Kuala Lumpur ti stordisce, annichilisce, distrugge e poi ti ricompone.
Arrivo nella capitale sotto un cielo amorfo del tardo pomeriggio. Il bus mi scarica a Pudu Sentral. Passo dall'aria controllata del mezzo pubblico alla brezza satura di inquinanti e calore della metropoli.
Sono il primo a risalire le scale che portano ai piani superiori della stazione dei bus, dove luccicanti negozi e uffici delle compagnie di
trasporto vedono passare una veloce figura con uno zaino/bagaglio che pesa meno di nove chili. Le gambe varcano il passaggio sopraelevato del viale Pudu colmo di flusso vitale e cancerogeno del traffico. Dall'altra parte c'e' l'hostel Pudu dove avevo dormito tre anni or sono. No. E' chiuso.
Chiedo conferma ad un corpulento taxista indiano che mi consiglia altri posti situati nella parallela superiore del Pudu. Passo un tempio hindu pieno di confusione e aromi dolci.
Nel primo alloggio che visito, un grosso stabile coloniale, ho due tipi di stanze economiche: con o senza finestra. Le visito: bagno in comune, locali angusti con ventola a soffitta e pareti di cartongesso, odore di incensi e di corpi silenti. Il terzo hotel e' gestito da indiani. La signora mi porge la chiave per verificare la stanza che possiede muri di mattoni, finestra dalla quale entra il brontolio immortale della citta', televisione, ventola rumorosa, lenzuola con qualche macchia ma pulite, federe a posto, anche se e' meglio rimuovere dagli occhi il colore una volta bianco dei cuscini. Specchio crepato e scrivania con cassetto mancante. I bagni esterni non hanno lavandino, solo un rubinetto sotto il quale un secchio (ed un contenitore piu' piccolo) servono a diversi scopi tra i quali docciarsi. Appendini arrugginiti e tubi del soffitto a vista. Prendo la stanza.
Fuori e' buio quando cerco un posto dove mangiare. Dal ristorantino malese-indiano pieno di ventilatori si domina una porzione di strada; sulle iridi passano babilonie di etnie e simboli. Scritte in cinese, malese, inglese, coreano, neon sgargianti che illuminano corpi dalla carnagione chiara, meticcia e bruna. Ragazzi vestiti all'occidentale, tudong, canotte, maglie con scritte psichedeliche, cappelli, visi che si specchiano su schermi di smartphone. E poi isolati turisti stravolti dal caldo, spaesati immigrati, genti con storie che sfuggono. Immagini reali ed al contempo cinematiche riconducibili a molte pellicole occidentali. Immagini di perfette convivenze ed impossibili integrazioni tra culture.
Il riso ed il curry sono spariti velocemente dal mio piatto, e la notte di Kuala Lumpur entra piano in questo locale appollaiato sul traffico, dispensando qualcosa che somiglia ad aria meno torrida. E' ora di uscire per muovere quattro passi in direzione della moschea Jamek.
Diritti riservati Creative Commons
Arrivo nella capitale sotto un cielo amorfo del tardo pomeriggio. Il bus mi scarica a Pudu Sentral. Passo dall'aria controllata del mezzo pubblico alla brezza satura di inquinanti e calore della metropoli.
Sono il primo a risalire le scale che portano ai piani superiori della stazione dei bus, dove luccicanti negozi e uffici delle compagnie di
trasporto vedono passare una veloce figura con uno zaino/bagaglio che pesa meno di nove chili. Le gambe varcano il passaggio sopraelevato del viale Pudu colmo di flusso vitale e cancerogeno del traffico. Dall'altra parte c'e' l'hostel Pudu dove avevo dormito tre anni or sono. No. E' chiuso.
Chiedo conferma ad un corpulento taxista indiano che mi consiglia altri posti situati nella parallela superiore del Pudu. Passo un tempio hindu pieno di confusione e aromi dolci.
Nel primo alloggio che visito, un grosso stabile coloniale, ho due tipi di stanze economiche: con o senza finestra. Le visito: bagno in comune, locali angusti con ventola a soffitta e pareti di cartongesso, odore di incensi e di corpi silenti. Il terzo hotel e' gestito da indiani. La signora mi porge la chiave per verificare la stanza che possiede muri di mattoni, finestra dalla quale entra il brontolio immortale della citta', televisione, ventola rumorosa, lenzuola con qualche macchia ma pulite, federe a posto, anche se e' meglio rimuovere dagli occhi il colore una volta bianco dei cuscini. Specchio crepato e scrivania con cassetto mancante. I bagni esterni non hanno lavandino, solo un rubinetto sotto il quale un secchio (ed un contenitore piu' piccolo) servono a diversi scopi tra i quali docciarsi. Appendini arrugginiti e tubi del soffitto a vista. Prendo la stanza.
Fuori e' buio quando cerco un posto dove mangiare. Dal ristorantino malese-indiano pieno di ventilatori si domina una porzione di strada; sulle iridi passano babilonie di etnie e simboli. Scritte in cinese, malese, inglese, coreano, neon sgargianti che illuminano corpi dalla carnagione chiara, meticcia e bruna. Ragazzi vestiti all'occidentale, tudong, canotte, maglie con scritte psichedeliche, cappelli, visi che si specchiano su schermi di smartphone. E poi isolati turisti stravolti dal caldo, spaesati immigrati, genti con storie che sfuggono. Immagini reali ed al contempo cinematiche riconducibili a molte pellicole occidentali. Immagini di perfette convivenze ed impossibili integrazioni tra culture.
Il riso ed il curry sono spariti velocemente dal mio piatto, e la notte di Kuala Lumpur entra piano in questo locale appollaiato sul traffico, dispensando qualcosa che somiglia ad aria meno torrida. E' ora di uscire per muovere quattro passi in direzione della moschea Jamek.
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