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giovedì 7 aprile 2011

Spaesante primavera

L'asfalto era duro, quasi adamantino. Ewan camminava sopra di esso, e in giro, dentro, attorno, scorreva la grande citta'. Brividi di irrequietezza circolavano attraverso il suo corpo ad ogni passo, sulla strada, e un alito di spaesamento gli volteggiava intorno.
Pensava all'ultimo luogo perduto che ora si raccoglieva nella memoria: il bosco, la baita con le travi di larice, gli animali liberi e l'aria. Se ne ando' quando anche in alto era nata la primavera. Non c'erano motivazioni che lo avevano portato ad abbandonare la montagna: stava a suo agio nella solitudine del rifugio; semplicemente era venuto il momento di fare altro, di cavalcare un successivo ed incostante altrove. E poi lassu' veniva a trovarlo qualche valligiano con il quale compartiva pastose parole e silenzi significanti. Nel panorama risoluto che li circondava discorrevano di stagioni o di tempo, di incontri e di persone. E qualche volta parlavano di scelte impossibili.
La memoria lo faceva tornare a quel momento in cui si accorse che la primavera aveva minato l'assolutismo invernale. Vedeva i colori dell'erba che stavano virando dal giallo paglia ad una specie di verde, notava l'ingrossamento delle gemme di alcuni alberi, e sentiva gli animali agitati, ma la cosa piu' straordinaria accadde una sera. Ewan era uscito dalla baita per raccogliere la legna dal ripostiglio quando, con il cesto tra le mani ed il naso e la pelle che guardavano verso il tramonto scomparso, capì che qualcosa nell'aria era mutato: era un odore dolce indescrivibile, un aroma di caldofresco che anticipa la pioggia, quell'odore per cui inaleresti una vita e poi ancora. Perché lo sai cosa viene dopo.
Rimase per alcuni minuti fermo e gioioso, cercando inutilmente di decifrare il fluido che l'aria, attraverso le narici, gli portava al cervello. Una primavera stava timidamente aprendo la porta.

La montagna era uno dei tanti passaggi che Ewan aveva esperito, l'ultimo di una interminabile serie. Ora nella citta' ritrovava tracce di spaesamento che aveva conosciuto dopo due anni passati in Asia. In questo conglomerato di asfalto aveva vissuto p-smolto tempo, conosceva le vie, i quartieri e le persone, sapeva dei negozi e dei loro odori. Ewan percepiva il tutto contemporaneamente familiare ed estraneo, riconosceva l'ambiente ma non trovava piu' il suo significato quasi lo avesse dimenticato o appartenesse ad altri. Così si muoveva, tra certezze e ricamate stonature imitanti sonorita' lisergiche alla Hackett.
Ad un certo momento si fermo' davanti alla vetrina di un grande negozio di libri. Dopo aver osservato i titoli, guardo' la gente che si muoveva tra gli scaffali, e infine gli occhi focalizzarono la sua figura riflessa nella vetrata. Vide una persona robusta e slanciata, che non riusciva -o non voleva- trovare il suo futuro, un corpo imbevuto di irrequietezza nomade alla ricerca perenne del sentiero: l'invincibile e avversa strada delle possibilita', l’inutile percorso dello scopo.
Se mai fosse arrivata, la primavera in citta' era ormai lontana, e lui alieno in mezzo a volti sconosciuti, con addosso frammenti impalpabili di se stesso. Attraverso e nonostante questa apparente confusione, il futuro gli ammiccava ancora.

