martedì 12 marzo 2024

Il filo spinato di Nicosia

Tutti sanno che Nicosia è una città divisa. Così bella e così separata.

Ogni giorno percorro un pezzo di confine che amputa in due Lefkosía, dalla parte greco cipriota, quindi da quella invasa dalla Turchia. Sfioro con le mani e con lo spirito i muri, le torrette, il filo spinato, i cartelli minacciosi, osservando, e quando possibile guardando oltre. Vedo gli edifici e le strutture della zona cuscinetto fermati dal tempo, al periodo della tregua forzata. Mi chiedo chi viveva in quelle case crivellate da colpi di armi pesanti, quali erano le loro emozioni e le speranze prima che venissero deportati in un altrove. Ora è una intercapedine fantasma che testimonia i conflitti umani senza soluzione. Un set cinematografico apocalittico di scarsa categoria ora in disuso, ripreso continuamente da decine di telecamere estremamente tecnologiche.
Oggi decido di visitare questa lacerazione dalla porzione turca. Passo il posto di controllo greco cipriota di Ledras Street, cammino piano nella zona di interdizione, quindi mostro i documenti alla controparte turco cipriota. Eludo efficacemente i procacciatori e prendo il primo vicolo a sinistra. Velocemente i negozi per turisti scemano, lasciando posto a case modeste e a una serie di officine meccaniche quando ci si congiunge con una via più ampia. I passi cercano il Sud, la zona di confine, l’ultima testimonianza fisica del conflitto. Entro presto in un quartiere di edifici storici, dove a destra noto uno scheletro di chiesa, mentre a sinistra la via improvvisamente cessa di esistere: un imponente cancello rinforzato dal filo spinato e da cartelli militari bloccano l’accesso alla zona di nessuno. Anche se non vedo alcuno in giro non mi azzardo a fotografare le ville abbandonate dell’aldilà, coperte dagli alberi e dal disfacimento. Paradossalmente mentre il tempo e le rimozioni allontanano le angustie della guerra civile e dell’invasione, il decadimento progressivo delle abitazioni, le insegne polverose, la ruggine, con le piante spontanee che colonizzano il cemento e i balconi, amplificano lo squarcio nella memoria del Paese.
Da un punto più alto osservo la vicinissima, altra, Nicosia con le chiese così unite nelle loro differenze, e la sua modernità. Guardando a Sud.

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Fonte: WEB

 Fonte: WEB

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giovedì 29 febbraio 2024

I monti Troodos a Cipro

 

Alle 9:20 passa il 64, l’unico mezzo pubblico che porta alle Troodos mountains. Qualche centinaia di metri lungo la passeggiata costiera di Lemesos e sono alla fermata del 64, di fronte ai giardini. Dai finestrini scorrono le spiagge fecondate dal mare Mediterraneo, la promenade, Old Hospital, e poi diritti verso nord, verso il centro dell’isola di Cipro. Sul bus qualche turista, gente del luogo e lavoratori stranieri.

L’autista ci conduce su colline di roccia bianca solcate da ulivi, da piante da frutto, da boschi. Ogni tanto passa un borgo con case basse colorate di chiaro.

Alle 11 siamo a Troodos square. Tutti scendono.

Dopo essermi orientato, in modo istintivo sono alla partenza del sentiero numero 10. Percorso troppo lungo per il mio tempo a disposizione, secondo la signora dell’ufficio turistico di Lemesos. Compongo i bastoncini da trekking e sono pronto per il giro circolare attorno al monte Olimpo, immerso in un fitto bosco di pinus brutia.

Percorro alcuni umidi avvallamenti settentrionali, accompagnato dai canti festosi degli uccelli che annunciano la primavera, con il terreno gravido di macchie di bucaneve autoctoni, giunti dopo le nevi.

Passando dal versante nord a quello est e poi meridionale, molto cambia. Il bosco di pini neri si dirada, si abbassa, quasi  scompare, lasciando nel suolo arancione di pietre bianche, bassi cespugli globosi, splendide essenze di cipressi locali (j. foetidissima) e di cedro di Cipro. Tutte le piante poste a meridione conoscono le avversità estreme del clima. Soprattutto loro.

