcheggiate auto con adulti e bambini che si godono il clima mite domenicale. Dopo due ore di strada, di periferie e di viali infiniti sono sulla Yrigoyen, a due passi dalla 9 de Julio. Dirigo le gambe verso un piccolo hotel economico del centro. La prima notte nell'albergo ed il volo di ritorno è l'unica cosa che ho fissato in questo lungo cammino sulle strade d'America.
La primavera gira su Buenos Aires e colui che cerca senza mai trovare si muove lungo vie illuminate di bianco e di sole, verso la stazione di Retiro. Con il tempo una volta sovrano, ora liberato. 
Diritti riservati Creative Commons

venerdì 23 dicembre 2011

La costa atlantica della Patagonia

I sandali raschiano sassi ovali e terra color mattone. Davanti a me cespugli, colline, cielo e vento da ovest: ora tocco i panorami a lungo osservati dal bus. Le gambe conducono nella riserva del ría Deseado a Puerto Deseado, Patagonia centro-sud. Sulla sinistra un golfo ricco di isole e dell'incontro tra acqua dolce e salata (ría). In questi spazi brulli con alberi pressoche' inesistenti, l'acqua calma della baia riceve una moltitudine di volatili ed animali acquatici.
La terra mi entra nei piedi, ed in testa un delizioso e acido mantra dei Mogwai si combina perfettamente con il rumore dei passi. L’ambiente quasi desertico di cespugli spinosi in fiore, erba secca e sabbia potrebbe farmi immaginare l’incontro con un rettile velenoso, se non fossimo in latitudini altre. E poi il vento. Vento imperante che determina il volo degli uccelli, la dimensione e forma delle piante, la temperatura, l’erosione…
La pelle che ha assorbito il (caldo) tropico, in queste settimane incontra il clima duro delle pendici australi. Istintivamente sento quasi necessaria l’urgenza di essere purificato e contagiato dagli elementi atmosferici; insieme a lasciare dietro le cose e l’inessenziale, il cambiamento, la ricerca, sono tutte dimensioni spirituali del viaggio. Una spiritualita’ arcaica, naturale, inevitabile.
is quiDopo aver passato un'isola rocciosa ed arida, separato da un breve tratto di acqua vedo e sento l'isola Quiroga. Qui e' un brulicare di animali dai colori bianchi, neri e grigi. D'apprima riconosco i rumorosi gabbiani reali, poi distinguo con chiarezza i pinguini di Magellano. Questi ultimi sul terreno assomigliano a: 1. Statue gommose, quando sono fermi; 2. Piccoli zombie sperduti, quando camminano. Essi si muovono in fila tra i cespugli per poi fermarsi in attesa quasi di un comando alieno, o forse pentiti di tanta strada su quel suolo per loro difficile. Rimango a lungo ad osservare gli animali dell'isola, mentre nell'acqua e sopra passano cormorani, anatre e ostreros dai richiami dolcissimi.
Con l'odore di salsedine e di polvere e sotto la possanza del cielo d'America attraverso la steppa fiorita della Patagonia, incrociando lepri solitarie ed impassibili rapaci dal voloria des immobile. Cammino e cammino su sentieri inventati alla ricerca di nuova costa e dei suoi abitanti, con il respiro forte che sottraggo al vento.
Dopo aver attraversato un canyon che l'alta marea inonda parzialmente di acqua salata, arrivo ad una scogliera dove nidificano i colorati cormorani grigi. Ancora una volta contemplo animali, il mare verde, il ricco deserto privo d'ombre, i rivoli di polvere alzati dal vento. A pieno contatto con il mondo.

venerdì 18 novembre 2011

Rotta Australe: da Buenos Aires a Río Gallegos

Arrivo nella stazione Retiro di Buenos Aires in un tardo pomeriggio di piena primavera. Il terminal dei bus e', come sempre, pieno di viaggiatori e di autobus a due piani che si irradiano in tutte le arterie della nazione. Il mezzo che mi condurra' a Río Gallegos e' della compagnia Andesmar. Il viaggio che sto per intraprendere e' il piu' lungo che abbia mai percorso. Buenos Aires-Río Gallegos: 2600 chilometri sulla Ruta Nacional 3, dal Río de la Plata alla Patagonia del sud, a 50 chilometri dallo stretto di Magellano. 
Il mio posto a sedere e' quello panoramico del piano superiore del bus. Lasciamo alle 20 passate una Buenos Aires con il tramonto appena consumato, passando per Puertobs as Madero e poi verso sud, inforcando la Ruta Nacional 3 (RN3). Al Sur.
Scorrono veloci i chilometri nel buio stellato, con ancora i riverberi della piu' affascinante capitale dell'America del sud. Accanto a me e' seduta una ragazza danese con la quale comincio a discorrere. Poi arriva il pasto ed un buon bicchiere di vino di Mendoza. Quando si chiudono tutte le luci del bus osserviamo in silenzio il nastro asfaltato che scorre sotto di noi.
Il preludio dell'alba ci accoglie a Bahía Blanca con il vento proveniente dall'oceano ed i gabbiani che sfrecciano nella prima luce. Con la musica dei Cinematic Orchestra nella mente e gli occhi piantati sulle due corsie della strada ornata da minuscoli fiori gialli, nasce un nuovo giorno di viaggio. E' una cosa impossibile da spiegare, eppure qui, nel piano rialzato del bus, con il mondo perfettamente diviso in due colori, di cui uno -quello verde- partito a meta' dalla riga d'asfalto, la monotonia e' oggetto alieno; il sangue ramingo annega di piacere nella strada e nel movimento, assaporando la pat3lentezza e godendo l'interminabilita'. Attorno al bus della Andesmar scorrono mari di praterie e di cespugli. Il cielo tagliato da ombre di nuvole sottili preannuncia una giornata di sole. Ad un certo punto, ad un lato della carreggiata, vedo un autoarticolato immenso coricato su un lato: come il suo conducente pare che stia riposando sui prati della infinita Patagonia.
Sebbene la Patagonia argentina fosse iniziata dopo il río Negro, e' al solcare la provincia Chubut che vediamo i cartelli che annunciano questa immensa zona.