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mercoledì 16 marzo 2011

Una solitudine leggera

L'aveva vista tra le ombre conturbanti del bosco. Veloce e lieve.
Ewan si trovava ai limiti della radura per fare legna in una mattina solitaria e senza vento; ora che la neve si ritraeva di fronte alla temperatura della primavera poteva muoversi agilmente attorno alla baita.
La prima volta che la vide fu li', nel bosco. Piccola, affusolata, imprendibile, la volpe aveva deciso di fare la comparsa di fronte all'essere umano. Ewan conosceva le sue tracce composte, il suo pelo arancione e panna lasciato su qualche cespuglio, e qualcosa gli disse che l'avrebbe incontrata.
La seconda volta trovo' l'animale nei pressi della baita quando il sole era tornato a celarsi al di la' delle creste montagnose; fece appena in tempo a focalizzare la sua grande coda, ma era così svelta che anche questo incontro rimase confuso. Nonostante avesse visto quasi solo la porzione finale dell'animale la chiamo' Speedy, perché quello era il suo nome.

La solitudine era una compagna di Ewan. La piu' fedele. L'incrociava mentre guardava il panorama della valle, mentre tagliava la legna, quando preparava da mangiare. Prima di addormentarsi. Incontro' la solitudine molti anni prima, lontano, al di la' dell'oceano Atlantico, e temette per il suo effetto destabilizzante che si sommava al fatto di essere un ventenne in terra straniera; ma poi le era diventata amica e comincio' ad apprezzare alcuni suoi tratti. In quei momenti Ewan aveva sbandato un poco, aveva sbirciato oltre l'acido confine del non ritorno e, nel momento di maggiore spaesamento, ne era uscito forte, quasi inattaccabile. Quasi. Certo lassu' a volte parlava con essa -o forse dialogava con il proprio io- utilizzando breve frasi, parole con le quali aveva familiarità, intrecci di fonemi che scandivano le azioni; pensava che non c'era nulla di male sentire la voce, far risuonare la presenza della sua persona tra i solchi delle travi di legno della baita, disporre pacati suoni vocali tra le dune bianche di neve e, piu' lontano, tra gli alberi. Era un comportamento naturale come il respirare.

Quelle settimane solitarie in montagna provocavano in Ewan ulteriori effetti. Come si era abituato al sole equatoriale, a mangiare in condizioni di pessimo igiene nelle bancarelle di cibo sulla strada, agli ejenes e mariguís della selva che ti davano un prurito infinito, a parlare per anni una lingua diversa divenuta familiare, a mille e mille persone di citta' immense, Ewan stava conformandosi ai ritmi e le pause della terra alta a fine inverno.
Quasi a compensazione del suo parlare, ed in concomitanza con esso, dopo qualche giorno di permanenza nella baita il giovane era stato invaso dal silenzio interiore, un silenzio che si posizionava da qualche parte della mente e a volte interagiva con la solitudine. Molti sensi ne erano stati coinvolti: l'udito aveva allontanato i clacson infiniti dei tropici, affinandosi ai rumori lievi della Natura, l'olfatto riconosceva il cambio del vento e le ondate di primavera consumata provenienti dalla valle. Con questa attitudine a volte si diceva che sarebbe vissuto in quel posto tutta la vita. Aveva imparato a muoversi come si muove il vento tra gli RFalberi, camminando leggero e consapevole, e aveva visto e toccato come fanno gli animali della montagna.
Forse per questo Speedy, un giorno, le si mise di fronte. Ewan era seduto sulla panca con la schiena appoggiata al muro della baita, raccogliendo l'ultimo sole pomeridiano con gli occhi semichiusi, quando improvvisamente focalizzo' una forma ad una decina di metri da lui. Speedy era ferma, e lo stava guardando con quegli occhi imperturbabili a mandorla. All'inizio penso' che doveva fare qualcosa, invece non fece nulla. Uomo e animale erano fermi, straniati l'uno dall'altro, consci di cosa avrebbe portato quell'incontro.
Incorporati da un sole morente Speedy e Ewan si specchiavano nelle iridi immobili, in quelle lenti sul mondo, cercando in esse il significato sperduto della vita e delle cose; un significato antico come la terra, vicino e al contempo lontano, che a tratti gli esseri viventi percepiscono.
In quegli occhi leggermente a mandorla Ewan trovo' brandelli di sensazioni che aveva compreso ma mai condiviso: la fatica, la sofferenza e le perdite, ritrovo' passioni e incontri caduchi, memorie lontane e l'irrequietezza, tracce di comune appartenenza nomadica. E una composta solitudine.
Nessuno ricordo' quanto le iridi azzurre di Ewan e quelle gialle di Speedy si annullarono le une nelle altre, sotto lo scenario definitivo del cielo che si adagia verso il crepuscolo.

