venerdì 24 dicembre 2010

Buio su Bangkok

Zampe. Il bus ci porta celermente in avanti, nonostante l'oblio offuschi la destinazione. Una certezza sbilenca mi sussurra che il viaggio sara' inspiegabilmente tranquillo e veloce; niente forature di gomme, nessuno stop forzato presso ristoranti bollenti, basta fermate ogni venti metri per raccogliere qualche distratto passeggero. Dai vetri polverosi arriva una balugine di informi panorami tropicali: il Myanmar, credo.  Mentre ondeggio sento raschiare sulle assi di legno. Sono zampette.
Gli occhi si aprono e, nell'oscurita' rischiarata dalle mille luci della metropoli, vedo due forme allungate che si trascinano sul molo di legno annusando in giro con prudenza. Topi. Erano loro che accompagnavano il mio dormiveglia. Il tempo è scivolato sulle braccia, sopra la maglietta, sul corpo magro, per trattenersi intorno alla bottiglia di vino di riso. Affascinata dall'incedere lento del Chao Praya, quest'ultima rimanda ovunque frammenti di abbagli provenienti dal manto caleidoscopico del fiume, e da tutto l'universo brulicante che le si affastella ai lati e sopra, come un codice Morse luminoso conosciuto a pochi. Alzandomi da questo luogo che fa parte delle intime abitudini, raccolgo la bottiglia vuota e la rimetto nel sacchetto di plastica.
La citta' che non riposa mai mi accoglie nuovamente con le sue auto veloci, i tuk tuk ed i bus provenienti dal nulla con i numeri sbiaditi. Cammino per una quasi fresca Phra Athit alla ricerca di un locale dove mangiare. Bar e ristoranti costosi si intercalano abkk b minimarket e a venditori ambulanti. Scavalco luci e luci per ritrovarmi di fronte al locale dell'altro giorno: una stanza scarna con pareti macchiate dal tempo colma di tavolini che dall'interno rigurgitano sulla strada. Anche se è pieno di avventori all'inverosimile dico al gestore che vorrei mangiare. Mi accomodano presso un tavolo già occupato da tre persone; i due ragazzi e la ragazza mi sorridono accondiscendendo con grazia orientale, poi riprendono a cibarsi.
Quando la grossa ciotola di zuppa di noodles di riso viene posizionata di fronte a me cominciamo a intessere un diluito discorso. Sono tre malesi di origine cinese che vivono da generazioni a Penang. La ragazza, Lin Lin, affascinante, ha una carnagione così bianca che pare non abbia mai incontrato raggi solari. Wende, uno dei due maschi, emana dagli occhi sfuggenti una conoscenza profonda. L'altro componente del terzetto è piuttosto allegro causa probabilmente le birre sparse sul tavolo. Anche loro camminavano nella notte in cerca di qualcosa e hanno trovato questo posto frequentato da thailandesi.
Ad un certo punto il tipo più vivace propone di andare a Patpong. Lin Lin annuisce spostando occhi interrogativi da Wende in mia direzione.
“Va bene”, dico in rimando, posando orizzontalmente i bastoncini sui bordi della ciotola.
Conveniamo tutti che è meglio prendere un taxi, data la tarda ora.
Voliamo nel buio, e dai vetri cristallini dell'autovettura la Citta' degli Angeli ci scorre dentro, col traffico che finalmente inspira la meritata boccata di pace. I negozi del quartiere cinese, le bancarelle dei mercati diurni, le jeep dei militari, l'architettura del luogo, accettano, o meglio, si abbandonano alla tregua come le pause notturne durante la guerra di trincea.
Lin Lin e il ragazzo allegro soffiano dalla bocca note di una musica lontana mentre Wende li guarda a tratti sorridendo lievemente. Non riesco a svelare le sensazioni che provo in questo particolare momento: è come se la mente venga afferrata e liberata dalla mutevolezza, come simultaneamente straniarsi e sentirsi parte di un tutto inintelligibile, nuotare solitari nel mare infinito che ad ondate casuali incorporerà.
Intanto le insegne abbaglianti dai colori pornografici si infittiscono, certezza che siamo in prossimità di Sala Daeng. Davanti a noi, e sotto la vigorosa struttura di cemento armato dello skytrain, attraversano la strada due occidentali seguiti dalle loro amiche thailandesi.
Proprio qui nel taxi, con il sottofondo vocale dei compagni di viaggio, nel buio rischiarato a giorno di Patpong, e nell'oceano burrascoso dell'identità mutante, percepisco che la tessitura dell'instabile familiarità si rafforza.

martedì 7 dicembre 2010

Bangkok, la sera

La citta' stende le sue lunghe ali, e con la rapidita' di una nuvola solitaria che offusca il sole, la sera raggiunge Banglamphu. Ancora una volta il fiume torbido, e gli alberi, e le case, respirano la liberazione dalla luce. Esseri umani, uccelli e gatti dal pelo corto si muovono con maggiore audacia, quasi indotti da una forza esogena che rinasce ad ogni tramonto. Neon pacchiani dei locali e di negozi cominciano a prendere vita, illuminando volti e membra sudate che percorrono l'asfalto. Il nuovo crepuscolo saluta l'infinita Citta' degli Angeli: paradossalmente e' l'eclissi, e l'inizio della giornata.

Mentre camminavo con Jens a Yangon downtown, tra marciapiedi sconnessi, rifiuti, folla e strade urlanti, tentavamo di rivelare lo straordinario effetto che aveva il cadere del sole tropicale sugli esseri viventi. Era come il svegliarsi al mattino sopra un letto fresco, ricevere una doccia purificatrice, inspirare profondamente, vedere e sentire il mondo con vista e udito diversi, rinnovati. Dopo una giornata bollente questa catarsi la si percepiva ovunque, negli angoli o nelle case, negli uomini e nelle strade. In tutta la sua indecifrabile pienezza.

Sono appena sceso dall'alloggio dalle pareti di cartongesso che odora di muffa. Oggi ho visitato uno dei mercati della frutta sotto un cielo caustico, percorrendo chilometri di strade e vicoli, quindi, costeggiando il canale, una grande arteria mi ha condotto allo stadio nazionale e alla zona commerciale. Case basse e venditori ambulanti prima, chilometri di palazzi di vetro e acciaio e negozi di lusso dopo. Le ore più calde mi hanno visto vagare in un mall immenso, quasi spaesato dal miscuglio di prodotti occidentali e orientali, ringiovanito dall'aria condizionata. Nel bus 15 che mi riportava a Banglamphu tra il traffico pauroso, percepivo me stesso odorante di sudore, fritture e durian.

Bangkok, la sera, mi accoglie con buio fresco, con i passanti eccitati pronti a togliere ancora una volta la verginità alla notte smisurata e generosa. Percorro la strada piena di chiassosi ristoranti per turisti, carichi di prodotti siamesi in salsa occidentale dal prezzo astronomico rispetto agli standard locali. Il viso inespressivo oltrepassa venditori di magliette, di BBK eveorecchini, di software pirata, spacciatori, cambiavalute, ATM, lavanderie e mille altri ambulanti. Rifulgo da quell'abbaglio per immergermi in un vicolo solitario e male illuminato che porta verso il fiume Chao Praya.
Dopo essere uscito da un negozio con una bottiglia di vino di riso, tra l'andirivieni di gente di ogni sorta scorgo una ragazza dai  capelli chiari seduta sui gradini di un negozio. Scambiamo alcune parole mentre lei mangia degli involtini fritti appena acquistati da un ambulante, poi ci alziamo e ognuno segue la sua strada.
Veloce sulle infradito attraverso il ristorante di lusso col mio sacchetto di plastica contenente la bottiglia stappata, e finalmente vedo il fiume.
Bevendo lentamente sono qui seduto sul molo di legno che di giorno accoglie le barche del trasporto pubblico cittadino. Gli occhi riverberano lo specchiare delle luci sul fiume: fanali di auto che attraversano il ponte, finestre di palazzi e grattacieli, fari di rimorchiatori e di battelli traboccanti musica della crociera notturna. Il fiume invece è come sempre silenzioso, e dove non è costretto a riflettere bagliori alieni rimane oscuro, impenetrabile, solcato da piante acquatiche provenienti da lontano. Ondeggio con lui, immergendo i pensieri nel suo liquido vagabondo, inspirando la brezza che gli scivola sopra, e assumendo ancora alcool di riso. Non ho ancora deciso dove andro' a cenare: forse in quel locale sempre pieno di thailandesi dalle parti della Phra Athit, oppure mangero' qualche sostanzioso curry di riso sulla strada.
Rimango nel buio della notte, a un soffio dal fiume, cercando inutilmente di disvelare i segreti profondi della Citta' degli Angeli, l'immenso fascino celato sotto la patina volutamente multicolore e caramellata che offre allo straniero. Una seduzione, una saggezza che appena riesco a lambire.

giovedì 18 novembre 2010

Una mattina a Bangkok – parte due

Le infradito raschiano lievemente le piastrelle consumate del Ratchadamnoen Klang; il viale immenso termina da qualche parte nell'orizzonte composto e umido. Attorno sfilano passanti, taxisti in attesa di lavoro e qualche turista che si avventura fuori dai recinti ordinari senza un mezzo a motore. E poi c'è il traffico delle nove sopra una strada dalle mille corsie. Se non fosse per lo sciamare compulsivo di veicoli, questa zona della citta' sarebbe davvero piacevole, quasi perfetta: sulla destra l'università, il teatro e in lontananza il Palazzo reale, alle mie spalle il fiume carico di limo e piante acquatiche, davanti ancora monumenti. BKKIn  alto il monsone sfavilla nuvole placide che migrano verso nord.
Mi passo per l'ennesima volta la mano sulla fronte per allontanare sudore. Numero due. La prima traspirazione è arrivata quando facevo colazione, nonostante il ventilatore acceso sopra il capo; bevevo caffè tiepido e lì, dietro, sotto la maglietta, centinaia di goccioline convergevano in rivoli caldi che percorrevano la schiena per accumularsi nella stoffa dei pantaloni.
Ad una fermata del bus gli occhi cercano il numero 79. Nulla. Proseguo alla successiva trovando sul consunto cartello metallico quello che cercavo. Mi siedo su una panchina accanto ad un ragazzo, mentre decine di persone aspettano pazientemente i mezzi pubblici. Il giovane indossa calzoni neri attillati, camicia scura sovrastata da una vistosa collana d'oro, scarpe di tela; un ciuffo di capelli lisci copre buona parte della guancia brufolosa.
“Scusa, ogni quando passa il 79?”, chiedo.
Il ragazzo prima di rispondermi muove leggermente il busto in segno di disagio. “Ogni quindici minuti... più o meno”, dice timidamente.
Dopo poco arriva il mio bus arancione, prendo posto e attendo rilassato la bigliettaia con calzettoni corti e gonna blu di ordinanza. Quattordici baht. I passeggeri mi osservano per qualche secondo, poi riprendono a toccare il cellulare o a guardare fuori dal finestrino godendosi la temperatura all'interno del mezzo. Nessuno lo esprime esplicitamente quasi fosse un segreto profondo, ma sotto gli occhi dei viaggiatori riconosco il piacere dell'attimo, catturo la gioia di esporre pelle, vestiti, tutto, alla catarsi dell'aria condizionata.
Dal vetro le mie iridi salgono sul Monumento alla democrazia che si perde nel cielo indefinibile, toccano i contorni del Forte, il ponte sul canale, per poi percorrere la Lan Luang road.
La Citta' degli Angeli mi entra sempre con maggior forza come una oscura e tossica pozione; se dovessi analizzarmi assisterei dentro alla mente ad una battaglia selvaggia tra l'istinto liberatorio di abbandonarmi alla metropoli e la volontà programmatica che attinge da qualche insulsa razionalità. Perché non farsi trascinare dal mezzo in posti sconosciuti, alieni, in quartieri impossibili e magari ostili? Perché non perdersi in labirinti vergini all'occhio del viaggiatore?
Scendo alla fermata, attraverso una strada ed incontro quello che cercavo. Costeggiando parzialmente un canale alberato, a cavallo tra l'area storica e quella commerciale di questa immensa citta', ifruitl mercato della frutta mi si apre davanti. Mangostine, longan, banane, dragon fruit con polpa rossa e bianca, dolcissimi chirimoyas, manghi, avocado, noci di cocco e decine di altri frutti sono perfettamente allineati sulle bancarelle brulicanti di clienti. Giro tra gli stretti vicoli interni del mercato osservando, comparando i prezzi, perdendo tempo senza perderlo.
Fin da questa mattina, quando stavo disteso sul letto della stanza dalle pareti di cartongesso ipnotizzato dalle pale del ventilatore, programmavo di acquistare ad un costo ragionevole il re dei frutti tropicali, quello per cui vale la pena affrontare asfalto ed umidità.
Presso la bancarella che ho di fronte trovo cio’ che desideravo: un robusto giovane con guanti e grembiule rinforzato, munito di coltelli ed una specie di machete, mi mostra con orgoglio la montagna di spinosi durian che ha alle spalle. Mentre faccio pesare, stimo, annuso, alcuni passanti osservano incuriositi questo straniero piovuto dall'effimero con la maglietta inzuppata di sudore, disperso in un lontano mercato della Citta' degli Angeli; osservano il suo contrattare, il sorriso determinato, l'espressione del suo volto quando assaggia il loro frutto più intimo. Il durian impossibile.