Dopo 24 ore di viaggio il cartello sulla strada segna 1752 chilometri; parecchio piu' avanti il crepuscolo si adagia sui pascoli bitorzoluti della Patagonia centrale. Lame di raggi di sole attraversano il panorama frustato dal vento. Río Gallegos dista ancora 870 chilometri.

Il giorno dopo, alle 8 del mattino, arrivo a Río Gallegos: 36 ore precise di viaggio non-stop; sono stanco ed eccitato. Fuori dal bus della Andesmar il fiato fuma leggermente, il vento e' forte, ma si capisce che la giornata sara' abbastanza mite.

domenica 31 ottobre 2010

Una mattina a Bangkok – parte uno

Nella Citta' degli Angeli la mattina arriva troppo in fretta. Apri gli occhi con il buio, rigiri il corpo magro nel duro materasso ed è già giorno. Le ore di luce mattutine che ti getta addosso il quartiere Banglamphu sono sempre silenziose, quasi a compensare gli eccessi della notte in una città molto generosa con gli uomini. Questo peduncolo di verde, hotel e case attaccato al Chao Praya river è come una cittadella proibita rimasta intatta agli algidi bombardamenti di aerei stranieri portatori di una loro democrazia, intonsa alla corrosione di un tempo che ha per unica arma la pazienza. Fuori Banglamphu, mostruose e gonfie arterie colme di metallici marchingegni si sfidano a vicenda affondando nell'afa per condurre da qualche parte persone e cose; linfa corrosiva e forse necessaria che avvolge e ancora avvolge. Dentro Banglamphu, regna il silenzio del feroce sole crescente, ammorbidito da nuvole monsoniche. Precisamente, nella piccola stanza dalle sottili pareti di cartongesso, un rumore costante mi circoscrive. Osservo le instancabili pale del ventilatore muoversi sotto il soffitto macchiato, un cerchio ipnotico il cui suono si e' fissato nel cervello fino ad annullarlo consciamente, dopo averlo incorporato tutta la notte. Rumore corrosivo ma necessario.
Dal soffitto sposto lo sguardo alle lenzuola che non coprono il corpo nudo: sono lì su un lato del letto solitario, spiegazzate, rattoppate dai buchi di brace di sigaretta, gialle a furia di lavaggi, quasi inutili. Solo verso l'alba, quando la temperatura si avvicina a qualcosa  che assomiglia vagamente alla passabilità, esse vengono cercate e magari posizionate sui piedi. Specularmente a quando il sole tramonta, le ore che accompagnano il sorgere del sole sono quelle del ristoro, dell'anelato impossibile fresco.

Sono sbarcato ieri pomeriggio nell'umida stazione dei bus di bkkEkkamai dopo un lungo viaggio proveniente dalla costa interna,  salito sullo skytrain, poi il familiare bus 15, Banglamphu. Niente tuk-tuk o taxi come fanno i turisti. Quando il giallo pallido del tramonto stava cedendo gli ultimi colori pastello alla notte entravo in un hotel economico dalla facciata pomposa, contrattavo il prezzo dopo aver dato un occhio alla camera e mollavo i polverosi bagagli. Poi fuori per acquistare una Leon e rambutan.

Allungo il braccio verso il comando del ventilatore per abbassare di un punto la velocità, tanto per ammorbidire la sua presenza sonora. Ora dalle pareti mi arriva il tossire della persona che dorme nella stanza accanto; da qualche parte una porta si chiude.  Alla mia sinistra -vicinissima al letto e sopra un mobiletto- vedo una piccola televisione sulla quale ho appoggiato lo spazzolino e il contenitore del sapone, monete, la chiave del lucchetto. La bottiglia dell'acqua è accanto all'elettrodomestico a cui ho staccato la spina. Sulla porta d'entrata è appeso l'asciugamano odorante di muffa e la maglietta che uso durante il giorno; i calzoni e lo zaino piccolo sono infilati nella cornice sporgente dello specchio accanto alla televisione. Precisamente, bisogna ottimizzare lo spazio. La borsa è ai piedi del letto accanto alla guida, l'usurata mappa della città, una birra vuota e le infradito. Il bagno si trova oltre la parete del letto; l'altra volta era fuori dalla stanza, ma non aveva importanza, ero e sono qui, nella Citta' degli Angeli.
Saranno le otto passate e fuori si ode qualche sporadica moto e nulla più oltre ai canti dei galli e il richiamo di qualche uccello dietro le mura di un monastero alberato.
Rimango ancora un tratto disteso osservando senza vedere la stanza, infilando pensieri raminghi e assaporando il fresco accumulato durante la notte; tra poco mi alzerò per raggiungere quello sconfinato viale che mi porterà fino in fondo alla Lan Luang road, sotto un cielo opalescente. Sono tranquillo perché qualsiasi ora mi alzerò sarà sempre troppo tardi e troppo caldo.