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venerdì 24 dicembre 2010

Buio su Bangkok

Zampe. Il bus ci porta celermente in avanti, nonostante l'oblio offuschi la destinazione. Una certezza sbilenca mi sussurra che il viaggio sara' inspiegabilmente tranquillo e veloce; niente forature di gomme, nessuno stop forzato presso ristoranti bollenti, basta fermate ogni venti metri per raccogliere qualche distratto passeggero. Dai vetri polverosi arriva una balugine di informi panorami tropicali: il Myanmar, credo.  Mentre ondeggio sento raschiare sulle assi di legno. Sono zampette.
Gli occhi si aprono e, nell'oscurita' rischiarata dalle mille luci della metropoli, vedo due forme allungate che si trascinano sul molo di legno annusando in giro con prudenza. Topi. Erano loro che accompagnavano il mio dormiveglia. Il tempo è scivolato sulle braccia, sopra la maglietta, sul corpo magro, per trattenersi intorno alla bottiglia di vino di riso. Affascinata dall'incedere lento del Chao Praya, quest'ultima rimanda ovunque frammenti di abbagli provenienti dal manto caleidoscopico del fiume, e da tutto l'universo brulicante che le si affastella ai lati e sopra, come un codice Morse luminoso conosciuto a pochi. Alzandomi da questo luogo che fa parte delle intime abitudini, raccolgo la bottiglia vuota e la rimetto nel sacchetto di plastica.
La citta' che non riposa mai mi accoglie nuovamente con le sue auto veloci, i tuk tuk ed i bus provenienti dal nulla con i numeri sbiaditi. Cammino per una quasi fresca Phra Athit alla ricerca di un locale dove mangiare. Bar e ristoranti costosi si intercalano abkk b minimarket e a venditori ambulanti. Scavalco luci e luci per ritrovarmi di fronte al locale dell'altro giorno: una stanza scarna con pareti macchiate dal tempo colma di tavolini che dall'interno rigurgitano sulla strada. Anche se è pieno di avventori all'inverosimile dico al gestore che vorrei mangiare. Mi accomodano presso un tavolo già occupato da tre persone; i due ragazzi e la ragazza mi sorridono accondiscendendo con grazia orientale, poi riprendono a cibarsi.
Quando la grossa ciotola di zuppa di noodles di riso viene posizionata di fronte a me cominciamo a intessere un diluito discorso. Sono tre malesi di origine cinese che vivono da generazioni a Penang. La ragazza, Lin Lin, affascinante, ha una carnagione così bianca che pare non abbia mai incontrato raggi solari. Wende, uno dei due maschi, emana dagli occhi sfuggenti una conoscenza profonda. L'altro componente del terzetto è piuttosto allegro causa probabilmente le birre sparse sul tavolo. Anche loro camminavano nella notte in cerca di qualcosa e hanno trovato questo posto frequentato da thailandesi.
Ad un certo punto il tipo più vivace propone di andare a Patpong. Lin Lin annuisce spostando occhi interrogativi da Wende in mia direzione.
“Va bene”, dico in rimando, posando orizzontalmente i bastoncini sui bordi della ciotola.
Conveniamo tutti che è meglio prendere un taxi, data la tarda ora.
Voliamo nel buio, e dai vetri cristallini dell'autovettura la Citta' degli Angeli ci scorre dentro, col traffico che finalmente inspira la meritata boccata di pace. I negozi del quartiere cinese, le bancarelle dei mercati diurni, le jeep dei militari, l'architettura del luogo, accettano, o meglio, si abbandonano alla tregua come le pause notturne durante la guerra di trincea.
Lin Lin e il ragazzo allegro soffiano dalla bocca note di una musica lontana mentre Wende li guarda a tratti sorridendo lievemente. Non riesco a svelare le sensazioni che provo in questo particolare momento: è come se la mente venga afferrata e liberata dalla mutevolezza, come simultaneamente straniarsi e sentirsi parte di un tutto inintelligibile, nuotare solitari nel mare infinito che ad ondate casuali incorporerà.
Intanto le insegne abbaglianti dai colori pornografici si infittiscono, certezza che siamo in prossimità di Sala Daeng. Davanti a noi, e sotto la vigorosa struttura di cemento armato dello skytrain, attraversano la strada due occidentali seguiti dalle loro amiche thailandesi.
Proprio qui nel taxi, con il sottofondo vocale dei compagni di viaggio, nel buio rischiarato a giorno di Patpong, e nell'oceano burrascoso dell'identità mutante, percepisco che la tessitura dell'instabile familiarità si rafforza.