domenica 31 ottobre 2010

Una mattina a Bangkok – parte uno

Nella Citta' degli Angeli la mattina arriva troppo in fretta. Apri gli occhi con il buio, rigiri il corpo magro nel duro materasso ed è già giorno. Le ore di luce mattutine che ti getta addosso il quartiere Banglamphu sono sempre silenziose, quasi a compensare gli eccessi della notte in una città molto generosa con gli uomini. Questo peduncolo di verde, hotel e case attaccato al Chao Praya river è come una cittadella proibita rimasta intatta agli algidi bombardamenti di aerei stranieri portatori di una loro democrazia, intonsa alla corrosione di un tempo che ha per unica arma la pazienza. Fuori Banglamphu, mostruose e gonfie arterie colme di metallici marchingegni si sfidano a vicenda affondando nell'afa per condurre da qualche parte persone e cose; linfa corrosiva e forse necessaria che avvolge e ancora avvolge. Dentro Banglamphu, regna il silenzio del feroce sole crescente, ammorbidito da nuvole monsoniche. Precisamente, nella piccola stanza dalle sottili pareti di cartongesso, un rumore costante mi circoscrive. Osservo le instancabili pale del ventilatore muoversi sotto il soffitto macchiato, un cerchio ipnotico il cui suono si e' fissato nel cervello fino ad annullarlo consciamente, dopo averlo incorporato tutta la notte. Rumore corrosivo ma necessario.
Dal soffitto sposto lo sguardo alle lenzuola che non coprono il corpo nudo: sono lì su un lato del letto solitario, spiegazzate, rattoppate dai buchi di brace di sigaretta, gialle a furia di lavaggi, quasi inutili. Solo verso l'alba, quando la temperatura si avvicina a qualcosa  che assomiglia vagamente alla passabilità, esse vengono cercate e magari posizionate sui piedi. Specularmente a quando il sole tramonta, le ore che accompagnano il sorgere del sole sono quelle del ristoro, dell'anelato impossibile fresco.

Sono sbarcato ieri pomeriggio nell'umida stazione dei bus di bkkEkkamai dopo un lungo viaggio proveniente dalla costa interna,  salito sullo skytrain, poi il familiare bus 15, Banglamphu. Niente tuk-tuk o taxi come fanno i turisti. Quando il giallo pallido del tramonto stava cedendo gli ultimi colori pastello alla notte entravo in un hotel economico dalla facciata pomposa, contrattavo il prezzo dopo aver dato un occhio alla camera e mollavo i polverosi bagagli. Poi fuori per acquistare una Leon e rambutan.

Allungo il braccio verso il comando del ventilatore per abbassare di un punto la velocità, tanto per ammorbidire la sua presenza sonora. Ora dalle pareti mi arriva il tossire della persona che dorme nella stanza accanto; da qualche parte una porta si chiude.  Alla mia sinistra -vicinissima al letto e sopra un mobiletto- vedo una piccola televisione sulla quale ho appoggiato lo spazzolino e il contenitore del sapone, monete, la chiave del lucchetto. La bottiglia dell'acqua è accanto all'elettrodomestico a cui ho staccato la spina. Sulla porta d'entrata è appeso l'asciugamano odorante di muffa e la maglietta che uso durante il giorno; i calzoni e lo zaino piccolo sono infilati nella cornice sporgente dello specchio accanto alla televisione. Precisamente, bisogna ottimizzare lo spazio. La borsa è ai piedi del letto accanto alla guida, l'usurata mappa della città, una birra vuota e le infradito. Il bagno si trova oltre la parete del letto; l'altra volta era fuori dalla stanza, ma non aveva importanza, ero e sono qui, nella Citta' degli Angeli.
Saranno le otto passate e fuori si ode qualche sporadica moto e nulla più oltre ai canti dei galli e il richiamo di qualche uccello dietro le mura di un monastero alberato.
Rimango ancora un tratto disteso osservando senza vedere la stanza, infilando pensieri raminghi e assaporando il fresco accumulato durante la notte; tra poco mi alzerò per raggiungere quello sconfinato viale che mi porterà fino in fondo alla Lan Luang road, sotto un cielo opalescente. Sono tranquillo perché qualsiasi ora mi alzerò sarà sempre troppo tardi e troppo caldo.

giovedì 7 ottobre 2010

Smarrimento a Da Lat

Scendo quasi spingendo il ragazzo che ci accoglie all'arrivo. E' sempre cosi'. La compagnia dei bus si accorda con l'albergatore per fermare il bus di fronte all'hotel. “Mafia connection”, dico a un coppia di inglesi che avrebbero voluto scendere in centro citta'. Loro emettono un paziente sorriso di intesa. Raccolgo la borsa tra le decine gettate per terra dall'addetto del bus e mi incammino alla ricerca di un alloggio, senza rispondere a taxisti e  procacciatori ansiosi. L'aria degli Altopiani centrali gia' mi elettrizza.
Questa mattina mi sono alzato presto, ho contemplato con un alito di nostalgia le calme onde del mare pensando a nulla, poi ho fatto un cenno di commiato verso quell'acqua venata da obliqui raggi solari.
Il bus scorre tra coste sabbiose e rocce nere che si inumidiscono nel mare Cinese. Vento caldo entra dai finestrini spalancati. Case di mattoni e hotel si strofinano nello specchio degli occhi senza rimanervi, mentre l'udito incontra il ritmo reiterato di All Things dei britannici cinematici. Cominciamo a vagare tra colline spelacchiate, abitazioni di paglia e bambini che tornano da scuole invisibili, respirando polvere illuminata da feroci raggi solari. Dopo un'ora il bus imbocca una pista squinternata dal monsone, dove l'asfalto e' uno spurio ricordo del passato; percorriamo altopiani carichi di storia e di guerra recente. Mille colline solcate da torrenti chiari accolgono il nostro mezzo, mentre la pianura  lattiginosa si allontana. Per lunghi tratti quasi ogni spazio verde -Aroudalatanche quello più in pendenza- è sfruttato, coltivato, raso al suolo dagli uomini-cavalletta di questo Paese. Sembra una corsa virtuosa ad eliminare l'ultimo filo di Natura libera. Scuoto il capo sconsolato.
Come in un gioco che non è gioco vengo presto smentito da una serie di catene montagnose rivolte verso ovest coperte da conifere: forse un parco nazionale. Salendo e spostandoci lontano dalla costa, agguerrite barriere nuvolose ci vengono incontro, donando refrigerio e qualche sporadica ondata di gocce sottili. Oltre una piatta collina scorgo porzioni di Da Lat. “Crepa caldo”, dico a me stesso, aggiungendo qualche parolaccia che filtra tra le labbra lunghe di sorriso.
Percorro veloce strade pendenti prima di trovare un alloggio. L'hotel è pieno di turisti locali, probabilmente una grossa comitiva. La signora mi mostra una stanza all'ultimo piano con bagno e acqua calda. Per abitudine cerco con gli occhi il ventilatore.
“Sarebbero sette dollari ma”, quasi anticipando una mia richiesta di ribasso, “ti sconto un dollaro”. Annuisco senza parlare.
Dalla camera vedo palazzi coloniali, case alte e aguzze, hotel, antenne; in là scorgo puzzle di colline spruzzate di verde, solcate da profondi e invisibili torrenti. Il sottofondo dei clacson perenni Da Lat che proviene dalla strada perfora e rimbalza su informi strati di nuvole grasse di umidità. Esse si muovono lentamente, quasi in accordo tra loro: prima le fasce più basse, quelle maggiormente rarefatte, poi quelle intermedie e quindi le nubi superiori che offrono una cappa impenetrabile. Una mandria affiatata nella loro scomposizione.
Mentre mi preparo per uscire, un lieve stato confusionale avvolge la mia mente. Lavandomi le mani, toccando la salvietta, intuisco che qualcosa di significativo è cambiato attorno a me; in quel lampo di mezzo che precede la soluzione, un istante prima di arrivare al motivo, mi sento strano: le abitudini di sempre sono declinate in maniera diversa causa qualcosa di incomprensibile, differente dall'ordinario, lontano ma al contempo familiare. Tocco il metallo dell'orologio e lo percepisco fresco... Ecco, tutto si risolve. Un palpito per rendermi conto che il cambiamento, la diversità, era veicolata semplicemente dall'abbassamento di temperatura. Eppur in quell'attimo lungo uno schiocco di lingua, dopo mesi scolpiti su un mondo bollente, con il sudore cucito all'epidermide, ritrovo a sorprendermi per una serie di cambi di sensazioni che avvolgono la mia persona.
Ma ora è tempo di uscire. Fuori qualcosa di nuovo è in attesa.

martedì 7 settembre 2010

Il pianeta Birmania

In Myanmar pare di toccare un pianeta lontano in cui il tempo scorre con maggior lentezza, dove gli orologi camminano piano quasi fossero fermi; un mondo a se', isolato nella sua ricchezza culturale.
Ancorati al suolo paiono i pochissimi aerei dell'aeroporto di Yangon, rarefatte auto private circolano in una citta' che conta diversi milioni di abitanti, sparuti i turisti che si muovono insicuri lungo strade soffocate dal rumore, osservati da timidi birmani quasi fossero merce preziosa e finita. Un paese quasi senza pubblicita', dove le multinazionali sono presenti ma tengono un  basso e sporco profilo per non indignare l'opinione pubblica internazionale, scarsi i cellulari, i PC, le televisioni e altri oggetti di consumo piu' o meno superflui.
Uscendo dalla citta' il pianeta dal tempo rallentato mostra il meglio di se' con una campagna antica e la tecnologia quasi campagna sconosciuta; in cambio la simbiosi dell'individuo con l'ambiente si percepisce in tutta la sua pienezza. Muovendoti vedi animali ovunque, spazi verdi e cerchi di immaginare le foreste primarie che il regime dittatoriale ha cancellato per sopire la sua infinita sete di denaro.
Nel treno, in bicicletta, a piedi, sulla strada polverosa, incontri persone incantevoli con desiderio di parlare, curiosi della tua provenienza, delle destinazioni e di quello succede al di fuori del loro Paese. Trovi uomini in longyi dal continuo masticare e sputare saliva rossa di betel, quasi a marcare un territorio conteso; ricordo un mototaxista in lunga attesa di clienti che uomoaveva attorno al suo mezzo una serie impressionante di fresche macchie rosse. Incroci donne magre dal volto e le braccia coperte di bianco leggero della pasta di palma che tonifica e protegge la pelle dai raggi solari, trasportando pesi sul capo. Vedi bambini giocando a biglie, bambini lavoratori in cerca di un sorriso e approvazione.