sabato 28 agosto 2010

Sensi in Birmania

Occhi vigili. Passi lenti ed accurati, evitando le buche, i marciapiedi sconnessi e le cose sbattute sul cemento bollente macchiato di rosso. E poi mucchi di terra, ammassi di rifiuti, deiezioni di animali, vecchie infradito solitarie. Quando le bancarelle di uno degli infiniti mercati si spostano da una strada, pare che gli scarti siano maggiori della merce venduta.
Vista acuta quando attraversi la strada: taxi-camion-riscio'-bici-moto-jeep-carri sono piu' grossi e non si fermano davanti ad un pedone. Occhi che si appannano di fronte alla miseria, occhi che ridono incontrando un birmano.

Respiro tenue. Aria che alita di spezie e fritture mischiata al fumo degli incensi e alle diverse tonalita' cromatiche sputate dai tubi di scappamento dei motori. Nelle citta' lo smog entra in piacevole sinergia con sudore e crema solare, annerendo velocemente i bordi dei vestiti a contatto con la pelle. Respira piano e cerca di distrarre l'olfatto quando si fanno strada odori sgradevoli e ventate di caldo torrido che stordiscono; invece assorbi l'aroma delle piante in fiore, delle corolle di gelsomini da offrire al Buddha, dell'erba tagliata e dei profumi di donna. La passione fa avvertire la presenza di alcuni frutti prima ancora di catturarli con la vista.
Impegnati sempre nella sfida per riconoscere la processione interminabile di odori che costantemente vengono incontro: e' una battaglia lunga ed impossibile.

Gusto tenace. Comincia con gli aromi facili ed immediati come l'ananas e il dragon fruit: la soddisfazione e' immediata anche se -come in un'amore veloce- poi rimane ben poco. Ora si sa' dove vado a parare: limbo, paradiso e purgatorio. Il naso lo rifiuta con moderazione, la lingua ed il palato istintualmente vorrebbero scacciare la sua polpa molle. Ma poi arriva il gusto, travolto da una pienezza incontenibile. A differenza dell'avocado che riserva il maggior piacere con il retrogusto, il finale del durian non puo' che discendere la volutta' iniziale. Probabilmente e' impossibile descrivere le fasi di un frutto che non conosce vie di mezzo, che da altezze impensabili, nel giro di un nanosecondo, conduce attraverso incomprensibili e fugaci paludi.
Il curry delle bancarelle di strada riservano piacevoli sorprese, come la zucchina amara cotta con altre verdure e speziata con aromi dolci, le erbe fresche raccolte nei campi che accompagnano la zuppa di noodles di riso, verdure rotonde simili a piccole melanzane bianche che pizzicano il palato quasi fossero piccanti. La bocca gioisce gustando gli spiedini di verdura e carne cotti al momento e non rifiuta lo zucchero che viene abbondantemente versato su un caldo roti.

Udito paziente. Udito che vorrebbe cancellare il fracasso proveniente dalla strada. Clacson immortali con decine di tonalita' diverse ma con una costante: la potenza del suono. Pensi che dopo qualche settimana riuscirai ad accettare il concerto di voci, musica sparata al massimo volume, rombi di motori piu' o meno diroccati e le trombe delle auto. Invece no. Soprattutto in citta' e lungo le arterie stradali, l'udito deve farsi piccolo, insensibile, rilassato.
Raccolgo voci di ragazzi che cantano solitari mentre camminano, gli imbonitori nei mercati e sui treni, voci di bambini viziati e di piccoli senza casa. Suoni di ciabatte strofinate sull'asfalto, cammino leggero di cani randagi liberi, passo potente dei pacifici bufali e ruote di bicicletta che rosicchiano la terra battuta. Gridi di uccelli alieni e vento tra le foglie di palma.

Tatto leggero. Tocca il fresco gomito della statua del Buddha, percependo le migliaia di mani che ti hanno preceduto, i sudici corrimano del bus, le tavole di legno del sedile della classe Ordinary e la maniglia della porta di un devastato gabinetto pubblico. Le mani ed i piedi sudati si coprono di polvere e inquinamento durante un viaggio; percepisci i polpastrelli unti e secchi contemporaneamente, vedi unghie e caviglie che diventano nere, il viso e' una maschera dura. Acqua. Gocce di doccia fresca e purificatrice.
Sento il pavimento dei templi e rimuovo le decine di minuti passati in una notturna Yangon allagata con l'acqua piovana sopra le caviglie ricca di ogni sostanza vagabonda e con i buchi dei canali di scolo invisibili. Accarezzare gatti dal pelo corto e il tronco di un grande albero. Portarsi la mano sul viso per allontanare l'eterno sudore, sbadigliare tenendo le dita scostate dalla bocca.