giovedì 18 novembre 2010

Una mattina a Bangkok – parte due

Le infradito raschiano lievemente le piastrelle consumate del Ratchadamnoen Klang; il viale immenso termina da qualche parte nell'orizzonte composto e umido. Attorno sfilano passanti, taxisti in attesa di lavoro e qualche turista che si avventura fuori dai recinti ordinari senza un mezzo a motore. E poi c'è il traffico delle nove sopra una strada dalle mille corsie. Se non fosse per lo sciamare compulsivo di veicoli, questa zona della citta' sarebbe davvero piacevole, quasi perfetta: sulla destra l'università, il teatro e in lontananza il Palazzo reale, alle mie spalle il fiume carico di limo e piante acquatiche, davanti ancora monumenti. BKKIn  alto il monsone sfavilla nuvole placide che migrano verso nord.
Mi passo per l'ennesima volta la mano sulla fronte per allontanare sudore. Numero due. La prima traspirazione è arrivata quando facevo colazione, nonostante il ventilatore acceso sopra il capo; bevevo caffè tiepido e lì, dietro, sotto la maglietta, centinaia di goccioline convergevano in rivoli caldi che percorrevano la schiena per accumularsi nella stoffa dei pantaloni.
Ad una fermata del bus gli occhi cercano il numero 79. Nulla. Proseguo alla successiva trovando sul consunto cartello metallico quello che cercavo. Mi siedo su una panchina accanto ad un ragazzo, mentre decine di persone aspettano pazientemente i mezzi pubblici. Il giovane indossa calzoni neri attillati, camicia scura sovrastata da una vistosa collana d'oro, scarpe di tela; un ciuffo di capelli lisci copre buona parte della guancia brufolosa.
“Scusa, ogni quando passa il 79?”, chiedo.
Il ragazzo prima di rispondermi muove leggermente il busto in segno di disagio. “Ogni quindici minuti... più o meno”, dice timidamente.
Dopo poco arriva il mio bus arancione, prendo posto e attendo rilassato la bigliettaia con calzettoni corti e gonna blu di ordinanza. Quattordici baht. I passeggeri mi osservano per qualche secondo, poi riprendono a toccare il cellulare o a guardare fuori dal finestrino godendosi la temperatura all'interno del mezzo. Nessuno lo esprime esplicitamente quasi fosse un segreto profondo, ma sotto gli occhi dei viaggiatori riconosco il piacere dell'attimo, catturo la gioia di esporre pelle, vestiti, tutto, alla catarsi dell'aria condizionata.
Dal vetro le mie iridi salgono sul Monumento alla democrazia che si perde nel cielo indefinibile, toccano i contorni del Forte, il ponte sul canale, per poi percorrere la Lan Luang road.
La Citta' degli Angeli mi entra sempre con maggior forza come una oscura e tossica pozione; se dovessi analizzarmi assisterei dentro alla mente ad una battaglia selvaggia tra l'istinto liberatorio di abbandonarmi alla metropoli e la volontà programmatica che attinge da qualche insulsa razionalità. Perché non farsi trascinare dal mezzo in posti sconosciuti, alieni, in quartieri impossibili e magari ostili? Perché non perdersi in labirinti vergini all'occhio del viaggiatore?
Scendo alla fermata, attraverso una strada ed incontro quello che cercavo. Costeggiando parzialmente un canale alberato, a cavallo tra l'area storica e quella commerciale di questa immensa citta', ifruitl mercato della frutta mi si apre davanti. Mangostine, longan, banane, dragon fruit con polpa rossa e bianca, dolcissimi chirimoyas, manghi, avocado, noci di cocco e decine di altri frutti sono perfettamente allineati sulle bancarelle brulicanti di clienti. Giro tra gli stretti vicoli interni del mercato osservando, comparando i prezzi, perdendo tempo senza perderlo.
Fin da questa mattina, quando stavo disteso sul letto della stanza dalle pareti di cartongesso ipnotizzato dalle pale del ventilatore, programmavo di acquistare ad un costo ragionevole il re dei frutti tropicali, quello per cui vale la pena affrontare asfalto ed umidità.
Presso la bancarella che ho di fronte trovo cio’ che desideravo: un robusto giovane con guanti e grembiule rinforzato, munito di coltelli ed una specie di machete, mi mostra con orgoglio la montagna di spinosi durian che ha alle spalle. Mentre faccio pesare, stimo, annuso, alcuni passanti osservano incuriositi questo straniero piovuto dall'effimero con la maglietta inzuppata di sudore, disperso in un lontano mercato della Citta' degli Angeli; osservano il suo contrattare, il sorriso determinato, l'espressione del suo volto quando assaggia il loro frutto più intimo. Il durian impossibile.