L'utima traccia dal Myanmar la dedico alla signora dagli occhi navigati che mi ha accompagnato alla guest house -chiamando un riscio' a proprie spese- attraverso una Yangon downtown allagata di buia pioggia torrenziale, alla signora della bancarella del cibo che forse mi attendeva da un destino infinito. Il pensiero conduce al taxista di Yagon con una sola estraibile manopola per i quattro finestrini del suo violentato mezzo; lungo il tragitto si e' fermato, ha acquistato da un ambulante betel e sigarette sfuse e poi, prima di rimettersi alla guida, mi ha offerto la sua spesa.
Non riesco a dimenticare il ragazzo timido seduto accanto nel bus per Taungoo: dopo avermi spiegato con estrema purezza il suo lavoro di piantatore di riso ha espirato con dolce calma: "Nel mio Paese non esiste democrazia".u beins
In questa isola paziente dal tempo rallentato ricordo il lavoratore di metalli preziosi con il quale era impossibile non essere felici in sua presenza. Ricco di solarita' virulenta racconta della sua Mandalay, dei figli, di tutto; ad un certo momento, forse confuso dal caldo, con un sorriso straripante afferma che potrei essere un perfetto attore cinematografico.
Sempre in Mandalay ho conosciuto una manciata di giovani monaci i quali mi hanno invitato a visitare il loro monastero e  i locali dove vivono. Nel semplicissimo dormitorio, seduti per terra bevendo the tiepido, hanno spiegato i loro studi di lingue straniere, la loro sete di conoscenza e la volonta' di appartenere ad un mondo piu' vasto.
Il pensiero finale lo dedico allo studente di Yangon che mi ha aiutato a districarmi tra la babele di bus arrugginiti della metropoli e poi, non contento, ha insistito nel pagarmi il biglietto.
Per queste persone e molte altre incrociate in un destino ramingo desidererei che il tempo mutasse, vorrei per loro minuti con forma e spazi diversi. Nello stesso momento -e per contrappasso- percepisco l'urgenza di conservare piccoli respiri di aria salutare del pianeta dal tempo rallentato.

sabato 28 agosto 2010

Sensi in Birmania

Occhi vigili. Passi lenti ed accurati, evitando le buche, i marciapiedi sconnessi e le cose sbattute sul cemento bollente macchiato di rosso. E poi mucchi di terra, ammassi di rifiuti, deiezioni di animali, vecchie infradito solitarie. Quando le bancarelle di uno degli infiniti mercati si spostano da una strada, pare che gli scarti siano maggiori della merce venduta.
Vista acuta quando attraversi la strada: taxi-camion-riscio'-bici-moto-jeep-carri sono piu' grossi e non si fermano davanti ad un pedone. Occhi che si appannano di fronte alla miseria, occhi che ridono incontrando un birmano.

Respiro tenue. Aria che alita di spezie e fritture mischiata al fumo degli incensi e alle diverse tonalita' cromatiche sputate dai tubi di scappamento dei motori. Nelle citta' lo smog entra in piacevole sinergia con sudore e crema solare, annerendo velocemente i bordi dei vestiti a contatto con la pelle. Respira piano e cerca di distrarre l'olfatto quando si fanno strada odori sgradevoli e ventate di caldo torrido che stordiscono; invece assorbi l'aroma delle piante in fiore, delle corolle di gelsomini da offrire al Buddha, dell'erba tagliata e dei profumi di donna. La passione fa avvertire la presenza di alcuni frutti prima ancora di catturarli con la vista.
Impegnati sempre nella sfida per riconoscere la processione interminabile di odori che costantemente vengono incontro: e' una battaglia lunga ed impossibile.

Gusto tenace. Comincia con gli aromi facili ed immediati come l'ananas e il dragon fruit: la soddisfazione e' immediata anche se -come in un'amore veloce- poi rimane ben poco. Ora si sa' dove vado a parare: limbo, paradiso e purgatorio. Il naso lo rifiuta con moderazione, la lingua ed il palato istintualmente vorrebbero scacciare la sua polpa molle. Ma poi arriva il gusto, travolto da una pienezza incontenibile. A differenza dell'avocado che riserva il maggior piacere con il retrogusto, il finale del durian non puo' che discendere la volutta' iniziale. Probabilmente e' impossibile descrivere le fasi di un frutto che non conosce vie di mezzo, che da altezze impensabili, nel giro di un nanosecondo, conduce attraverso incomprensibili e fugaci paludi.
Il curry delle bancarelle di strada riservano piacevoli sorprese, come la zucchina amara cotta con altre verdure e speziata con aromi dolci, le erbe fresche raccolte nei campi che accompagnano la zuppa di noodles di riso, verdure rotonde simili a piccole melanzane bianche che pizzicano il palato quasi fossero piccanti. La bocca gioisce gustando gli spiedini di verdura e carne cotti al momento e non rifiuta lo zucchero che viene abbondantemente versato su un caldo roti.

Udito paziente. Udito che vorrebbe cancellare il fracasso proveniente dalla strada. Clacson immortali con decine di tonalita' diverse ma con una costante: la potenza del suono. Pensi che dopo qualche settimana riuscirai ad accettare il concerto di voci, musica sparata al massimo volume, rombi di motori piu' o meno diroccati e le trombe delle auto. Invece no. Soprattutto in citta' e lungo le arterie stradali, l'udito deve farsi piccolo, insensibile, rilassato.
Raccolgo voci di ragazzi che cantano solitari mentre camminano, gli imbonitori nei mercati e sui treni, voci di bambini viziati e di piccoli senza casa. Suoni di ciabatte strofinate sull'asfalto, cammino leggero di cani randagi liberi, passo potente dei pacifici bufali e ruote di bicicletta che rosicchiano la terra battuta. Gridi di uccelli alieni e vento tra le foglie di palma.

Tatto leggero. Tocca il fresco gomito della statua del Buddha, percependo le migliaia di mani che ti hanno preceduto, i sudici corrimano del bus, le tavole di legno del sedile della classe Ordinary e la maniglia della porta di un devastato gabinetto pubblico. Le mani ed i piedi sudati si coprono di polvere e inquinamento durante un viaggio; percepisci i polpastrelli unti e secchi contemporaneamente, vedi unghie e caviglie che diventano nere, il viso e' una maschera dura. Acqua. Gocce di doccia fresca e purificatrice.
Sento il pavimento dei templi e rimuovo le decine di minuti passati in una notturna Yangon allagata con l'acqua piovana sopra le caviglie ricca di ogni sostanza vagabonda e con i buchi dei canali di scolo invisibili. Accarezzare gatti dal pelo corto e il tronco di un grande albero. Portarsi la mano sul viso per allontanare l'eterno sudore, sbadigliare tenendo le dita scostate dalla bocca.

domenica 22 agosto 2010

Viaggiatori solitari in Myanmar

Jens
Alto, magro, pantaloni azzurri, scarpe da ginnastica e maglietta larga a righe. I capelli biondi lisci, accompagnati da occhi chiari e bonari, lo avvicinano alla figura stereotipata di un Gesu' televisivo. Passiamo dodici ore di bus da Bagan a Yangon separati da pochi sedili senza dirci una parola, senza un segno di saluto o intesa. Solo sguardi veloci destinati a studiarci a vicenda.
Alle quattro del mattino l'autobus raggiunge la polverosa stazione della grande citta'. Scendo stralunato con l'intenzione di prendere un altro mezzo per la costa ovest ma mi viene spiegato che devo recarmi presso un altro terminal; questa notizia -insieme alle previsioni del tempo ricevute il giorno prima- mi fanno abbandonare temporaneamente l'idea primigenia. Con gli occhi impastati scorgo Jens accompagnato da una ragazza orientale che stanno ancora contrattando il prezzo per un taxi. Mi avvicino al gruppo di taxisti che circonda i viaggiatori. Senza troppi convenevoli partecipo al ribasso del prezzo, arrivando ad una accettazione da parte di un conducente.
Voliamo veloci sopra una metropoli buia gia' fertile di persone in attivita', scambiandoci appannate parole nel deserto del silenzio dominato dal rombo del motore dell'auto. La ragazza si ferma in un hotel di medio livello, noi scendiamo vicino ad una guest house economica.
Ci conosciamo davanti ad una tazza di te' addolcito dal latte condensato, mentre la luce del nuovo giorno si insinua tra i palazzi decandenti e ammuffiti di una Yangon monsonica. Le domande scorrono fitte, con parole coincise che tentano efficamente di arginare la stanchezza. Jens e' uno studente prossimo alla tesi in una famosa universita' del sud della Germania. I suoi studi, ma soprattutto gli interessi, lo hanno condotto ad una esperienza di alcuni mesi in Cambogia. Ora viaggia accompagnato dall'inseparabile zaino che non raggiunge il peso di sette chili. Ecco il suo bagaglio e la sua liberta'.
Dopo poche frasi e qualche battuta scherzosa scorgiamo una amicizia predestinata, un'intesa senza tempo velata di inevitabilita'. Lui mi parla della Cambogia, della spazzatura distraente che manda in onda la televisione di regime del Myanmar e della sua tesi. Gli racconto di qualche viaggio e del mio lavoro.
Passiamo cosi' due giorni insieme scambiandoci pensieri liberi, scherzando bonariamente con altri stranieri e i gioviali birmani, assaporando il frutto incredibile che porta il nome di durian, gustando il curry birmano dalle bancarelle in strada e le paste di roti indiane. La sua partenza verso un altro Paese del sud-est asiatico interrompe il percorso fatto insieme. Non dimentichero' facilmente Jens.