domenica 22 agosto 2010

Viaggiatori solitari in Myanmar

Jens
Alto, magro, pantaloni azzurri, scarpe da ginnastica e maglietta larga a righe. I capelli biondi lisci, accompagnati da occhi chiari e bonari, lo avvicinano alla figura stereotipata di un Gesu' televisivo. Passiamo dodici ore di bus da Bagan a Yangon separati da pochi sedili senza dirci una parola, senza un segno di saluto o intesa. Solo sguardi veloci destinati a studiarci a vicenda.
Alle quattro del mattino l'autobus raggiunge la polverosa stazione della grande citta'. Scendo stralunato con l'intenzione di prendere un altro mezzo per la costa ovest ma mi viene spiegato che devo recarmi presso un altro terminal; questa notizia -insieme alle previsioni del tempo ricevute il giorno prima- mi fanno abbandonare temporaneamente l'idea primigenia. Con gli occhi impastati scorgo Jens accompagnato da una ragazza orientale che stanno ancora contrattando il prezzo per un taxi. Mi avvicino al gruppo di taxisti che circonda i viaggiatori. Senza troppi convenevoli partecipo al ribasso del prezzo, arrivando ad una accettazione da parte di un conducente.
Voliamo veloci sopra una metropoli buia gia' fertile di persone in attivita', scambiandoci appannate parole nel deserto del silenzio dominato dal rombo del motore dell'auto. La ragazza si ferma in un hotel di medio livello, noi scendiamo vicino ad una guest house economica.
Ci conosciamo davanti ad una tazza di te' addolcito dal latte condensato, mentre la luce del nuovo giorno si insinua tra i palazzi decandenti e ammuffiti di una Yangon monsonica. Le domande scorrono fitte, con parole coincise che tentano efficamente di arginare la stanchezza. Jens e' uno studente prossimo alla tesi in una famosa universita' del sud della Germania. I suoi studi, ma soprattutto gli interessi, lo hanno condotto ad una esperienza di alcuni mesi in Cambogia. Ora viaggia accompagnato dall'inseparabile zaino che non raggiunge il peso di sette chili. Ecco il suo bagaglio e la sua liberta'.
Dopo poche frasi e qualche battuta scherzosa scorgiamo una amicizia predestinata, un'intesa senza tempo velata di inevitabilita'. Lui mi parla della Cambogia, della spazzatura distraente che manda in onda la televisione di regime del Myanmar e della sua tesi. Gli racconto di qualche viaggio e del mio lavoro.
Passiamo cosi' due giorni insieme scambiandoci pensieri liberi, scherzando bonariamente con altri stranieri e i gioviali birmani, assaporando il frutto incredibile che porta il nome di durian, gustando il curry birmano dalle bancarelle in strada e le paste di roti indiane. La sua partenza verso un altro Paese del sud-est asiatico interrompe il percorso fatto insieme. Non dimentichero' facilmente Jens.

Kyungmi
L'incontriamo nella guest house di Yangon. Tarda mattinata, colazione abbondante alla birmana, Kyungmi si presenta con uno sguardo apparentemente pacato negli occhi a mandorla. Carnagione bianchissima -quasi immacolata-, calzoni viola di cotone leggero, maglietta e capelli neri che mandano oscuri riflessi ammaglianti. Viso delicato e leggermente schiacciato. I modi estremanente gentili e l'assenza di gestualita' si accompagnano ad un senso d'umorismo contenuto ma vivo ed una propensione allo scherzo. In combutta con Jens cominciamo a prendere in giro la ragazza di Seul facendole capire che conosciamo alla perfezione i caratteri dell'alfabeto birmano e altre lingue difficili. Per dare maggiore valore alle nostre asserzioni, Jens comincia a leggere un giornale di Yangon. Kyungmi ci offre un volto stupito ma non credulone, intercalando al suo inglese ragionato delle esclamazioni di intesa tipiche di alcuni popoli orientali.
La coreana ci racconta del suo Paese e sul viaggio in solitaria nel Myanmar; in modo tranquillo descrive limpidamente incontri e luoghi attraversati, aggiungendo aneddoti curiosi tipo quando ha ricevuto un passaggio da un carretto colmo di ceste di cavolfiori trainato da un cavallo. Il giovane sorridente carrettiere birmano non ha preteso alcun compenso.

Mi viene difficile descrivere, ma in quei momenti iridescenti di spontaneita' e' come se universi paralleli e spesso solitari intentino approcci di avvicinamento su basi comuni. Sentieri tortuosi carichi di millenni di cultura, nonostante e grazie alla globalizzazione, si congiungono per qualche goccia di tempo in luoghi terzi, lontani, inizialmente alieni e diversi. Periodi di ristoro per la mente ed il corpo. Ecco la potenza del viaggio quale agente di cambiamento e di conoscenza.

sabato 3 luglio 2010

Da Pattaya a Bangkok

Il signore seduto davanti a me ha le mani scure e forti. I contorni delle sue unghie sono marchiate dal nero, forse e' il lavoro in officina. Porta una camicia blu ed un paio di bermuda verdi colmi di tasche laterali. Si e' portato per il viaggio un sacchetto di biscotti ed una bevanda color rosso venduta in tutto il mondo non certo per le sue proprieta' qualitative. Chissa' cosa andra' a fare a Bangkok il signore con la camicia blu, mi chiedo mentre ai fianchi scorrono colline ricoperte di alberi, palme da cocco, bandiere cangianti della Thailandia e ombrelloni dei venditori ambulanti. Un cielo monsonico costellato da nuvole in continuo accavallamento tra loro si libra sopra le nostre teste; una incomprensibile straordinaria ordinarieta' mi si posa sugli occhi e su quello che guardano, come se viaggiassi all'infinito.