domenica 31 ottobre 2010

Una mattina a Bangkok – parte uno

Nella Citta' degli Angeli la mattina arriva troppo in fretta. Apri gli occhi con il buio, rigiri il corpo magro nel duro materasso ed è già giorno. Le ore di luce mattutine che ti getta addosso il quartiere Banglamphu sono sempre silenziose, quasi a compensare gli eccessi della notte in una città molto generosa con gli uomini. Questo peduncolo di verde, hotel e case attaccato al Chao Praya river è come una cittadella proibita rimasta intatta agli algidi bombardamenti di aerei stranieri portatori di una loro democrazia, intonsa alla corrosione di un tempo che ha per unica arma la pazienza. Fuori Banglamphu, mostruose e gonfie arterie colme di metallici marchingegni si sfidano a vicenda affondando nell'afa per condurre da qualche parte persone e cose; linfa corrosiva e forse necessaria che avvolge e ancora avvolge. Dentro Banglamphu, regna il silenzio del feroce sole crescente, ammorbidito da nuvole monsoniche. Precisamente, nella piccola stanza dalle sottili pareti di cartongesso, un rumore costante mi circoscrive. Osservo le instancabili pale del ventilatore muoversi sotto il soffitto macchiato, un cerchio ipnotico il cui suono si e' fissato nel cervello fino ad annullarlo consciamente, dopo averlo incorporato tutta la notte. Rumore corrosivo ma necessario.
Dal soffitto sposto lo sguardo alle lenzuola che non coprono il corpo nudo: sono lì su un lato del letto solitario, spiegazzate, rattoppate dai buchi di brace di sigaretta, gialle a furia di lavaggi, quasi inutili. Solo verso l'alba, quando la temperatura si avvicina a qualcosa  che assomiglia vagamente alla passabilità, esse vengono cercate e magari posizionate sui piedi. Specularmente a quando il sole tramonta, le ore che accompagnano il sorgere del sole sono quelle del ristoro, dell'anelato impossibile fresco.