Sotto le brezze che soffiano svogliatamente da sud est, con il sole che riscalda il corpo, manca solo una cosa: il mare. Esso appare ben presto, oltre le colline verdi di Cipro, portando con il vento favorevole aromi alieni che si mischiano alle resine dei sempreverdi locali.

Continuo veloce il percorso circolare numero 10 nel parco nazionale dei monti Troodos senza quasi dislivello, incrociando rari escursionisti, penetrando piccole valli dove la vegetazione è più fitta. In una di queste depressioni incontro un cipresso dal tronco maestoso. Il cartello spiega che questo padre generatore ha 800 anni di vita.

Le prime macchie di neve le trovo a ovest e poi a nord. Sono sotto quasi 200 metri rispetto al monte Olimpo (1950 m) con le sue piste che da poco hanno chiuso agli sciatori.

In 2 ore e 55 minuti concludo il percorso di 14 chilometri. Ben in tempo per prendere il bus che torna in prossimità del mare Mediterraneo. Un altro mondo. I cieli sopra le Troodos mountains non verranno dimenticati. 

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giovedì 7 dicembre 2023

Passione per La Graciosa

 

La Graciosa è il mio deserto, l’amore, lo stato di coscienza inalterato. Tanti giorni passati godendo ciascuna singola particella di presente, dove la consapevolezza si congiungeva e si disperdeva nell’anima della isola. Camminare, osservare, camminare, conoscere, rendere grazie. E ancora muoversi.

Sono due settimane che vago per sentieri incontrando quasi nessuno, facendo tacere la voce in favore del silenzio, dell’ascolto.

All’interno della riserva marina dell’arcipelago Chinijo, La Graciosa è una gemma di terra vulcanica che misura meno di dieci chilometri per cinque, all’estremo nord delle Canarie.

Questa mattina La Graciosa mi accoglie al meglio. Finalmente sono tornati i venti alisei. Il cielo turchese è profondamente intrecciato con innoque nuvole procedenti da settentrione. Esco dall’alloggio posto all’estremo est del villaggio di Caleta de Sebo e sono Dentro. Basta un passo e sono nella Natura. Oggi andiamo a est e poi a nord.

Prendo un sentiero che guarda dall’alto la costa tra radi cespugli di matabrusca e aulaga, un sentiero di sabbia che il vento ha rubato al mare. A sud, oltre lo stretto, scorrono le imponenti scogliere di Lanzarote, mentre a nord sono protetto dalle rocce scure che virano nel color porpora delle Agujas, la cui altezza massima giunge a 226 metri. La temperatura è ottima.

Avvicinandomi alle pendici delle colline e ai solchi tatuati nel tempo dalla rara acqua piovana, tra lievi avvallamenti il deserto permette la crescita alla tabaiba, a vigorosi cespugli di balancón, al matomoro. E alla pianta endemica favorita: la Kleinia neiirifolia, il verode.

Arrivato al barranco Conejos, entro nella sua fenditura e la discendo agilmente fino la mare. A sinistra ho il sentiero costiero che mi porta alle poche case di Pedro Barba. Proseguo brevemente fino alla punta est dell’isola e, mirando al norte, puntando a nord, sono salutato dagli alisei.

Le prima parte del sentiero si sviluppa tra aguzze roccette vulcaniche avare di vegetazione, mentre in lontananza vedo una specie di geyser che sputa acqua. Appena arrivato scopro che questo getto è provocato da un foro nella roccia nel quale le onde marine trovano periodico sfogo.

Proseguendo la costa verso nord, il paesaggio cambia decisamente: l’ambiente torna a essere sabbioso, con insenature dove possenti cavalloni dell’oceano Atlantico divenuto aperto offrono spettacolo senza fine. In lontananza si notano le altre piccole isole dell’arcipelago.

Il pellegrinaggio mi conduce fino a playa Ambar, quindi torno inizialmente per lo stesso percorso ma leggermente più nell’entroterra, passando accanto a una area protetta modellata da dune di sabbia. Sono da poco passate le 17, il momento che preferisco: nessuno in giro tranne qualche gabbiano felice, e la luce del sole inclinata. Visioni paradisiache.