Ancora una volta in movimento dentro il mondo, qui, assaporando The man with the movie camera dei Cinematic Orchestra, seduto nei posti terminali del bus. Volo insieme alla chitarra cinematica anche se la mente e' occupata ad elaborare quello che ho visto in questi ultimi giorni. Per riassumerlo potrei citare ancora musica con un crudo e realistico pezzo di Frank Zappa, ma basta far scorrere lo sguardo in avanti di alcuni posti per incontrare il classico frequentatore di Pattaya: maschio occidentale, abbronzato e tatuato, canotta, calzoni corti, capelli rasati per nascondere inutilmente la calvizie, corporatura abbondante e pancia da birra. A suo fianco l'acccompagna una ragazza thailandese che avra' venti anni meno di lui. Tento un difficile lavoro di fantasia ma non riesco ad immaginarmi questo individuo nel suo paese di origine; cerco di pensare che impiego potrebbe svolgere con la maggiore cattiveria possibile ma e' inutile, il lavoro e' troppo una cosa seria. Dalla finestra del mio alloggio questa mattina vedevo uomini vagare soli come zombie, anzi, come vampiri da film di serie B che fuggono dalla luce del giorno per rintanarsi nei loro lussuosi alberghi dopo una notte di alcol e 'Amore senza amore' (G. Marquez) in qualche hotel dalle pareti sporche con lenzuola rammendate da buchi di brace di sigaretta.

Il bus scorre veloce sotto questo cielo paziente zeppo di nuvole, anche se presto dovra' arrendersi alla periferia di Bangkok, dove il traffico infernale della citta' degli angeli rallentera' fino quasi ad azzerare il suo incedere. Quanti passeggeri, quante speranze e quanta solitudine piu' o meno infangata dovra' ancora portare?

mercoledì 23 giugno 2010

L’esperienza del Lasciare

Prima di abbandonare qualcosa è sempre così. Breve, lungo, definitivo, temporaneo, durante le frazioni del vivere sono diversi i sedimenti da cui ci si distacca. Hanno importanza relativa il luogo, il momento o lo stato emozionale: quello che cattura significato è il lasciare qualcosa divenuto familiare.
Nelle imprese dei secoli passati, ma anche nelle migrazioni attuali, la sofferenza della separazione era la componente primaria che dava forma e memoria al viandante  attraverso terre sconosciute. Il viaggiatore antico veniva considerato un'icona eroica ma anche tragica perché la partenza prefigurava un distacco quasi definitivo, un abbandono ricco di solitudine e di metafore assolute. vag

Manca poco alla separazione e un senso di inadeguatezza mi colpisce a tratti, il distacco è prossimo e la mente fatica ad accettare il cambiamento. Il quotidiano e i comportamenti che soggiornano nella tiepida palude delle abitudini collidono con la certezza negata di non essere più qui, di aver scelto ancora una volta l'allontanamento. Eppure sono convinto che presto il movimento libero si impossesserà di me portando nel semi-oblio quello che è rimasto dietro, quello che solo le spalle potranno ancora -e per poco- rimirare. E poi il solco della strada farà il resto. Ma fino a quando il flusso non mi porterà via, questo periodo di mezzo dell'attesa e del disorientamento rimarrà tale.

Lanciarsi in avanti con la testa alta, guardando l'indefinito con curiosità, attendendo le ondate lisergiche e pericolose dello spaesamento, combattendo con la fatica che purifica e accogliendo porzioni di sconosciuto che veicolano significato, mentre l'afflato bollente e acidulo di una mattina tropicale penetra nei polmoni. Ecco, sono qui, di fronte ad una nuova avventura che si inserisce nelle matrici intricate del destino. 
Vorrei poter scrivere come Ch'oe Pu: 'Sono portato dall'aria, la terra galleggia sotto di me',  sì, vorrei farlo.

