venerdì 15 febbraio 2019

Dislivelli intorno al Machu Picchu

Lasciami sognare la prima volta al Machu Picchu: il treno in seconda classe insieme alla gente comune e la salita con l'inseparabile Andrea. La cittadella, le montagne tropicali e non troppi turisti. Come la bruma densa che si leva tra le felci e fitti cespugli, l'oblio ha offuscato i ricordi di altre vite.
Lasciami sognare il ritorno al Machu Picchu: il viaggio troppo lungo, la fatica e l'alba sul Huayna Picchu. Primo al Mirador, carajo.

I sogni che non sembrano sogni cominciano una mattina naturalmente fresca a Cusco. Il minivan lentamente raccoglie le persone. Quasi tutti single, quasi tutti giovani, quasi tutti americani. Machu Picchu by Car, 55 soles, scontati. Niente treno.

Usciamo dalla convulsa e misera periferia di Cusco al preludio della Festa del Sole per salire nell'altopiano. La strada porta vicino a siti archeologici straordinari come Chinchero, Maras, e i vetri del combi che lasciano passare la luce forte, i campi cinerini coltivati a graminacee, lagune e montagne innevate che quasi conoscono l'aria dei seimila metri. Poi si scende in basso: lunghi tornanti ci gettano a picco verso una profonda valle, la valle Sacra.

Raggiungiamo Ollantaytambo dopo circa due ore. Sosta convenzionata, tanti altri minivan che nel pomeriggio raggiungeranno il sentiero che porta a Aguas Calientes.
Dopo aver scambiato due parole con una tedesca che accarezzava i gattini il viaggio continua.

Da Ollantaytambo, 2750 m, la strada asfaltata sale prima tra paesini agricoli ombreggiati da eucalipti per poi penetrare gole strette che nascondono cime imprendibili. Tornanti vertiginosi. In pochi minuti l'aria torna fresca, fredda, fino ad un passo a circa 4300. I prodromi della valle successiva sono inizialmente brulli, macchiati da neve nomade. La ragazza messicana del posto davanti finalmente si addormenta dopo tante parole con la vicina.

A Santa Maria, 1250 m, fa caldo. Qui comincia la strada sterrata che porta alla central Hidroeléctrica. Salita. Santa Teresa ci accoglie nel primo pomeriggio. Il conducente del combi ci indica il ristorante dove pranzare. Mangio in un altro posto. Acquisto qualche banana.

Alla central Hidroeléctrica, 1800 m, dopo più di sei ore di viaggio ed una ubriacatura infinita di dislivelli, la strada termina. C'è una stazione il cui binario porta a Aguas.
Il cammino comincia nel delirio di gente che parte, rientra, grida, venditori ambulanti e polvere.

Presto la persone si diradano, quindi posso assorbire il panorama subtropicale che mi circonda. Alberi alti dalle foglie enormi, sottobosco fitto, richiami di uccelli esotici.  Il sentiero che guadagna Aguas Calientes costeggia il binario del treno. Il fiume Urubamba, ormai quasi nell'ombra, scivola placido verso il basso, col sole a destra che illumina montagne affilate piene di verde fino alla cima. Da qualche parte, oltre le ripidità, c'è il Machu Picchu.

Una dozzina di chilometri di cammino e Aguas Calientes è vinta in un'ora e quarantacinque. La mia polo è completamente bagnata.

Prima del paese un ragazzo simpatico mi chiede se ho prenotato un alloggio. "No".
"Sono il nipote del padrone del Puñuy Wasi", dice.
"Vero?".
Chiedo altre due cose e con ottimo umore per la prestazione fisica, mi faccio accompagnare all'hospedaje.

Lasciami allontanare la fatica, la sete sconvolgente e riposare perché domani sarà una delle giornate più spettacolari di sempre. Prima però una passeggiata serale ed una birra Cusqueña negra, la più forte.


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