Sono sbarcato ieri pomeriggio nell'umida stazione dei bus di bkkEkkamai dopo un lungo viaggio proveniente dalla costa interna,  salito sullo skytrain, poi il familiare bus 15, Banglamphu. Niente tuk-tuk o taxi come fanno i turisti. Quando il giallo pallido del tramonto stava cedendo gli ultimi colori pastello alla notte entravo in un hotel economico dalla facciata pomposa, contrattavo il prezzo dopo aver dato un occhio alla camera e mollavo i polverosi bagagli. Poi fuori per acquistare una Leon e rambutan.

Allungo il braccio verso il comando del ventilatore per abbassare di un punto la velocità, tanto per ammorbidire la sua presenza sonora. Ora dalle pareti mi arriva il tossire della persona che dorme nella stanza accanto; da qualche parte una porta si chiude.  Alla mia sinistra -vicinissima al letto e sopra un mobiletto- vedo una piccola televisione sulla quale ho appoggiato lo spazzolino e il contenitore del sapone, monete, la chiave del lucchetto. La bottiglia dell'acqua è accanto all'elettrodomestico a cui ho staccato la spina. Sulla porta d'entrata è appeso l'asciugamano odorante di muffa e la maglietta che uso durante il giorno; i calzoni e lo zaino piccolo sono infilati nella cornice sporgente dello specchio accanto alla televisione. Precisamente, bisogna ottimizzare lo spazio. La borsa è ai piedi del letto accanto alla guida, l'usurata mappa della città, una birra vuota e le infradito. Il bagno si trova oltre la parete del letto; l'altra volta era fuori dalla stanza, ma non aveva importanza, ero e sono qui, nella Citta' degli Angeli.
Saranno le otto passate e fuori si ode qualche sporadica moto e nulla più oltre ai canti dei galli e il richiamo di qualche uccello dietro le mura di un monastero alberato.
Rimango ancora un tratto disteso osservando senza vedere la stanza, infilando pensieri raminghi e assaporando il fresco accumulato durante la notte; tra poco mi alzerò per raggiungere quello sconfinato viale che mi porterà fino in fondo alla Lan Luang road, sotto un cielo opalescente. Sono tranquillo perché qualsiasi ora mi alzerò sarà sempre troppo tardi e troppo caldo.

venerdì 9 luglio 2010

Incontri casuali a Yangon

L'aereo plana su uno strato di nuvole basse al di sotto delle quali compare improvvisamente la pista di atterraggio. Quanti abitanti conta Yangon? 5-6 milioni. Quanti velivoli vediamo nel maggior aeroporto della nazione? Cinque. Ecco il primo impatto con il boicottato regime autoritario del Myanmar.