venerdì 23 aprile 2010

La potenza del viaggiatore

Guardando lontano
vedo la fine del mondo?
Ch'oe Pu

Da bambino facevo un gioco che consisteva nel portare quasi alla loro congiunzione le palpebre, ottenendo una visione del mondo esterno piuttosto sfocata, ai limiti dell'onirico.   “Siamo seduti sul lungolago della cittadina di Arbon, metà marzo”, asserisco, “Europa, fresco, chiesa con campanile affilato, case modello chalet, ordine e... destini spezzati da un oceano di nuvole veloci.”
Con una mano in tasca e l'altra stuzzicando le punte dei chiari capelli, Lena ascolta seguendo con occhi calmi gli scarni passanti di Frutillar mentre ciondolanti pick-up scivolano piano sull'asfalto: elefanti turbolenti che trasportano donne e uomini con sangue lontano e ricordi perduti dall'affaticamento di una nuova esistenza.
“Quando abbiamo finito i trastulli sullo spaesamento, perché non entriamo in un caffè?” dice Lena, per poi aggiungere con un sorriso divertito e corto, “solo che non ho franchi... vuoi dire che accettano pesos?”
“Proviamo in questo posto.”
Dalla finestra e attraverso il fumo limpido del caffè domino l'infinito lago Llanquihue. Sono giorni che vagabondiamo in osoqueste terre lontane, stregati dalle montagne, dai boschi,  dagli animali, incontrando persone socievoli e rispettose. Slegati dal  tempo e al di là del tempo, liberi dal giogo del fare a qualsiasi costo, affrancati dal raggiungimento dello scopo; ecco, così vogliamo trovarci ascritti.
La signora bionda del locale ci porta un vassoio di dolcetti fatti in casa. Nella tranquillità di questo caffè semivuoto di Frutillar, confortati dal caldo secco della stufa a legna, sento che presto Lena erutterà quello che aveva in mente durante il cammino.
Dopo un sorso di scuro liquido bollente, attacca: “Hai notato come la gente ci guarda quando capisce che siamo stranieri?”
“Qua siamo tutti stranieri.”
“Non proprio,” ribatte Lena, “credo che sia quella che qualcuno chiama 'La potenza del viaggiatore', un'aura costituita da mistero e conoscenza che accompagna colui che si muove libero.”
“L'ho notato spesso anch'io. E' il premio che a volte riceve il viandante dopo essere stato smascherato dalla sua non appartenenza ad un determinato luogo”. Aggiungo. “Un potere derivante dal fatto che viene da lontano, che può portare novità e creare nuovi legami, denaro e aria fresca.”
“Ma molto dipende dalla società di accoglienza, il grado di apertura, la sua ricchezza e la storia.”
“Molto dipende dal viaggiatore.”
Ancora una volta la grande vetrata della casa che pare appartenga ad un altro mondo ci propone la vista del vulcano Osorno. Oltre il lago Llanquihue, lontana ed isolata come un atollo tropicale, la montagna concede un profilo leggero, un'armonia inafferrabile; il vello candido di cui è rivestita e che quasi si tuffa negli abissi dello specchio che la sorregge,  probabilmente è stato intessuto durante i secoli per volere di un regnante mapuche, gli autentici abitanti di questi territori. I mapuches, gli araucani, loro sì.

La sera esco solo in una Puerto Varas ormai assorbita dal buio. Vago alla ricerca di un posto dove ingollare qualcosa di caldo. Sfioro senza fermarmi una serie di locali per turisti declinanti verso il lago; dribblo il pornografico casinò luccicante per entrare nella zona popolare della cittadina. In una stretta via scorgo un frutristorantino che, su una lavagna consumata dal tempo, ostenta una vistosa scritta: Oferta del día - Escalopa a lo pobre - 1800.  Senza pensarci sono già dentro. Il locale è carino ma ormai quasi vuoto perché ho fatto tardi. Ci sono solo due persone sedute ad un tavolo che stanno cantando, e uno di essi ha la chitarra. Mentre chiedo alla signora che esce dalla cucina se posso mangiare, subito i due uomini socializzano con me. Germán è il padrone del locale insieme a Julia, e Gerardo, che suona la chitarra, un amico della coppia.
A volte capita di stare sul bordo di un qualcosa e istintivamente leggervi in anticipo la situazione o lo svolgimento degli eventi; ebbene, ora ho la sensazione positiva, quasi lisergica, di un allargamento repentino dell'obbiettivo. Così, come una porta che si apre all'improvviso per trovarvi al suo interno un piacere inaspettato, vengo risucchiato dalla serata incosciente e spontanea. Con una birra luccicante davanti agli occhi e due persone ingentilite dal vino che alternano discussioni serie a sonorità appartenenti a Victor Jara, Parra e canzoni popolari oscene, la mia persona si introduce in un limpido antro di vita del Paese ospite; spettatore e partecipante unico di uno spaccato veritiero di un mondo caleidoscopico, felice di esserci perché incluso, accettato, portatore di qualcosa considerato speciale. La potenza del viaggiatore.