Kyungmi
L'incontriamo nella guest house di Yangon. Tarda mattinata, colazione abbondante alla birmana, Kyungmi si presenta con uno sguardo apparentemente pacato negli occhi a mandorla. Carnagione bianchissima -quasi immacolata-, calzoni viola di cotone leggero, maglietta e capelli neri che mandano oscuri riflessi ammaglianti. Viso delicato e leggermente schiacciato. I modi estremanente gentili e l'assenza di gestualita' si accompagnano ad un senso d'umorismo contenuto ma vivo ed una propensione allo scherzo. In combutta con Jens cominciamo a prendere in giro la ragazza di Seul facendole capire che conosciamo alla perfezione i caratteri dell'alfabeto birmano e altre lingue difficili. Per dare maggiore valore alle nostre asserzioni, Jens comincia a leggere un giornale di Yangon. Kyungmi ci offre un volto stupito ma non credulone, intercalando al suo inglese ragionato delle esclamazioni di intesa tipiche di alcuni popoli orientali.
La coreana ci racconta del suo Paese e sul viaggio in solitaria nel Myanmar; in modo tranquillo descrive limpidamente incontri e luoghi attraversati, aggiungendo aneddoti curiosi tipo quando ha ricevuto un passaggio da un carretto colmo di ceste di cavolfiori trainato da un cavallo. Il giovane sorridente carrettiere birmano non ha preteso alcun compenso.

Mi viene difficile descrivere, ma in quei momenti iridescenti di spontaneita' e' come se universi paralleli e spesso solitari intentino approcci di avvicinamento su basi comuni. Sentieri tortuosi carichi di millenni di cultura, nonostante e grazie alla globalizzazione, si congiungono per qualche goccia di tempo in luoghi terzi, lontani, inizialmente alieni e diversi. Periodi di ristoro per la mente ed il corpo. Ecco la potenza del viaggio quale agente di cambiamento e di conoscenza.

venerdì 30 luglio 2010

Raggiungero' Amarapura?

"Questo pick-up va ad Amarapura?"
"Si', sali."
"Fermati sulla strada per l'U Bein's bridge."
" OK."
In realta' il "pick-up" e' un camioncino adattato per il trasporto passeggeri. Sono le 9 e quaranta, ora non migliore per partire, ma questa mattina ho dormito fino a tardi causa il viaggio notturno proveniente dal lago Inle. Nonostante le nuvole discontinue il caldo di Mandalay si percepisce in tutta la sua naturale violenza.
Sul camioncino siamo in cinque: tre donne, un ragazzo ed io. Sotto gli stretti assi di legno laterali che fungono da sedili sono gia' ammucchiati sacchi di yuta contenenti generi alimentari. "Bene", dico tra me, "una decina di minuti e partiamo."
L'ottantaquattresima strada e' ancora all'apice della sua ordinaria confusione: camion e bus importati di seconda mano da Giappone e Corea riaggiustati, ristrutturati e ancora attaccati tra loro, urlano e sbuffano tonnellate di scura sostanza tossica. Autobus urbani con la carcassa interamente di legno senza vetri ai finestrini trasportano orde di passeggeri stanchi, quindi passano bici, camioncini, moto, taxi e poche auto private. Guardando questi vecchi mezzi a motore ho come l'impressione che i loro rantolanti apparati metallici scoppino da un momento all'altro, inondando ancora di piu' un mondo gia' inondato dalla supremazia umana.
Improvvisamente compare il driver del camioncino e i 3 (tre!) aiutanti si piazzano sulla piattaforma posteriore del mezzo. Buon segno. Partiamo nel concerto informe dei clacson nostri ed altrui verso il sud dell'84th. A volte sono un fervido credente nei miracoli: come e' possibile che un camioncino veicolante 20-30 persone possa iniziare il viaggio con cinque passeggeri? Infatti all'incrocio successivo ci aspetta un'altra sosta di dieci minuti. Salgono persone (anche sul tetto) ma il driver non e' contento. Le soste continuano allo stesso ritmo dopo ogni incrocio. Sono passati una quarantina di minuti e, nonostante gli sforzi congiunti dei tre addetti 'esterni' al mezzo, siamo pieni a meta'. Percorso effettuato: un chilometro abbondante. Ad una fermata la monaca che e' seduta di fronte a me scende per acquistare dei biscotti. I passeggeri ingannano il tempo dormendo, sudando e comprando qualcosa dai venditori ambulanti che ronzano in continuazione attorno alle soste 'tecniche'.
Osservo il cruscotto del camioncino. Indicatore di velocita': non funziona. Lancetta temperatura acqua: nulla. Indicatore carburante: zero. In compenso il bottone del clacson e' iper usurato. Al posto dello speccchietto retrovisore sono appesi rispettivamente una corona di gelsomini, un piccolo orsetto di pelo ed una effige del Buddha in plastica. Forse e' l'aroma dolce del gelsomino che intorpidisce l'autista...
Giunti presso un grande tempio buddhista, il camioncino/bus parcheggia e i tre aiutanti gesticolanti di betel si dileguano al suo interno. Il motore si spegne. "E' la fine", mi dico.
I minuti passano lentamente divorando una pazienza intorpidita. Quando i passeggeri iniziano a dare segnali di fastidio, i tre tornano quasi trascinando una signora. Un magrissimo raccolto.
Dopo il luogo di culto un'altra fermata veloce ma poi le cose cambiano: il mezzo pare abbia preso il volo e sia deciso a raggiungere Amarapura, quasi avesse varcato uno spazio invisibile e risolutorio. Con la velocita' gli animi si placano, il sudore viene dileguato dal vento e la destinazione si avvicina. Dopo quindici minuti sono ad Amarapura. La mente fatica a crederlo.

martedì 27 luglio 2010

A piedi lungo il lago Inle

Sono in strada dopo aver ricevuto le informazioni. Non ho bene capito quanti chilometri dista il villaggio di Kaung Daing ma non e' troppo importante. Attraverso il ponte del canale che conduce al lago Inle; sotto sciamano un'infinita' di barche di legno dal profilo sottile contenenti persone, ceste di pomodori, verdi ortaggi, canne e altro ancora. Per sicurezza chiedo se la strada che sto prendendo e' corretta ma non vengo capito; dopo tre tentativi di modifica del tono\accento, la mia destinazione viene compresa. Il percorso di terra battuta e' puntellato due file alberate di eucalipti. Ho voglia di camminare con questa temperatura accettabile e sotto un cielo nuvoloso.
Il paesaggio rurale mi scorre dentro lentamente, in modo che possa assaporarlo meglio: palafitte sull'acqua delle risaie, pagode dorate e monasteri di scuro legno tropicale, ragazzini che si recano al pozzo per prelevare l'acqua, gruppi di cani e mucche in libera esplorazione. E poi moto, bici, vecchi trattori e molti altri camminatori. Quasi tutti salutano. Potrei entrare in uno degli stretti sentieri laterali per perdermi nel verde infinito.
Dopo circa un'ora raggiungo la strada semiasfaltata che costeggia il lago. Un intraprendente mototaxista mi informa che mancano ancora diversi chilometri alla destinazione, offrendomi il viaggio in pochi minuti. No, andiamo con le proprie gambe! Forse il fine e' precisato nel cammino attraverso questi luoghi. Le ciabatte infradito vanno veloci sull'erba corta del bordo della carreggiata, passando vicino a cespugli, alberi e fiori spontanei.

Camminando si intessono significative relazioni, interazioni leggere con le persone e l'ambiente. Le donne che trasportano pesi sulla testa, i bambini che si recano a scuola, i monaci che chiedono pazientemente l'elemosina, gli uomini nei campi, capiscono chi sceglie -anche per poche ore- la loro stessa mobilita'. Un movimento economico, antico, costruito sulla fatica e la lentezza, capace di osservare, di immergersi, di approssimarsi. Piu' il muoversi affonda nello sforzo, piu' la posta su se stessi incrementa, concedendo maggior godimento al proprio io. Cammino e consumo la terra cosi' vicina ai piedi, consumando contemporaneamente il corpo, introiettando particelle di polvere, eppure sono convinto che da qui si veda veramente la strada, conoscendola, toccandola. Mentre il fisico cede energia causa il moto, la mente respira il paesaggio con le colline tappezzate e il grande lago. Queste genti sono cosi' in sintonia con l'ambiente lacuale fino a realizzare una moltitudine di orti galleggianti coltivabili dalla barca. Un sole tenue filtra nella rete nuvolosa, aumentando la temperatura. Ancora qualche decina di minuti e riesco a vedere il villaggio di Kaung Daing incuneato nel lago Inle. Mi fermo davanti ad una casa per ricevere conferma. Si', sono arrivato.

sabato 17 luglio 2010

Sulle rotaie del Myanmar

Il luogo e' presidiato dai militari. Un funzionario serio esamina il mio passaporto lentamente, poi ricopia alcuni dati sul biglietto. Quattro dollari. All'inizio mi rifiuta una banconota perche' malconcia, ma, vedendo non ne posseggo altre, accetta il denaro con una smorfia. Inizia cosi' il mio viaggio da Taungoo a Thazi.
Strati di nuvole monsoniche scivolano sul metallo liso delle rotaie mentre attendo. Il 5 UP arriva in ritardo con le sue carrozze color crema, pavoneggiando inizialmente la classe Superior, per successivamente presentare i vagoni di classe Ordinary. La mia. Cerco la carrozza 2 ma non vedo numeri, quindi domando informazioni. Un addetto mi accompagna velocemente al mio posto mentre il bagaglio viene generosamente portato da un ragazzo con la giacca mimetica e i denti incrostati dal rosso scuro del betel. Dopo una abbondante sosta partiamo dapprima a scossoni, in seguito dondolando lateralmente. Acuti rumori metallici si incrociano con voci reiteranti dei venditori e il parlare dei passeggeri. Dai finestrini generosamente spalancati e sotto un sole alternato a nubi mi si apre uno splendido mosaico antico: cesellato da mani esperte, un'infinita' di piccole risaie vengono coltivate da uomini e donne con i copricapo in fibra vegetale a forma conica. Mi si fissano negli occhi tonalita' diverse di verde, mischiate al marrone dell'acqua luccicante. Verde verginale del riso da poco piantato si intervalla al rosso del terreno arato ed al quasi giallo delle piante mature. Vedo scorrere case di paglia con tetti di lamiera, protette da un groviglio di palme da cocco, banani, papaye e manghi; nei campi si muovono magri cani liberi, mucche, zebu' e bufali indiani utilizzati per trainare carretti e antichi strumenti agricoli. Uomini tranquilli accompagnano mucche che divorano l'erba cresciuta tra gli appezzamenti del cereale. Cullato dal lento procedere del treno, attorno a me passa l'Asia.

