martedì 7 settembre 2010

Il pianeta Birmania

In Myanmar pare di toccare un pianeta lontano in cui il tempo scorre con maggior lentezza, dove gli orologi camminano piano quasi fossero fermi; un mondo a se', isolato nella sua ricchezza culturale.
Ancorati al suolo paiono i pochissimi aerei dell'aeroporto di Yangon, rarefatte auto private circolano in una citta' che conta diversi milioni di abitanti, sparuti i turisti che si muovono insicuri lungo strade soffocate dal rumore, osservati da timidi birmani quasi fossero merce preziosa e finita. Un paese quasi senza pubblicita', dove le multinazionali sono presenti ma tengono un  basso e sporco profilo per non indignare l'opinione pubblica internazionale, scarsi i cellulari, i PC, le televisioni e altri oggetti di consumo piu' o meno superflui.
Uscendo dalla citta' il pianeta dal tempo rallentato mostra il meglio di se' con una campagna antica e la tecnologia quasi campagna sconosciuta; in cambio la simbiosi dell'individuo con l'ambiente si percepisce in tutta la sua pienezza. Muovendoti vedi animali ovunque, spazi verdi e cerchi di immaginare le foreste primarie che il regime dittatoriale ha cancellato per sopire la sua infinita sete di denaro.
Nel treno, in bicicletta, a piedi, sulla strada polverosa, incontri persone incantevoli con desiderio di parlare, curiosi della tua provenienza, delle destinazioni e di quello succede al di fuori del loro Paese. Trovi uomini in longyi dal continuo masticare e sputare saliva rossa di betel, quasi a marcare un territorio conteso; ricordo un mototaxista in lunga attesa di clienti che uomoaveva attorno al suo mezzo una serie impressionante di fresche macchie rosse. Incroci donne magre dal volto e le braccia coperte di bianco leggero della pasta di palma che tonifica e protegge la pelle dai raggi solari, trasportando pesi sul capo. Vedi bambini giocando a biglie, bambini lavoratori in cerca di un sorriso e approvazione.

L'utima traccia dal Myanmar la dedico alla signora dagli occhi navigati che mi ha accompagnato alla guest house -chiamando un riscio' a proprie spese- attraverso una Yangon downtown allagata di buia pioggia torrenziale, alla signora della bancarella del cibo che forse mi attendeva da un destino infinito. Il pensiero conduce al taxista di Yagon con una sola estraibile manopola per i quattro finestrini del suo violentato mezzo; lungo il tragitto si e' fermato, ha acquistato da un ambulante betel e sigarette sfuse e poi, prima di rimettersi alla guida, mi ha offerto la sua spesa.
Non riesco a dimenticare il ragazzo timido seduto accanto nel bus per Taungoo: dopo avermi spiegato con estrema purezza il suo lavoro di piantatore di riso ha espirato con dolce calma: "Nel mio Paese non esiste democrazia".u beins
In questa isola paziente dal tempo rallentato ricordo il lavoratore di metalli preziosi con il quale era impossibile non essere felici in sua presenza. Ricco di solarita' virulenta racconta della sua Mandalay, dei figli, di tutto; ad un certo momento, forse confuso dal caldo, con un sorriso straripante afferma che potrei essere un perfetto attore cinematografico.
Sempre in Mandalay ho conosciuto una manciata di giovani monaci i quali mi hanno invitato a visitare il loro monastero e  i locali dove vivono. Nel semplicissimo dormitorio, seduti per terra bevendo the tiepido, hanno spiegato i loro studi di lingue straniere, la loro sete di conoscenza e la volonta' di appartenere ad un mondo piu' vasto.
Il pensiero finale lo dedico allo studente di Yangon che mi ha aiutato a districarmi tra la babele di bus arrugginiti della metropoli e poi, non contento, ha insistito nel pagarmi il biglietto.
Per queste persone e molte altre incrociate in un destino ramingo desidererei che il tempo mutasse, vorrei per loro minuti con forma e spazi diversi. Nello stesso momento -e per contrappasso- percepisco l'urgenza di conservare piccoli respiri di aria salutare del pianeta dal tempo rallentato.

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