Questo pomeriggio, dopo aver visitato una dorata pagoda che si affaccia sul Yangon river, comincia a scatenarsi un temporale che pare infinito. Apro l'ombrello ma la pioggia e' troppo insistente. Sulla mia sinistra si dispiegano una serie di teloni che radunano diverse bancarelle del cibo. Mi metto al riparo sotto uno di questi. La proprietaria mi sorride, quindi con un modo estremamente spontaneo mi porge la sedia di plastica rossa e una teiera di te' caldo da versarsi in un boccale di vetro. Sorseggiando il liquido amaro gli occhi volteggiano sulla struttura costituita da un lungo telone verde sorretto da pali di bambu', si arrampicano sulla luce al neon alimentata da una batteria di camion che illumina decine di pietanze conservate in pentole di acciaio, per infine posarsi su una decina di tavoli ricoperti da cerate nuove di zecca. Sopra i tavoli ci sono le teiere e i contenitori di plastica al cui interno si srotola carta igienica per pulirsi le mani. Il pavimento e' formato da terra battuta piuttosto irregolare. Sulla strada vedo passare camion che trasportano enormi tronchi, autobus, bici e molti furgoncini.
La pioggia sembra motivo di gioia e utilita' per i birmani: nell'altro lato della strada un bus urbano che propone la pubblicita' della Star cola viene allegramente pulito con spazzoloni da due uomini; ancora uomini in longyi si lavano il corpo con sapone bianco sotto una voluttuosa grondaia, poi incrocio monaci bambini a piedi scalzi, studenti e monelli nudi che giocano nelle grosse pozzanghere sopra le quali volteggiano rifiuti di ogni tipo.
Sono le 18 passate e la pioggia sembra aumentare di intensita': perche' dunque non approfittare del luogo? Con la gestualita' mi faccio portare un piatto di riso, dei pesciolini fritti e le gustose zucchine amare. La signora aggiunge al mio tavolo una scodella di brodo di verdura, delle fettine di cetriolo ed il chili. Mangio mentre cala la notte abbracciata dai lampi tropicali. Luci di fari si specchiano sulla strada sventrata dal traffico, illuminando frammentate sagome in movimento.
Ad un certo punto dal diluvio appare un ragazzo allegro completamente bagnato che si mette a scherzare con la proprietaria; quest'ultima mi guarda rendendomi partecipe del loro oscuro gioco. Come fossi un'altra persona divengo compagno di ritagli di vita di questi individui: un distillato purissimo dove le parole e le lingue cedono significato alla gestualita', ai simboli ed a una intesa imperscrutabile che trova comunanza tra esseri umani.
La pioggia continua a cadere ed i bordi della strada si stanno allagando; forse e' il momento di lasciare questo significativo e benefico tratto di viaggio del mio primo giorno in Myanmar.

mercoledì 23 giugno 2010

L’esperienza del Lasciare

Prima di abbandonare qualcosa è sempre così. Breve, lungo, definitivo, temporaneo, durante le frazioni del vivere sono diversi i sedimenti da cui ci si distacca. Hanno importanza relativa il luogo, il momento o lo stato emozionale: quello che cattura significato è il lasciare qualcosa divenuto familiare.
Nelle imprese dei secoli passati, ma anche nelle migrazioni attuali, la sofferenza della separazione era la componente primaria che dava forma e memoria al viandante  attraverso terre sconosciute. Il viaggiatore antico veniva considerato un'icona eroica ma anche tragica perché la partenza prefigurava un distacco quasi definitivo, un abbandono ricco di solitudine e di metafore assolute. vag

Manca poco alla separazione e un senso di inadeguatezza mi colpisce a tratti, il distacco è prossimo e la mente fatica ad accettare il cambiamento. Il quotidiano e i comportamenti che soggiornano nella tiepida palude delle abitudini collidono con la certezza negata di non essere più qui, di aver scelto ancora una volta l'allontanamento. Eppure sono convinto che presto il movimento libero si impossesserà di me portando nel semi-oblio quello che è rimasto dietro, quello che solo le spalle potranno ancora -e per poco- rimirare. E poi il solco della strada farà il resto. Ma fino a quando il flusso non mi porterà via, questo periodo di mezzo dell'attesa e del disorientamento rimarrà tale.

Lanciarsi in avanti con la testa alta, guardando l'indefinito con curiosità, attendendo le ondate lisergiche e pericolose dello spaesamento, combattendo con la fatica che purifica e accogliendo porzioni di sconosciuto che veicolano significato, mentre l'afflato bollente e acidulo di una mattina tropicale penetra nei polmoni. Ecco, sono qui, di fronte ad una nuova avventura che si inserisce nelle matrici intricate del destino. 
Vorrei poter scrivere come Ch'oe Pu: 'Sono portato dall'aria, la terra galleggia sotto di me',  sì, vorrei farlo.

 
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