Accanto al mio posto si e' seduto il ragazzo sorridente con la tuta mimetica. Su questi sedili di legno cigolanti mi spiega che torna a casa dopo aver fatto una visita medica. Anche se la comunicazione e' difficile, il ragazzo diventa un intermediario tra me e quello che avviene nella vivace carrozza. Ambulanti di tutti i tipi passano in continuazione vendendo principalmente generi alimentari; accanto a loro scorrono in competizione gli addetti del treno che offrono bevande e piatti di riso con curry. Ad un certo momento passano due giovani monaci che chiedono l'offerta porgendo a ciascun passeggero una busta vuota. Diversi viaggiatori contribuiscono generosamente. Poco dopo un signore si piazza alla meta' esatta del vagone e, dopo una pomposa introduzione con voce squillante, propone una serie di balsami di bellezza. Appena mostra ai suoi ascoltatori un prodotto nuovo, il ragazzo accanto mi informa riguardo il prezzo. Ridiamo scherzosamente ogni volta, come in uno scherzo semplice.
Di fronte a noi ci sono una coppia di giovani birmani che osservano con curiosita' il nostro parlare, guardando con discrezione i miei vestiti, i movimenti e quello che estraggo dallo zainetto. In questo mondo oppresso da una dittatura chiusa su se stessa, in modo speculare la mia persona e gli altri passeggeri del vagone siamo investiti dalla novita' che e' effetto del viaggio.
Mentre penso a come poteva essere la Birmania all'epoca del colonialismo, le mie narici vengono investite da un miscuglio di odori di frittura, l'aromatico del betel, di fiori e, con grande piacere, riconosco l'inconfondibile richiamo del frutto piu' particolare che esista, quello con cui l'amore e' per sempre. Il durian.
Le ore si affastellano su questo treno lento e gioviale; corro con il paesaggio che muta, vedo gente mangiare, incrocio ragazzi carichi di libri che affittano per qualche ora ai passeggeri, bigliettai immusoniti dalla loro carica statale. Nonostante non sappia bene a che ora raggiungero' Thazi, mi accorgo che quaggiu', infossato nei sedili di legno delle classe Ordinary, la mente e' profondamente libera, spoglia dai doveri. Spoglia, nulla piu'.

venerdì 9 luglio 2010

Incontri casuali a Yangon

L'aereo plana su uno strato di nuvole basse al di sotto delle quali compare improvvisamente la pista di atterraggio. Quanti abitanti conta Yangon? 5-6 milioni. Quanti velivoli vediamo nel maggior aeroporto della nazione? Cinque. Ecco il primo impatto con il boicottato regime autoritario del Myanmar.

Questo pomeriggio, dopo aver visitato una dorata pagoda che si affaccia sul Yangon river, comincia a scatenarsi un temporale che pare infinito. Apro l'ombrello ma la pioggia e' troppo insistente. Sulla mia sinistra si dispiegano una serie di teloni che radunano diverse bancarelle del cibo. Mi metto al riparo sotto uno di questi. La proprietaria mi sorride, quindi con un modo estremamente spontaneo mi porge la sedia di plastica rossa e una teiera di te' caldo da versarsi in un boccale di vetro. Sorseggiando il liquido amaro gli occhi volteggiano sulla struttura costituita da un lungo telone verde sorretto da pali di bambu', si arrampicano sulla luce al neon alimentata da una batteria di camion che illumina decine di pietanze conservate in pentole di acciaio, per infine posarsi su una decina di tavoli ricoperti da cerate nuove di zecca. Sopra i tavoli ci sono le teiere e i contenitori di plastica al cui interno si srotola carta igienica per pulirsi le mani. Il pavimento e' formato da terra battuta piuttosto irregolare. Sulla strada vedo passare camion che trasportano enormi tronchi, autobus, bici e molti furgoncini.
La pioggia sembra motivo di gioia e utilita' per i birmani: nell'altro lato della strada un bus urbano che propone la pubblicita' della Star cola viene allegramente pulito con spazzoloni da due uomini; ancora uomini in longyi si lavano il corpo con sapone bianco sotto una voluttuosa grondaia, poi incrocio monaci bambini a piedi scalzi, studenti e monelli nudi che giocano nelle grosse pozzanghere sopra le quali volteggiano rifiuti di ogni tipo.
Sono le 18 passate e la pioggia sembra aumentare di intensita': perche' dunque non approfittare del luogo? Con la gestualita' mi faccio portare un piatto di riso, dei pesciolini fritti e le gustose zucchine amare. La signora aggiunge al mio tavolo una scodella di brodo di verdura, delle fettine di cetriolo ed il chili. Mangio mentre cala la notte abbracciata dai lampi tropicali. Luci di fari si specchiano sulla strada sventrata dal traffico, illuminando frammentate sagome in movimento.
Ad un certo punto dal diluvio appare un ragazzo allegro completamente bagnato che si mette a scherzare con la proprietaria; quest'ultima mi guarda rendendomi partecipe del loro oscuro gioco. Come fossi un'altra persona divengo compagno di ritagli di vita di questi individui: un distillato purissimo dove le parole e le lingue cedono significato alla gestualita', ai simboli ed a una intesa imperscrutabile che trova comunanza tra esseri umani.
La pioggia continua a cadere ed i bordi della strada si stanno allagando; forse e' il momento di lasciare questo significativo e benefico tratto di viaggio del mio primo giorno in Myanmar.

sabato 3 luglio 2010

Da Pattaya a Bangkok

Il signore seduto davanti a me ha le mani scure e forti. I contorni delle sue unghie sono marchiate dal nero, forse e' il lavoro in officina. Porta una camicia blu ed un paio di bermuda verdi colmi di tasche laterali. Si e' portato per il viaggio un sacchetto di biscotti ed una bevanda color rosso venduta in tutto il mondo non certo per le sue proprieta' qualitative. Chissa' cosa andra' a fare a Bangkok il signore con la camicia blu, mi chiedo mentre ai fianchi scorrono colline ricoperte di alberi, palme da cocco, bandiere cangianti della Thailandia e ombrelloni dei venditori ambulanti. Un cielo monsonico costellato da nuvole in continuo accavallamento tra loro si libra sopra le nostre teste; una incomprensibile straordinaria ordinarieta' mi si posa sugli occhi e su quello che guardano, come se viaggiassi all'infinito.


Ancora una volta in movimento dentro il mondo, qui, assaporando The man with the movie camera dei Cinematic Orchestra, seduto nei posti terminali del bus. Volo insieme alla chitarra cinematica anche se la mente e' occupata ad elaborare quello che ho visto in questi ultimi giorni. Per riassumerlo potrei citare ancora musica con un crudo e realistico pezzo di Frank Zappa, ma basta far scorrere lo sguardo in avanti di alcuni posti per incontrare il classico frequentatore di Pattaya: maschio occidentale, abbronzato e tatuato, canotta, calzoni corti, capelli rasati per nascondere inutilmente la calvizie, corporatura abbondante e pancia da birra. A suo fianco l'acccompagna una ragazza thailandese che avra' venti anni meno di lui. Tento un difficile lavoro di fantasia ma non riesco ad immaginarmi questo individuo nel suo paese di origine; cerco di pensare che impiego potrebbe svolgere con la maggiore cattiveria possibile ma e' inutile, il lavoro e' troppo una cosa seria. Dalla finestra del mio alloggio questa mattina vedevo uomini vagare soli come zombie, anzi, come vampiri da film di serie B che fuggono dalla luce del giorno per rintanarsi nei loro lussuosi alberghi dopo una notte di alcol e 'Amore senza amore' (G. Marquez) in qualche hotel dalle pareti sporche con lenzuola rammendate da buchi di brace di sigaretta.

Il bus scorre veloce sotto questo cielo paziente zeppo di nuvole, anche se presto dovra' arrendersi alla periferia di Bangkok, dove il traffico infernale della citta' degli angeli rallentera' fino quasi ad azzerare il suo incedere. Quanti passeggeri, quante speranze e quanta solitudine piu' o meno infangata dovra' ancora portare?

mercoledì 23 giugno 2010

L’esperienza del Lasciare

Prima di abbandonare qualcosa è sempre così. Breve, lungo, definitivo, temporaneo, durante le frazioni del vivere sono diversi i sedimenti da cui ci si distacca. Hanno importanza relativa il luogo, il momento o lo stato emozionale: quello che cattura significato è il lasciare qualcosa divenuto familiare.
Nelle imprese dei secoli passati, ma anche nelle migrazioni attuali, la sofferenza della separazione era la componente primaria che dava forma e memoria al viandante  attraverso terre sconosciute. Il viaggiatore antico veniva considerato un'icona eroica ma anche tragica perché la partenza prefigurava un distacco quasi definitivo, un abbandono ricco di solitudine e di metafore assolute. vag

Manca poco alla separazione e un senso di inadeguatezza mi colpisce a tratti, il distacco è prossimo e la mente fatica ad accettare il cambiamento. Il quotidiano e i comportamenti che soggiornano nella tiepida palude delle abitudini collidono con la certezza negata di non essere più qui, di aver scelto ancora una volta l'allontanamento. Eppure sono convinto che presto il movimento libero si impossesserà di me portando nel semi-oblio quello che è rimasto dietro, quello che solo le spalle potranno ancora -e per poco- rimirare. E poi il solco della strada farà il resto. Ma fino a quando il flusso non mi porterà via, questo periodo di mezzo dell'attesa e del disorientamento rimarrà tale.

Lanciarsi in avanti con la testa alta, guardando l'indefinito con curiosità, attendendo le ondate lisergiche e pericolose dello spaesamento, combattendo con la fatica che purifica e accogliendo porzioni di sconosciuto che veicolano significato, mentre l'afflato bollente e acidulo di una mattina tropicale penetra nei polmoni. Ecco, sono qui, di fronte ad una nuova avventura che si inserisce nelle matrici intricate del destino. 
Vorrei poter scrivere come Ch'oe Pu: 'Sono portato dall'aria, la terra galleggia sotto di me',  sì, vorrei farlo.

giovedì 3 giugno 2010

La fine della Panamericana

Un breve tratto di mare e poi verso la fine della strada motorizzata più lunga del mondo. Quasi quarantottomila chilometri di asfalto che affondano nelle vene di questo continente dove il viaggio nei sentieri della Natura e del tempo è ancora realizzabile. Il traghetto mi congiunge all'arcipelago di Chiloé, che ora è parzialmente occultato da una leggera nebbia marina, quasi fosse un'isola lontana del nord Europa. Anche se il mio vagare non è terminato, sento che qualcosa sta per chiudersi insieme alla Ruta 5, la Panamericana.
Sotto di noi un mare impenetrabile per effetto del moto ondoso ed un riverbero di provenienza indefinita. Raggi di sole sbilenchi filtrano tra nuvole cariche di cromaticità variabile; proiettando lo sguardo che dal filo dell'acqua raggiunge la terraferma a nord, si ricevono diverse sensazioni disarmoniche tra loro: luce al tramonto, arrivo di un temporale, occhi che osservano il mondo attraverso filtri improbabili. In alcune porzioni di cielo, nuvole e mare gareggiano a riflettersi il grigio, come in un continuo gioco di specchi. 
Il bus della Cruz del Sur vola sui prati verdi macchiati dal giallo del freddo dove pascolano bovini, attraversa fattorie di legno, boschi scuri piegati dal vento oceanico, masticando la strada solitaria. Una signora dai tratti indigeni sale ad Ancud: indossa una giacca color limone sbiadito e tra le mani porta un pacco voluminoso, forse un regalo. A tratti i cigvetri del bus si velano di una pioggia sottile e silenziosa, ottenebrando la visuale. Nelle vicinanze di Castro scorgo lembi di mare che si insinuano tra colline ricche di vegetazione. Fotografo mentalmente questa visione di mare-cielo-terra come un'unione sincronica di elementi che paiono fusi assieme. Forse le mie iridi sono prese d'inganno: forse gli alberi, i fiordi, le leste nuvole che confondono il cielo, i prati, non sono partizioni di paesaggio ma una inscindibile unità.
La cittadina di Castro mi accoglie con una tiepida luce che pare provenga dal sole. Questa volta ho un indirizzo sicuro dove dormire: un commesso viaggiatore che ho conosciuto molta strada più a nord mi ha fornito tutti gli estremi. Attraverso vie umide con la borsa a tracolla tra donne che tornano dalla spesa, artigiani con furgoncini rumorosi, operai e bancarelle dei commercianti. Suono al numero civico di una casa bassa e semplice. La signora con il grembiule blu mi ascolta in silenzio, poi, dopo essersi asciugata le mani in grembo, dice che è dispiaciuta ma tutte le sue stanze sono occupate.
Mi riesce difficile spiegarlo, ma Castro è una città diversa da quelle che ho appena visitato. Altra gente, altro sangue. Altri destini più severi. Visito la zona portuale e poi l'area delle tipiche palafitte poste sull'acqua. Cammino a lungo tra i quartieri popolari, osservando, accompagnato da ventate di pioggia invisibile e dalla brezza disarmante; come un vagabondo privilegiato e solitario sperimento cosa vuol dire vivere tutto il giorno fuori, facendosi corrodere piano piano dal cstfreddo, dall'umido, con la necessità corporale ed istintuale del  movimento. Percorro strade lunghe e diritte che si tuffano nel mare. Nella zona bassa della cittadina homeless avvolti da pesanti cappotti dormono sui marciapiedi accanto a bottiglie vuote. Come a Puerto Montt anche qui vedo ristoranti che si appoggiano su palafitte, ma pare siano chiusi. Prima di rientrare nella mia stanza faccio un giro nel movimentato terminal dei bus informandomi sulle destinazioni verso l'isola di Quinchao