venerdì 5 marzo 2010

Il viaggio che purifica

Scorro verso il basso. L'immensa Panamericana si dispiega ancora, centellinando le sue più meridionali estremità e offrendomi visioni senza fine costituite da praterie, boschi di eucalipti intercalati da composti frutteti. Ho compiuto duecento chilometri e il paesaggio sta mutando: niente più agrumi, i quali cedono il passo al frumento e all'allevamento estensivo del bestiame. È sufficiente volgere il capo a sinistra per osservare lo scivolio costante di montagne sempre più innevate: ammiro a lungo il loro colore pieno, totale, cangiante, che le fa apparire ancora più imponenti.
Avvolto nella coperta azzurro-verde della Tur-Bus, questa mattina ho varcato la linea invisibile che mi ha condotto nella Región IX. L'Araucanía è qua attorno a me, dentro di me. “Eccomi”, mi sono detto con la fierezza potente di colui che è in movimento. Lontano dallo scopo, fuori dalla meta, alla ricerca di un qualcosa inafferrabile in continua evoluzione: la strada, l'alterità, l'io.  
Dopo un cambio nella assopita e squadrata Temuco, il bus Jac mi traghetta verso Pucón. Il momento si avvicina. Lo so, tra poco arriva... sì, adesso lo posso vedere.
Nonostante la preparazione, l'immaginazione viene ancora scavalcata in avanti dalla Natura: conico, perfetto, bianco dalle volc2 pendici fino al suo vigoroso culmine; una parte non meglio definibile della cima sbuffa pigre ondate di vapore tra le nuvole zuccherose che veleggiano alte. Assaporo l'impossibilità di descrivere meglio il vulcano Pucón e l'assenza di intelligibilità che esso offre: una imperscrutabilità a cui mi adatto serenamente. Credo di non aver gustato mai nulla di meglio.
Fuori dal Terminal degli autobus visito un paio di hostales economici,  optando per quello che mi ispira maggiormente. È gestito da una coppia notevole: lui biondo, appassionato, con cognome tedesco, lei è una peruviana dai modi cortesi e fini.
Esco quasi subito nel cielo punteggiato di bianco, nell'aria fresca leggermente aromatica della Araucanía. La cittadina è ordinata, con ville, case per turisti e il centro declinante verso il lago. Seduto sulla sabbia scura, in pace, stupefatto, ammiro il vulcano che si specchia nelle tranquille acque lacustri le quali sfidano vincenti la leggera brezza che circola impertinente. Tutt'intorno vigilano boscose montagne tinteggiate di un bianco lieve.

Il giorno dopo prendo un micro bus che mi conduce verso l'interno montagnoso. Il cielo porta nuvole umide dall'Oceano ma non concede loro la pioggia. Mi fermo all'imbocco di un sentiero. Ai lati ci sono statuarie catene montuose che preservano l'ampia valle ondulata, rigogliosa di boschi e prati. Chiazze di neve resistono nelle zone in ombra. Cammino piano osservando e annusando quello che mi circonda. Ora incontro pecore che strappano filamenti di erba giallastra, poi sparute case dai comignoli fumanti. Voltando il capo ritrovo la massa del vulcano Pucón: sembra che l'ancestrale silenzio soffiato nella valle sia impresso dalla sua presenza. Ancora qualche chilometro perpais sentieri e strade sterrate e raggiungo l'area delle pozze di acqua calda, los Pozones, semplici piscine all'aria aperta che racchiudono l'acqua proveniente dal sottosuolo.
Vago tra le pozze d'acqua termale nudo, solo, attraversando climi proibitivi ed incarnando alla perfezione le metafore del viaggio ma anche quelle della natura umana. Fuori c'è la neve morente, dentro, nell'acqua, la temperatura supera i quaranta gradi; due condizioni insostenibili che però riescono a compenetrarsi, due stati dove il corpo e la mente vengono messi alla prova. Dopo qualche immersione scelgo di rimanere fuori il più possibile, camminando lentamente tra le piscine vuote. Le braccia avvolgono spasmodicamente il petto tempestato dai brividi ma continuo questa strana e spontanea sfida con l'ambiente. Spogliato dai vestiti e dalle cose, con il luccichio dell'acqua negli occhi e la rifrazione della neve sul corpo, sotto il cielo e i monti dell'America australe, trovo parte dell'essenzialità perduta.
L'accogliente acqua manda odori sulfurei, di terra e minerali. Rivoli caldi confluiscono in un torrente di montagna ricco di pietre levigate. Tolgo le ciabatte dai piedi con difficoltà. Come in un battesimo risolutivo immetto la mia nudità tremante e randagia nel liquido vaporoso, ponendo termine alle sofferenze provocate dal freddo, per accoglierne altre.

