venerdì 26 maggio 2017

Sulla strada Leh-Manali


venerdì 12 maggio 2017

Khardung La, il passo carrozzabile più alto del mondo

L'alba a Leh è arrivata un'altra volta. Il sole scavalca piano le cime aride che coronano la città. Lascio la guest house dopo le 6. Alla mia destra domina Lui, il palazzo di Leh, con i suoi monasteri. L'aria fresca è senza vento.
In dieci minuti sono a Polo Ground diventato un polveroso parcheggio che odora di orina. Le jeep collettive che vanno per la Nubra valley si trovano appena all'entrata del parcheggio. Una famiglia di post-hippies francese aspetta altri tre passeggeri per partire. Dopo aver scambiato una frase con il conducente e salutato i francesi, poso lo zaino in attesa di altre due anime viaggianti che non arriveranno.

Attorno a me la strada brulica di uomini bassi dalla pelle scura provenienti da stati più meridionali. Le loro chiacchiere animate sono intervallate dall'aspirazione di sigarette e da sputi catarrosi. La maggioranza di questi giovani uomini in attesa di essere caricati sui camion per lavori giornalieri dimostra venti anni in più. Scuolabus, mezzi pesanti che rigurgitano fumo nero, minivan, le jeep dei viaggi organizzati passano strombazzando come da protocollo.
    
Dopo quasi due ore partiamo. Subito la jeep si inerpica per salite e tornanti, arrivando a dominare completamente la città di Leh, capitale del Regno Alto, Maestoso, del Ladakh. Appena oltre la sua conca verdeggiante di pioppi dai quali fioriscono dorati stupa, il secco, la polvere, l'austera aridità prevale su tutto. Verso sud, oltre la valle dell'Indo, troneggiano cime di 6000 metri dai ghiacciai perenni. Presto veniamo inghiottiti da colline monocolore che solo raramente consentono la visione lunga verso meridione.

Passato South Pullu la strada continua ad essere asfaltata, ma ancora per poco. Una valle stretta terminante con un ghiacciaio si apre davanti a noi. Alcune cime vicine vengono offuscate dalle nuvole.

Appena passate alcune strisce di bandierine buddiste che donano i loro mantra di pace al vento, osservo l'altimetro che segna la cifra spettacolare di... 4999 metri: scatto una foto con l'orologio, il braccio abbronzato punteggiato da pelle d'oca e la pista deserta che sale verso il passo più alto che esista. Dove ci porta la strada? Oltre l'immaginabile, oltre la lingua del ghiacciaio che guarda a nord, nelle nuvole del cielo dell'Asia centrale.

Giunti al passo Khardung, 5359 m, io e i francesi siamo un pelino emozionati. La jeep Tata si ferma e usciamo a respirare l'aria povera di ossigeno ma ricca di tutto quello che può gratificare una solitaria anima errante. Grazie. 

Grazie per le visioni ultraterrene di montagne lunari solcate da vestigia di torrenti antichi, delle rocce e la polvere che prosciugano microscopiche porzioni di verde resistente, grazie per le vette innevate a sud che guardano verso la Zanskar valley, gioiello sconosciuto di tutti i fiori di Loto.
Grazie alle nuvole che occludono parzialmente la vista a nord ed a est, in modo tale che la mente possa fantasticare sulle cime di 7000 e 8000 metri che proprio in quei luoghi si elevano.






giovedì 27 aprile 2017

Visioni dal monastero Karsha


venerdì 14 aprile 2017

Struttura di un'orazione. Karsha monastery

Gli scalini di pietra non terminano mai. Atomi di quiete salgono con me verso l'alto. Centoventi metri di dislivello per raggiungere la sala della preghiera. La prima puja a Karsha.
Nel frattempo la valle Zanskar e le sue montagne himalayane a sud si illuminano del crepuscolo. Il corno suona la seconda volta nel cielo, a 3680 metri di altitudine.
 
Siedo in fondo, sul tappeto. Davanti a me uno stretto tavolino. I monaci si prostrano a terra, recitando suoni mantrici; i loro abiti purpurei aleggiano sul consumato pavimento di legno, sollevando minute particelle di polvere.  La prima luce del giorno si mischia a quelle elettriche che illuminano il monastero più antico della valle Zanskar.
Una volta tutti seduti, i monaci bambini cominciano a distribuire tè con latte attraverso grosse teiere di alluminio. Mi fanno avere una tazza mentre piedi piccoli sgambettano veloci nella sala. Inizia la preghiera. Lamenti e litanie inondano l'ambiente, guidate da un monaco anziano che dirige le letture. Tonalità basse si mischiano a quelle mormoranti ed acute dei bambini. Fuori gli uccelli cantano lodi al giorno nuovo.

La sala dalle colonne di legno è attorniata da affreschi murari, da scaffali dorati contenenti immagini del Buddha e rotoli di pergamena di antiche preghiere. In mezzo al locale si leva in alto una gigante figura di Buddha, la cui testa si innalza verso una cupola vetrata superiore.
Ad un certo punto l'orazione si ferma, arriva il tè al burro salato, ed un giovane comincia a mostrare alcuni oggetti e denari provenienti da donazioni, leggendo in seguito alcuni annunci.
Ricomincia la puja. Sali, vola, espandi il mantra primigenio: Om MaNi Padme Hum.
Con il sapore di burro sulle labbra cerco me stesso con disincantata intensità, partecipando all'orazione collettiva. I monaci muovono lentamente il proprio tronco avanti ed indietro. Qualcuno suona campanelle tibetane ed una percussione. Teiere fumanti continuano a girare nel monastero per congedare il fresco del primo mattino.
Il monaco bambino accanto mi offre due biscotti. Il vero gioiello del fiore di Loto.

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