La Panamericana è terminata. La scorro mentalmente lungo i tratti infiniti che ho percorso. Decine e decine di bus, ore su ore ascoltando musica, leggendo un poco, ma soprattutto con gli occhi abbagliati dal panorama che scorreva pazientemente sui vetri.
Da questo locale di Castro, Chiloé, seduto di fronte alla vetrata che si affaccia sulla strada, riesco a sentire sul corpo le vibrazioni che mi ha tramesso la Ruta 5, le molte persone sfiorate solo per un attimo e quelle invece che hanno portato significato. La strada è lì dura, calda, fredda, vuota, ma soprattutto inevitabile. Mi risulta difficile restare fermo mentre la via aspetta un nuovo passeggero dal destino ramingo, attende colui che affronta lo scopo disarmato.
Negli anni passati, durante un viaggio, vivevo il tempo trascorso sopra un bus, una barca, un treno come una perdita, una sconfitta. Adesso capisco che a cavallo della strada è possibile incontrare parte di sé stessi, è realizzabile il silenzio, mentre il flusso ci accompagna in luoghi sconosciuti.
Il movimento libero pare alieno alla senescenza, sembra alieno alla morte, trasmette uno status che si accosta alla invulnerabilità.
Con il corpo esausto, sotto questo cielo burrascoso, mi risale alla mente una frase del Kalevala: 'L'interna fiamma, la febbre di andare'.

giovedì 13 maggio 2010

Incoscienza a Puerto Montt

Legno e lamiera. Dalle finestre generose di spifferi del secondo piano dell'hospedaje Rosa vedo la gente del quartiere scendere la via che porta al centro. Un sole discontinuo scalda la stanza umida che traspira ancora l'alito evanescente dell'ultimo visitatore.
Questa mattina il bus mi ha scaricato fuori dal terminal, ad un soffio dal mare, tra i carretti del mercato spumeggianti di gente gonfia dai vestiti. Ho fatto pochi passi nelle viscere del quartiere popolano che odora di duro lavoro e di pesce e lì ho visto un luogo dove dormire. La signora mi ha mostrato una stanza riscaldata ma era troppo cara. Sono entrato ancora di più nei capillari della città per incontrare questa casa alta e arrugginita dal vento, governata da due sorelle; al piano rialzato  dell'hospedaje c'è una sartoria piena di donne che mi sorridono quando passo. Rosa, una delle due sorelle, ha detto loro che sono straniero.
Legno forte che conosce il vento carico di gocce provenienti dall'oceano, legno colorato pastello delle cornici e dei listelli; lamiera leggera e resistente, che si contrae riscaldandosi appena spunta il sole e intona sonorità misteriose al tambureggiare della pioggia. Tutte le case che scorgo dalla finestra dell'hospedaje sono in legno e lamiera, testimoniando la loro immobile precarietà. È carina questa stanza piena di luce. Vorrei riposare un poco ma esco subito. Le ragazze della sartoria stanno prendendo il caffè, sorseggiandolo in silenzio da grandi tazze colorate.
Il traffico sibila lungo la Costanera di Puerto Montt: è una delle vie che raggiunge il porto. La percorro con passo velocepmn dirigendomi verso il centro. La mano destra chiusa a pugno lambisce istintivamente il parapetto metallico che da sul mare, quasi a tracciare il  passaggio, quasi a rendere indelebili le orme sulla strada che entra in me. Il golfo è percorso da pescherecci scortati scrupolosamente dai gabbiani; ogni tanto dall'acqua emerge un capo nero e solitario di un leone marino che vaga alla ricerca di qualcosa, osservando il mondo con liquidi occhi scuri. Ora la passeggiata si fa più ampia, aumentano i pedoni e individuo persino qualche turista locale. Siedo su una panchina inalando forte l'aria che la brezza ha raccolto dal mare: sulla destra vedo un'isola montagnosa ricoperta da vegetazione sempreverde e poi, in là, il libero confine tra fluido e cielo. Alti grumi scuri in un'avanzata rettilinea e senza ostacoli vorrebbero essere immortalati dall'acqua sottostante, ma il liquido increspato è già impegnato con il vento dell'ovest. Se lo sguardo si fa più paziente, in lontananza e per qualche istante, si riescono a cogliere nuvole basse con base uniforme che si ammantano di un fulgore la cui origine pare metafisica.
Il centro della città è un miscuglio di coloniale europeo, cemento e vetri e case decadenti appartenenti ad una borghesia perduta. Nell'ufficio informazioni turistiche chiedo le cose di sempre: una mappa del luogo, il supermercato, internet, dove mangiare, cosa fare. Recupero l'orario delle navi cargo che effettuano trasporto passeggeri dirette verso lo sconfinato sud, la Patagonia cilena. La ragazza dell'ufficio, stretta da un giubbotto jeans imbottito di pelo, mi informa con un sorriso di scusa che in questi periodi di bassa stagione e mare grosso i passeggeri sono molto scarsi.

Sorseggio una birra dopo una doccia bollente catturata nei bagni esterni alla stanza. Sono quasi agli antipodi della terra ma, come nel caldo infinito dei tropici e in modo speculare, anche qui la doccia diventa un momento catartico: doccia calda agli estremi, doccia fredda al centro del mondo, lontano, lassù. La maderfinestra del mio alloggio mi mostra uomini e donne che rientrano dal lavoro dopo una giornata qualsiasi di fine inverno; bevo lentamente la birra osservando il paesaggio che si dispiega fuori di me mentre il buio australe cade anche su questo giorno. Birra tiepida, stanza fredda. Sotto non odo più alcun rumore, le donne della sartoria devono essere andate a casa.
La sera esco rapido per dirigermi verso il porto. Mi muovo con le mani in tasca lungo il marciapiede ormai quasi vuoto. Una quindicina di minuti, o forse più, e sono nelle vicinanze dell'area portuale che di sera assume un aspetto inquietante. Nelle prospicienze sorgono alcuni grossi edifici costruiti sulle palafitte dove risiedono molti ristoranti incastrati tra loro; la gente del posto mi ha consigliato di venire qui. E’ lunedì, ed in giro c'è davvero poca gente. Salgo le scale di legno della struttura e scelgo un posticino con vista sul golfo.
La finestra scura del locale specchia una persona che mangia adagio, con la mente che vaga come un domino impazzito sui molti pezzi della giornata trascorsa e su quelli futuri che stanno per prendere forma. I vetri della finestra riflettono la figura magra del girovago mentre apprezza il calore delle patate del piatto locale, il curanto; se qualcuno avesse la pazienza di interrogare le pareti di legno del ristorante, queste forse testimonierebbero che l'individuo solitario, in quel preciso momento, gustava e incorporava fino in fondo i sapori antichi della terra visitata.

Anche se la stanchezza mi assale, questa sera non ho voglia di tornare nella stanza colma di finestre. Sono qui fuori in questo luogo semideserto e poco sicuro accanto al porto, ancora alla presenza del mare. Odo suoni di acqua e di animali, di sporadiche auto veloci e di vento che scivola intorno. Con la mente lucida sfido apertamente la sensazione di insicurezza che mi prende a tratti. È una incoscienza selvaggia, un alito di assurda invincibilità quello che mi attraversa, ma rimango appoggiato al parapetto, immobile, annusando questa città lontana. Tranquillo e spavaldo, come un suono dei Mogwai, come il viandante che il mondo se lo trova tatuato sulla pelle e nel sangue, con il cuore inafferrabile gremito di domande.

venerdì 23 aprile 2010

La potenza del viaggiatore

Guardando lontano
vedo la fine del mondo?
Ch'oe Pu

Da bambino facevo un gioco che consisteva nel portare quasi alla loro congiunzione le palpebre, ottenendo una visione del mondo esterno piuttosto sfocata, ai limiti dell'onirico.   “Siamo seduti sul lungolago della cittadina di Arbon, metà marzo”, asserisco, “Europa, fresco, chiesa con campanile affilato, case modello chalet, ordine e... destini spezzati da un oceano di nuvole veloci.”
Con una mano in tasca e l'altra stuzzicando le punte dei chiari capelli, Lena ascolta seguendo con occhi calmi gli scarni passanti di Frutillar mentre ciondolanti pick-up scivolano piano sull'asfalto: elefanti turbolenti che trasportano donne e uomini con sangue lontano e ricordi perduti dall'affaticamento di una nuova esistenza.
“Quando abbiamo finito i trastulli sullo spaesamento, perché non entriamo in un caffè?” dice Lena, per poi aggiungere con un sorriso divertito e corto, “solo che non ho franchi... vuoi dire che accettano pesos?”
“Proviamo in questo posto.”
Dalla finestra e attraverso il fumo limpido del caffè domino l'infinito lago Llanquihue. Sono giorni che vagabondiamo in osoqueste terre lontane, stregati dalle montagne, dai boschi,  dagli animali, incontrando persone socievoli e rispettose. Slegati dal  tempo e al di là del tempo, liberi dal giogo del fare a qualsiasi costo, affrancati dal raggiungimento dello scopo; ecco, così vogliamo trovarci ascritti.
La signora bionda del locale ci porta un vassoio di dolcetti fatti in casa. Nella tranquillità di questo caffè semivuoto di Frutillar, confortati dal caldo secco della stufa a legna, sento che presto Lena erutterà quello che aveva in mente durante il cammino.
Dopo un sorso di scuro liquido bollente, attacca: “Hai notato come la gente ci guarda quando capisce che siamo stranieri?”
“Qua siamo tutti stranieri.”
“Non proprio,” ribatte Lena, “credo che sia quella che qualcuno chiama 'La potenza del viaggiatore', un'aura costituita da mistero e conoscenza che accompagna colui che si muove libero.”
“L'ho notato spesso anch'io. E' il premio che a volte riceve il viandante dopo essere stato smascherato dalla sua non appartenenza ad un determinato luogo”. Aggiungo. “Un potere derivante dal fatto che viene da lontano, che può portare novità e creare nuovi legami, denaro e aria fresca.”
“Ma molto dipende dalla società di accoglienza, il grado di apertura, la sua ricchezza e la storia.”
“Molto dipende dal viaggiatore.”
Ancora una volta la grande vetrata della casa che pare appartenga ad un altro mondo ci propone la vista del vulcano Osorno. Oltre il lago Llanquihue, lontana ed isolata come un atollo tropicale, la montagna concede un profilo leggero, un'armonia inafferrabile; il vello candido di cui è rivestita e che quasi si tuffa negli abissi dello specchio che la sorregge,  probabilmente è stato intessuto durante i secoli per volere di un regnante mapuche, gli autentici abitanti di questi territori. I mapuches, gli araucani, loro sì.