Ritorno a Caleta de Sebo percorrendo un sentiero alto sopra il barranco Conejos, con il sole che discende a ovest negli occhi.

Nel silenzio del territorio e nel mio silenzio, al riparo dagli alisei, sento le onde lontane che si frantumano sulla costa vulcanica, i passi, e percepisco il sussurro delle essenze canarie, le mie piante. Una passione che non si estingue.

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sabato 4 marzo 2023

Fratelli argentini nel parco nazionale Los Alerces

 

Leo e Fer li conosco per caso. Stavo cercando un alloggio a Trèvelin, e mi fermo a chiedere in una cartoleria accanto la scuola. Ne esco almeno due ore dopo con la promessa di rivedermi con i due proprietari. Insieme alla Bolivia tropicale, Argentina è la Casa adottiva.

Ho da poco attraversato il confine cileno al passo del río Futaleufú.  Ho lasciato la regione dei Laghi cavalcando le Ande, immerso nei suoi panorami indescrivibili, e ora mi trovo nella provincia Chubut. Trevelin. Come mi conferma l’amico John da Coyhaique, anche se siamo a fine febbraio, il clima della Patagonia pacifica sta lentamente peggiorando, così pure la sua variabilità. Meglio spostare lo sguardo (e la passione) da sud a est, nella Patagonia argentina.

Sabato mattina sono sulla Ford di Leo e Fer per una nuova visita nel parco nazionale Los Alerces. Questa volta con due guide di straprima categoria. Avvicinandoci alla catena andina si nota come l’umidità influisca sulla vegetazione: in pochi chilometri essa si fa più rigogliosa e potente. Varchiamo rapidi il posto di controllo dei guardiaparco con lo status privilegiato di residenti e penetriamo una delle riserve naturali più affascinanti della Patagonia.

La strada divenuta polverosa costeggia laghi e laghi, mentre il socievole Leo racconta le diverse località dove hanno vissuto, Terra del fuoco inclusa, per poi decidere di stabilirsi a Trevelin. La cittadina è piaciuta a Fer e al marito; la vicinanza delle università per i figli e, non ultimo, la contiguità con il parco hanno portato la famiglia a fermarsi nella provincia Chubut. Il racconto viene spesso interrotto per informare riguardo i vari punti del territorio attraversati.

Le mie esperte guide si fermano in un parcheggio gratuito dopo la conosciuta passerella sopra il río Arrayanes. Portiamo l’essenziale: acqua, il binocolo e una carta per riconoscere la fauna. Il clima si sta faticosamente riscaldando, nonostante il  vento occidentale offra continui tappeti di nuvole alte.

Il sentiero che subito inforchiamo serpeggia tra saliscendi nei boschi sempreverde di sua maestosità il coihue, accompagnati da maitén, e dai tronchi chiari e levigati del arrayan. Odore di muschio e acqua. Camminiamo in ascesa fino al mirador alto sopra il lago Verde. Gli occhi spaziano da montagne di alberi a montagne innevate verso il Cile, al sottostante lago Verde che viene alimentato dal lago Rivadavia attraverso un fiume. Quando Dio ha creato la fabbrica dei laghi ha pensato a questi luoghi.

Poco dopo Fer indica il cielo, esclamando: “Guarda Estefano, due condor!”. I rapaci dalle ali superiori di color chiaro volano in moto circolare, in equilibrio perfetto con quello che li avvolge, allontanandosi verso l’alto.

Nella passerella sopra il río Arrayanes incontriamo molti turisti. Attraverso il ponte è possibile raggiungere il lago Menéndez e porto Chucao. Da questo porticciolo immerso nel bosco riconosciamo cigni dal collo nero, un veloce Martin pescatore e anatre australi.

Raggiunta l’auto viene estratta la borsa del mate, quindi andiamo a sorbirlo lungo la riva pacifica del lago Verde. Yerba mate prodotta da Fer, un yuyo speciale, tassativamente senza zucchero. Sto bene. Un nuovo fratello e una sorella.

 

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