martedì 9 febbraio 2010

Il cielo del viandante

“Buon giorno, ha un cuarto libero?” “Sì, per una persona.” “C'è il riscaldamento? Ah, è nel corridoio esterno...”
Le dodici del mattino e le iridi spaziano verso l'alto. Il cielo delle pianure d'America è sempre definitivo. Nuvole verginali come veli di fine tessuto esotico, filamenti rettilinei o incredibilmente contorti, onde anarchiche sparse a caso e lame perfette che tagliano il turchino intenso che veglia oltre con sicuro vigore. Conglomerati imponenti che sembrano prepararsi alla battaglia finale da un momento all'altro e minuti batuffoli vaganti solitari, in cerca del segreto profondo cieldell'aria. Gli occhi si perdono seguendo questa costante mobilità, cercando di assecondarla nelle sue evoluzioni, con poco successo. Anche in una giornata di bassa pressione con una cappa grigia sopra il capo è raro non osservare delle portentose combinazioni in cielo.  Ampi spazi, la Natura, venti e correnti, temperature e oceani contribuiscono a modellare la tavolozza che si trova sopra di me. Cirri maestosi, invadenti e sbeffeggianti dominano la panchina dell'alberata plaza de Armas mentre il disco solare mi abbaglia. Dopo essere uscito dalla stanza presso l'hostal Libertad sono qui, accucciato ad osservare il cielo ed il movimento cittadino. È una giornata soleggiata con temperature accettabili e l'aria frizzante odora di montagna.
Un ragazzino si siede accanto a me e mi osserva mentre guardo il cielo.
"Cosa stai guardando?", mi chiede.
"Le nuvole".
Dopo aver scambiato qualche parola mi domanda cosa faccio in questo posto.
"Viaggio", rispondo dopo un attimo di esitazione, in modo superficiale, quasi evitando di farmi carpire un segreto intimo e impossibile.
“E perché viaggi?”, mi incalza lesto il ragazzino con i capelli a spazzola la cui attaccatura scura quasi lambisce le folte sopracciglia che paiono tinte di lucido nero.
Incertezza. Se riuscissi, potrei rispondere come J. Donne 'Vivere in una sola terra è prigionia', oppure 'Fuggo dalla necessità e dallo scopo', come scrive Leed. Invece spiattello un semplice, tautologico e definitivo “Porque me gusta, oye(s)”.
Mi piace il tempo dedicato alla propria persona, l'uscire da ciò che definisce, l'adattamento e la lunga fatica che purifica, freddo-caldo-infinito e... incorporare la strada che si muove. Ci sarebbero molte altre motivazioni ma non posso raccontarti tutto questo, ragazzino, non riuscirei in questo momento e forse non capiresti subito. Sono attitudini intime, segmenti stratificati e profondi, vissuti, di difficile esposizione.
Il bambino lascia la panchina del centro di Chillán, Regione VIII.
Sono in continua e costante discesa; dal bus proveniente da nord ho visto in lontananza e sulla sinistra le cime innevate che costeggiano il confine argentino.
Nella piazza passano sferragliando furgoncini anni settanta, scolari in divisa, turisti locali che sotto la spavalderia celano l'eccitazione provocata dal tempo liberato e dal suo sapiente utilizzo, impiegati e qualche senza fissa dimora alla ricerca di vino economico.
Il mattino sta impregnandosi di giallo quando cammino veloce verso il mercato cittadino, dove partono i bus per le Terme.  Le giornate sono sempre più corte. Nell'automezzo mi fanno compagnia locali dai volti rugosi e seri, turisti in vistose tenute da volcsci e bambini rumorosi. Dopo mezz'ora di viaggio il panorama si ispessisce: oltre le colline troneggiano le Ande innevate. Mi  sveglio definitivamente per l'eccitazione quando, dopo una curva, appare in tutta la sua possanza il vulcano Chillán. Chiedo conferma all'uomo di mezza età dai tratti indigeni che è seduto accanto a me. Anche se viene leggermente celato da altre vette, è proprio lui. Una indistinta massa verde scuro composta da pini, cipressacee, faggi e coihues siede vigilante ai piedi del vulcano come rigogliosi totem indiani Mapuche. 
La strada asfaltata sale con costanza. Giunti presso un villaggio costituito da qualche casa e sparsi luoghi di ristoro, il bus si ferma per qualche istante. A lato dell'asfalto decine di uomini in pick-up aspettano le auto dei turisti per noleggiare loro le catene da neve. chill Il nostro bus sale veloce per il bosco dopo aver lasciato le ultime alte pianure a pascolo. Aria e cielo dell'Ovest entrano dal finestrino leggermente aperto davanti a me. Respiro forte l'aroma tonificante degli alberi fratelli mentre la strada mi porta in avanti ed in alto.

mercoledì 1 luglio 2009

Partenza

Partire è perdere
separarsi da qualcosa
partire è scomparire
smarcarsi
non esserci più.

Dopo un anno si riparte.
Ma prima ancora si avvia la strana capacità cognitiva che riassembla una serie di mattoncini che si congiungono tra loro in modo casuale; peduncoli di ricordi, pratiche e situazioni rimasti sessili lungo una manciata di mesi.

Evviva, la Potenza del Viaggio chiama, ora è impossibile tornare indietro.
In pochi istanti salgono alla mente una babele di sapori, suoni, sensazioni, odori, ma soprattutto l'impellenza di essere sul bordo di ciò che abitualmente mi definisce per tuffarmi di colpo nell'alterità autentica e più ricercata. I gustosissimi frutti che portano il nome di rambutan, i durian, il caldo infinito, la gente, l'adattamento, la fatica... sono ora dissepolti.

Adesso posso entrare nel flusso lisergico del viaggio per perdermi dentro me stesso, ritrovandomi diverso ed un poco rinnovato. Ogni partenza significativa appare come la ricapitolazione di una storia personale.
E poi il movimento, sì, lo spostamento nello spazio che ringiovanisce.

Il saggista statunitense John Knowles scrisse nel 1964, dopo una lunga esperienza in Europa: "L'ultimo rutto d'America s'era spento sul margine esterno della Laguna veneziana e mentre mi muovevo sul mare Adriatico fermo, appesantito dal sole, me n'ero proprio andato. Era una sensazione di rinnovamento, anche dolce, come un ritorno a una primissima giovinezza; c'era una sensazione di mattino, e addirittura di innocenza."

E' proprio così, un mattino dolce, venato a volte da tratti lattiginosi di acidità e di sudore, è alle porte.
 
Creative Commons License
Travel Viaje Viaggio Voyage by Dr. Stefano Marcora is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at travel-ontheroad.blogspot.com.