La sera esco solo in una Puerto Varas ormai assorbita dal buio. Vago alla ricerca di un posto dove ingollare qualcosa di caldo. Sfioro senza fermarmi una serie di locali per turisti declinanti verso il lago; dribblo il pornografico casinò luccicante per entrare nella zona popolare della cittadina. In una stretta via scorgo un frutristorantino che, su una lavagna consumata dal tempo, ostenta una vistosa scritta: Oferta del día - Escalopa a lo pobre - 1800.  Senza pensarci sono già dentro. Il locale è carino ma ormai quasi vuoto perché ho fatto tardi. Ci sono solo due persone sedute ad un tavolo che stanno cantando, e uno di essi ha la chitarra. Mentre chiedo alla signora che esce dalla cucina se posso mangiare, subito i due uomini socializzano con me. Germán è il padrone del locale insieme a Julia, e Gerardo, che suona la chitarra, un amico della coppia.
A volte capita di stare sul bordo di un qualcosa e istintivamente leggervi in anticipo la situazione o lo svolgimento degli eventi; ebbene, ora ho la sensazione positiva, quasi lisergica, di un allargamento repentino dell'obbiettivo. Così, come una porta che si apre all'improvviso per trovarvi al suo interno un piacere inaspettato, vengo risucchiato dalla serata incosciente e spontanea. Con una birra luccicante davanti agli occhi e due persone ingentilite dal vino che alternano discussioni serie a sonorità appartenenti a Victor Jara, Parra e canzoni popolari oscene, la mia persona si introduce in un limpido antro di vita del Paese ospite; spettatore e partecipante unico di uno spaccato veritiero di un mondo caleidoscopico, felice di esserci perché incluso, accettato, portatore di qualcosa considerato speciale. La potenza del viaggiatore.

venerdì 2 aprile 2010

Cerchi speculari

cer

Navigo veloce tra l'aria fresca del mattino con occhi seri. Avverto ogni particella impalpabile che mi viene incontro strofinandosi su ogni parte del corpo come se la conoscessi da sempre, come se l'impressione dell'incontro etereo non fosse solo una spuria sensazione. Il vento si insinua con discreta tenacia tra i fili lunghi e sottili che mi sovrastano il capo, portando una sensazione estraniante. In realtà la mia faccia compassata cela un piacere segreto provocato dall'odore indescrivibile dell'aria che porta l'anticipo della primavera. È una felicità intima, istintuale, piena.
Mentre premo i pedali, con gli occhi semichiusi che osservano il Mondo, nella mente circola una melodia ammaliante che proviene da un gruppo norvegese; è strano, ma quando queste sonorità mi fluttuano nel cervello, e non capita di rado, le percepisco nella loro più limpida purezza, come se ogni neurone emanasse omeopaticamente la scansione precisa dell'armonia.
Troppe auto veloci sulla strada, anche se alla fine mi sembra di raggiungerle tutte. Chissà perché quel signore con la fuoriserie nera mi guarda in modo strano. Avrà qualche problema, poverino.
Sono maledettamente libero. Oggi dovrei lavorare ma forse più avanti devio a destra per il bosco e poi nel parco per continuare il libro di ieri sera: bisogna sfruttare al meglio le opportunità della vita. Così, per piacere.

Guarda quello. Va in giro con una bici nera che pare essere stata rimorchiata da una discarica di un altro mondo. Ma perché non compra un'auto? Non ha i soldi?
Aggiusto il sedile con un lieve tocco del dito mentre i miei Jaga Jazzist circolano con voluttà nello stereo nuovo e un profumo emulo-di-gardenia esce dal condizionatore. Vetri e carcassa metallica nera hanno visitato scrupolosamente ieri l'autolavaggio. Come siamo avanti con la tecnologia, ma non è roba per tutti. Fortunatamente posso permettermelo.
Sono maledettamente soddisfatto. Oggi è una bella giornata per andare veloce sul nastro d'asfalto, assaporando compulsamente i miti di libertà on the road americani... beh, se quello davanti a me accelerasse. Oh no, la coda, ancora... Ma non riescono a costruire  nuove strade in questo Paese?
Uh, ecco il tipo con la bici nera che mi ha preso e ora sorpassa con gli occhi velatamente ghignanti; nello stretto spazio concesso dalle palpebre, e per qualche secondo, due chiare iridi mi hanno fissato. Poveretto. Forse dovrei acquistare una bici anch'io. Così, per piacere.

venerdì 19 marzo 2010

Il silenzio del girovago

Si siede su una roccia scura. Un lampo mi fa intuire che la sua attenzione volteggia rapida nell'orizzonte aperto. Riscaldato da un sole distratto, faccio galleggiare i sensi sulle acque increspate che pare non terminino mai, per poi alzare lo sguardo verso lontane montagne boscose e scure. Sento che tira fuori dallo zaino verde la macchina e scatta lentamente qualche foto.
Nel silenzio gonfio di qualche richiamo di uccelli, con una voce che pare non appartenga a lei, chiede “Cosa facciamo qui?”
Non capendo se è una domanda rivolta a me o a se stessa, muovo leggermente il capo verso Lena, ma non arrivo al suo volto. Dopo questo inutile gesto torno nella posizione primigenia, di fronte alle acque del lago Llanquihue.

Ci siamo conosciuti tre giorni fa nell'hostal Hellwig, in una giornata dove sole, grandine, pioggia e tonalità di luce passavano con uno stormo di volatili marini. Ero appena arrivato dalla costa est e, mentre il custode dell'hospedaje mi mostrava la stanza, l'ho vista seduta sul divano consumato del primo piano mentre leggeva una guida. Ha alzato gli occhi chiari e poi ha sorriso lievemente mentre con la mano stuzzicava le punte dei capelli lisci ancora umidi per la pioggia.

Dopo qualche minuto di vuoto carico, riempito dal fruscio leggero delle piccole foglie di coihue, mormoro “Ma lo chiedi...”
“Non intendi cosa voglio dire?”
Mi giro verso la sua magra figura, questa volta trovando i suoi occhi spaesanti “Sì, Lena, ma è difficile rispondere...”
Lei mi guarda con iridi che sembrano appena fuoriuscite dal recondito più intimo del lago. 1q
Perché questa domanda proprio adesso? Mi pone uno dei quesiti focali che incontra il viaggiatore durante la cavalcata libera dentro i mondi. Nell'esperienza del movimento che sviluppa autonomia, la possibilità di creare spazi personali e di riflessione aumenta, non solo perché il tempo slegato si dilata, ma anche perché la diversità di colui che girovaga impone considerazioni necessarie e immediate su se stessi e quello che lo circonda.
Siamo qui vicini, in questa porzione di Mondo immenso, con il cielo il lago gli animali gli alberi, e le nostre vite piacevolmente affaticate dall'alterità. 'L'argilla è immobile, ma il sangue è randagio. Il respiro è merce che non si conserva', scrive Housman con una prosa che mi toglie il fiato; devo assolutamente raccontarla a Lena mentre ci tiriamo delle capsule di piante sconosciute sulla sabbia vulcanica. Lanciando questi circolari contenitori di vita ormai liberi dal seme, con i polmoni pieni di aromi e di vento, e i corpi abbagliati dal vulcano dominante, capisco che le parole sono inutili: il silenzio della consapevolezza ha risposto.

Uccelli bianchi si posano lontani sul lago il cui colore mutevole volta per volta viene forgiato da nuvole e sole, mentre la brezza ci porta l'odore del maestoso Osorno. Mangiamo bevendo birra sulla sabbia grigia del lago Llanquihue. Non c'è alcun turista nello sfiorito inverno australe della Región X; solo due stranieri che alternano silenzi a momenti giocosi, quasi mimando il tempo che li avvolge.
Da un villaggio vicino percorriamo il sentiero nel mezzo del bosco che ci porta alle lagune, piccole pozze di acqua verde che confluiscono nel lago: gemme segrete celate da fitte essenze sempreverdi, dove il vento è alieno e gli animali svernano liberi. Proseguendo la strada sterrata, imbocchiamo il percorso che porta all'Osorno. Il paesaggio è costellato da bitorzolute rocce scure foderate di muschio, e da alberi con tronchi graffiati dall'umidità che aggrappano la loro vita all'impervio terreno. 2s Dopo un'ora di cammino siamo quasi ai piedi della montagna che da tutti questi giorni ci ammalia: il vulcano Osorno. Esso cela parte della sua possanza dietro lesti conglomerati nuvolosi, mostrandosi ogni volta differente. Lena mi chiede di fermarci per poterlo catturare meglio. Rimaniamo in questa posizione a lungo, affascinati dall'impossibile disvelamento della montagna innevata, quando improvvisamente Lena mi tocca il braccio, indicando un punto in alto. È lontanissimo, eppure entrambi sappiamo che quell'apertura alare, il lungo collo, non possono che appartenere al gigante del cielo, il condor. Osserviamo il volatile penetrare  strati di bianco leggero, per poi dileguarsi nei meandri infiniti dell'aria.

venerdì 5 marzo 2010

Il viaggio che purifica

Scorro verso il basso. L'immensa Panamericana si dispiega ancora, centellinando le sue più meridionali estremità e offrendomi visioni senza fine costituite da praterie, boschi di eucalipti intercalati da composti frutteti. Ho compiuto duecento chilometri e il paesaggio sta mutando: niente più agrumi, i quali cedono il passo al frumento e all'allevamento estensivo del bestiame. È sufficiente volgere il capo a sinistra per osservare lo scivolio costante di montagne sempre più innevate: ammiro a lungo il loro colore pieno, totale, cangiante, che le fa apparire ancora più imponenti.
Avvolto nella coperta azzurro-verde della Tur-Bus, questa mattina ho varcato la linea invisibile che mi ha condotto nella Región IX. L'Araucanía è qua attorno a me, dentro di me. “Eccomi”, mi sono detto con la fierezza potente di colui che è in movimento. Lontano dallo scopo, fuori dalla meta, alla ricerca di un qualcosa inafferrabile in continua evoluzione: la strada, l'alterità, l'io.  
Dopo un cambio nella assopita e squadrata Temuco, il bus Jac mi traghetta verso Pucón. Il momento si avvicina. Lo so, tra poco arriva... sì, adesso lo posso vedere.
Nonostante la preparazione, l'immaginazione viene ancora scavalcata in avanti dalla Natura: conico, perfetto, bianco dalle volc2 pendici fino al suo vigoroso culmine; una parte non meglio definibile della cima sbuffa pigre ondate di vapore tra le nuvole zuccherose che veleggiano alte. Assaporo l'impossibilità di descrivere meglio il vulcano Pucón e l'assenza di intelligibilità che esso offre: una imperscrutabilità a cui mi adatto serenamente. Credo di non aver gustato mai nulla di meglio.
Fuori dal Terminal degli autobus visito un paio di hostales economici,  optando per quello che mi ispira maggiormente. È gestito da una coppia notevole: lui biondo, appassionato, con cognome tedesco, lei è una peruviana dai modi cortesi e fini.
Esco quasi subito nel cielo punteggiato di bianco, nell'aria fresca leggermente aromatica della Araucanía. La cittadina è ordinata, con ville, case per turisti e il centro declinante verso il lago. Seduto sulla sabbia scura, in pace, stupefatto, ammiro il vulcano che si specchia nelle tranquille acque lacustri le quali sfidano vincenti la leggera brezza che circola impertinente. Tutt'intorno vigilano boscose montagne tinteggiate di un bianco lieve.

Il giorno dopo prendo un micro bus che mi conduce verso l'interno montagnoso. Il cielo porta nuvole umide dall'Oceano ma non concede loro la pioggia. Mi fermo all'imbocco di un sentiero. Ai lati ci sono statuarie catene montuose che preservano l'ampia valle ondulata, rigogliosa di boschi e prati. Chiazze di neve resistono nelle zone in ombra. Cammino piano osservando e annusando quello che mi circonda. Ora incontro pecore che strappano filamenti di erba giallastra, poi sparute case dai comignoli fumanti. Voltando il capo ritrovo la massa del vulcano Pucón: sembra che l'ancestrale silenzio soffiato nella valle sia impresso dalla sua presenza. Ancora qualche chilometro perpais sentieri e strade sterrate e raggiungo l'area delle pozze di acqua calda, los Pozones, semplici piscine all'aria aperta che racchiudono l'acqua proveniente dal sottosuolo.
Vago tra le pozze d'acqua termale nudo, solo, attraversando climi proibitivi ed incarnando alla perfezione le metafore del viaggio ma anche quelle della natura umana. Fuori c'è la neve morente, dentro, nell'acqua, la temperatura supera i quaranta gradi; due condizioni insostenibili che però riescono a compenetrarsi, due stati dove il corpo e la mente vengono messi alla prova. Dopo qualche immersione scelgo di rimanere fuori il più possibile, camminando lentamente tra le piscine vuote. Le braccia avvolgono spasmodicamente il petto tempestato dai brividi ma continuo questa strana e spontanea sfida con l'ambiente. Spogliato dai vestiti e dalle cose, con il luccichio dell'acqua negli occhi e la rifrazione della neve sul corpo, sotto il cielo e i monti dell'America australe, trovo parte dell'essenzialità perduta.
L'accogliente acqua manda odori sulfurei, di terra e minerali. Rivoli caldi confluiscono in un torrente di montagna ricco di pietre levigate. Tolgo le ciabatte dai piedi con difficoltà. Come in un battesimo risolutivo immetto la mia nudità tremante e randagia nel liquido vaporoso, ponendo termine alle sofferenze provocate dal freddo, per accoglierne altre.

martedì 9 febbraio 2010

Il cielo del viandante

“Buon giorno, ha un cuarto libero?” “Sì, per una persona.” “C'è il riscaldamento? Ah, è nel corridoio esterno...”
Le dodici del mattino e le iridi spaziano verso l'alto. Il cielo delle pianure d'America è sempre definitivo. Nuvole verginali come veli di fine tessuto esotico, filamenti rettilinei o incredibilmente contorti, onde anarchiche sparse a caso e lame perfette che tagliano il turchino intenso che veglia oltre con sicuro vigore. Conglomerati imponenti che sembrano prepararsi alla battaglia finale da un momento all'altro e minuti batuffoli vaganti solitari, in cerca del segreto profondo cieldell'aria. Gli occhi si perdono seguendo questa costante mobilità, cercando di assecondarla nelle sue evoluzioni, con poco successo. Anche in una giornata di bassa pressione con una cappa grigia sopra il capo è raro non osservare delle portentose combinazioni in cielo.  Ampi spazi, la Natura, venti e correnti, temperature e oceani contribuiscono a modellare la tavolozza che si trova sopra di me. Cirri maestosi, invadenti e sbeffeggianti dominano la panchina dell'alberata plaza de Armas mentre il disco solare mi abbaglia. Dopo essere uscito dalla stanza presso l'hostal Libertad sono qui, accucciato ad osservare il cielo ed il movimento cittadino. È una giornata soleggiata con temperature accettabili e l'aria frizzante odora di montagna.
Un ragazzino si siede accanto a me e mi osserva mentre guardo il cielo.
"Cosa stai guardando?", mi chiede.
"Le nuvole".
Dopo aver scambiato qualche parola mi domanda cosa faccio in questo posto.
"Viaggio", rispondo dopo un attimo di esitazione, in modo superficiale, quasi evitando di farmi carpire un segreto intimo e impossibile.
“E perché viaggi?”, mi incalza lesto il ragazzino con i capelli a spazzola la cui attaccatura scura quasi lambisce le folte sopracciglia che paiono tinte di lucido nero.
Incertezza. Se riuscissi, potrei rispondere come J. Donne 'Vivere in una sola terra è prigionia', oppure 'Fuggo dalla necessità e dallo scopo', come scrive Leed. Invece spiattello un semplice, tautologico e definitivo “Porque me gusta, oye(s)”.
Mi piace il tempo dedicato alla propria persona, l'uscire da ciò che definisce, l'adattamento e la lunga fatica che purifica, freddo-caldo-infinito e... incorporare la strada che si muove. Ci sarebbero molte altre motivazioni ma non posso raccontarti tutto questo, ragazzino, non riuscirei in questo momento e forse non capiresti subito. Sono attitudini intime, segmenti stratificati e profondi, vissuti, di difficile esposizione.
Il bambino lascia la panchina del centro di Chillán, Regione VIII.
Sono in continua e costante discesa; dal bus proveniente da nord ho visto in lontananza e sulla sinistra le cime innevate che costeggiano il confine argentino.
Nella piazza passano sferragliando furgoncini anni settanta, scolari in divisa, turisti locali che sotto la spavalderia celano l'eccitazione provocata dal tempo liberato e dal suo sapiente utilizzo, impiegati e qualche senza fissa dimora alla ricerca di vino economico.
Il mattino sta impregnandosi di giallo quando cammino veloce verso il mercato cittadino, dove partono i bus per le Terme.  Le giornate sono sempre più corte. Nell'automezzo mi fanno compagnia locali dai volti rugosi e seri, turisti in vistose tenute da volcsci e bambini rumorosi. Dopo mezz'ora di viaggio il panorama si ispessisce: oltre le colline troneggiano le Ande innevate. Mi  sveglio definitivamente per l'eccitazione quando, dopo una curva, appare in tutta la sua possanza il vulcano Chillán. Chiedo conferma all'uomo di mezza età dai tratti indigeni che è seduto accanto a me. Anche se viene leggermente celato da altre vette, è proprio lui. Una indistinta massa verde scuro composta da pini, cipressacee, faggi e coihues siede vigilante ai piedi del vulcano come rigogliosi totem indiani Mapuche. 
La strada asfaltata sale con costanza. Giunti presso un villaggio costituito da qualche casa e sparsi luoghi di ristoro, il bus si ferma per qualche istante. A lato dell'asfalto decine di uomini in pick-up aspettano le auto dei turisti per noleggiare loro le catene da neve. chill Il nostro bus sale veloce per il bosco dopo aver lasciato le ultime alte pianure a pascolo. Aria e cielo dell'Ovest entrano dal finestrino leggermente aperto davanti a me. Respiro forte l'aroma tonificante degli alberi fratelli mentre la strada mi porta in avanti ed in alto.

giovedì 21 gennaio 2010

Lo spaesamento del viaggiatore

ocea Gli occhi si aprono con difficoltà. Nello schermo plumbeo sito in qualche luogo della mente mi appare una grande stanza ricolma di letti a castello vuoti. Mi muovo lentamente tra le pesanti coperte e, con il naso freddo, annuso l'aria viziata che puzza di cherosene. Dall'ampia finestra con vetri malconci fuori la nebbia imperversa. Il mattino.
Ad un certo momento, inaspettatamente, come se ricominciassi da capo il risveglio, osservo le pareti desolate del mio cuarto economico facendo vagare lo sguardo voluttuosamente e senza meta. Sento che sta per arrivare qualcosa di grosso; una sensazione non eccessivamente piacevole si insinua piano piano, partendo dalle strade semivuote là fuori, entrando per il portone dell'hostal e infine penetrando gli spifferi della mia stanza. La domanda arriva nel tepore mattutino come se niente fosse, così, tagliente, bordata di passiva inevitabilità: "Dove sono?"
Un quesito. Due parole.
Uno spaesamento temporale e spaziale cattura la mia mente che non sembra uscire da questo empasse. Un vicolo senza immediata via di uscita. Per qualche interminabile secondo mi sporgo in un limbo vuoto che blocca le facoltà cognitive. Ma poi, ciud lentamente, il puzzle riprende forma.
Ricordo di aver cenato insieme a robusti operai e di aver bevuto del vino a buon mercato. I muratori vengono da province vicine; gente cordiale che rutta poche parole. Come piace a me. Poi la signora grassa dell'hostal mi ha messo la stufa in camera e consegnato le chiavi per chiudere la stanza. Il chiavistello era troppo piccolo e quindi ho lasciato la porta aperta, sbattendomene. Cosa posso pretendere per settemila pesos, cena e desayuno inclusi? Il cuarto è grande e la stufa odora di cherosene stantio. Sono uscito nel freddo invasivo di una cittadina di provincia simile a tantissime altre. Bar, negozi, uffici, chiese pompose con modesto significato, auto pesanti e vecchi pick-up, gente che cammina in fretta e che parla in una lingua a me familiare. Sempre di più. Sono entrato in un locale e ho ordinato qualcosa da bere. Qualche avventore mi ha guardato con scarso interesse, poi è ripreso a farsi gli affari propri; coppie, persone che leggevano il giornale e altri bevendo in silenzio guardando oltre la vetrata, sulla strada. Io ho fatto compagnia a questi ultimi, sorseggiando lentamente il contenuto del bicchiere di vetro consumato, come la cosa più normale di questa terra, pensando a quello che mi attendeva il giorno successivo.
nebb Vagabondare. Non avere casa ed averne molte. Come in un mosaico in  continua espansione la mia identità diventa sempre più multiforme, pezzi e pezzi di immagini di Mondo si attaccano veloci, troppo rapidamente per riuscire ad inserirli tutti. Caray. Ma forse questo è il sentiero cui sono destinato: senza un paese e ricco di molteplici attraversamenti spaziali. Durante il viaggio l'anima priva di una terra, spaesata, si libera da ciò che la precisa, posponendo e mischiando tutto quello che porta con se', disvelandosi nella sua limpida nudità.
Fuori c'è la nebbia. Sotto la trapunta si sta bene, in questo hostal a Talca, Chile.
E' ora di prepararsi per prendere l'ennesimo bus verde della Tur-Bus, cavalcare con altre persone ma sempre in solitudine la Ruta 5 Panamericana, verso sud, verso l'inverno ed i suoi venti del Pacifico. La Patagonia è ancora lontana.
 
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