venerdì 9 luglio 2010

Incontri casuali a Yangon

L'aereo plana su uno strato di nuvole basse al di sotto delle quali compare improvvisamente la pista di atterraggio. Quanti abitanti conta Yangon? 5-6 milioni. Quanti velivoli vediamo nel maggior aeroporto della nazione? Cinque. Ecco il primo impatto con il boicottato regime autoritario del Myanmar.

Questo pomeriggio, dopo aver visitato una dorata pagoda che si affaccia sul Yangon river, comincia a scatenarsi un temporale che pare infinito. Apro l'ombrello ma la pioggia e' troppo insistente. Sulla mia sinistra si dispiegano una serie di teloni che radunano diverse bancarelle del cibo. Mi metto al riparo sotto uno di questi. La proprietaria mi sorride, quindi con un modo estremamente spontaneo mi porge la sedia di plastica rossa e una teiera di te' caldo da versarsi in un boccale di vetro. Sorseggiando il liquido amaro gli occhi volteggiano sulla struttura costituita da un lungo telone verde sorretto da pali di bambu', si arrampicano sulla luce al neon alimentata da una batteria di camion che illumina decine di pietanze conservate in pentole di acciaio, per infine posarsi su una decina di tavoli ricoperti da cerate nuove di zecca. Sopra i tavoli ci sono le teiere e i contenitori di plastica al cui interno si srotola carta igienica per pulirsi le mani. Il pavimento e' formato da terra battuta piuttosto irregolare. Sulla strada vedo passare camion che trasportano enormi tronchi, autobus, bici e molti furgoncini.
La pioggia sembra motivo di gioia e utilita' per i birmani: nell'altro lato della strada un bus urbano che propone la pubblicita' della Star cola viene allegramente pulito con spazzoloni da due uomini; ancora uomini in longyi si lavano il corpo con sapone bianco sotto una voluttuosa grondaia, poi incrocio monaci bambini a piedi scalzi, studenti e monelli nudi che giocano nelle grosse pozzanghere sopra le quali volteggiano rifiuti di ogni tipo.
Sono le 18 passate e la pioggia sembra aumentare di intensita': perche' dunque non approfittare del luogo? Con la gestualita' mi faccio portare un piatto di riso, dei pesciolini fritti e le gustose zucchine amare. La signora aggiunge al mio tavolo una scodella di brodo di verdura, delle fettine di cetriolo ed il chili. Mangio mentre cala la notte abbracciata dai lampi tropicali. Luci di fari si specchiano sulla strada sventrata dal traffico, illuminando frammentate sagome in movimento.
Ad un certo punto dal diluvio appare un ragazzo allegro completamente bagnato che si mette a scherzare con la proprietaria; quest'ultima mi guarda rendendomi partecipe del loro oscuro gioco. Come fossi un'altra persona divengo compagno di ritagli di vita di questi individui: un distillato purissimo dove le parole e le lingue cedono significato alla gestualita', ai simboli ed a una intesa imperscrutabile che trova comunanza tra esseri umani.
La pioggia continua a cadere ed i bordi della strada si stanno allagando; forse e' il momento di lasciare questo significativo e benefico tratto di viaggio del mio primo giorno in Myanmar.

sabato 3 luglio 2010

Da Pattaya a Bangkok

Il signore seduto davanti a me ha le mani scure e forti. I contorni delle sue unghie sono marchiate dal nero, forse e' il lavoro in officina. Porta una camicia blu ed un paio di bermuda verdi colmi di tasche laterali. Si e' portato per il viaggio un sacchetto di biscotti ed una bevanda color rosso venduta in tutto il mondo non certo per le sue proprieta' qualitative. Chissa' cosa andra' a fare a Bangkok il signore con la camicia blu, mi chiedo mentre ai fianchi scorrono colline ricoperte di alberi, palme da cocco, bandiere cangianti della Thailandia e ombrelloni dei venditori ambulanti. Un cielo monsonico costellato da nuvole in continuo accavallamento tra loro si libra sopra le nostre teste; una incomprensibile straordinaria ordinarieta' mi si posa sugli occhi e su quello che guardano, come se viaggiassi all'infinito.


Ancora una volta in movimento dentro il mondo, qui, assaporando The man with the movie camera dei Cinematic Orchestra, seduto nei posti terminali del bus. Volo insieme alla chitarra cinematica anche se la mente e' occupata ad elaborare quello che ho visto in questi ultimi giorni. Per riassumerlo potrei citare ancora musica con un crudo e realistico pezzo di Frank Zappa, ma basta far scorrere lo sguardo in avanti di alcuni posti per incontrare il classico frequentatore di Pattaya: maschio occidentale, abbronzato e tatuato, canotta, calzoni corti, capelli rasati per nascondere inutilmente la calvizie, corporatura abbondante e pancia da birra. A suo fianco l'acccompagna una ragazza thailandese che avra' venti anni meno di lui. Tento un difficile lavoro di fantasia ma non riesco ad immaginarmi questo individuo nel suo paese di origine; cerco di pensare che impiego potrebbe svolgere con la maggiore cattiveria possibile ma e' inutile, il lavoro e' troppo una cosa seria. Dalla finestra del mio alloggio questa mattina vedevo uomini vagare soli come zombie, anzi, come vampiri da film di serie B che fuggono dalla luce del giorno per rintanarsi nei loro lussuosi alberghi dopo una notte di alcol e 'Amore senza amore' (G. Marquez) in qualche hotel dalle pareti sporche con lenzuola rammendate da buchi di brace di sigaretta.

Il bus scorre veloce sotto questo cielo paziente zeppo di nuvole, anche se presto dovra' arrendersi alla periferia di Bangkok, dove il traffico infernale della citta' degli angeli rallentera' fino quasi ad azzerare il suo incedere. Quanti passeggeri, quante speranze e quanta solitudine piu' o meno infangata dovra' ancora portare?

mercoledì 23 giugno 2010

L’esperienza del Lasciare

Prima di abbandonare qualcosa è sempre così. Breve, lungo, definitivo, temporaneo, durante le frazioni del vivere sono diversi i sedimenti da cui ci si distacca. Hanno importanza relativa il luogo, il momento o lo stato emozionale: quello che cattura significato è il lasciare qualcosa divenuto familiare.
Nelle imprese dei secoli passati, ma anche nelle migrazioni attuali, la sofferenza della separazione era la componente primaria che dava forma e memoria al viandante  attraverso terre sconosciute. Il viaggiatore antico veniva considerato un'icona eroica ma anche tragica perché la partenza prefigurava un distacco quasi definitivo, un abbandono ricco di solitudine e di metafore assolute. vag

Manca poco alla separazione e un senso di inadeguatezza mi colpisce a tratti, il distacco è prossimo e la mente fatica ad accettare il cambiamento. Il quotidiano e i comportamenti che soggiornano nella tiepida palude delle abitudini collidono con la certezza negata di non essere più qui, di aver scelto ancora una volta l'allontanamento. Eppure sono convinto che presto il movimento libero si impossesserà di me portando nel semi-oblio quello che è rimasto dietro, quello che solo le spalle potranno ancora -e per poco- rimirare. E poi il solco della strada farà il resto. Ma fino a quando il flusso non mi porterà via, questo periodo di mezzo dell'attesa e del disorientamento rimarrà tale.

Lanciarsi in avanti con la testa alta, guardando l'indefinito con curiosità, attendendo le ondate lisergiche e pericolose dello spaesamento, combattendo con la fatica che purifica e accogliendo porzioni di sconosciuto che veicolano significato, mentre l'afflato bollente e acidulo di una mattina tropicale penetra nei polmoni. Ecco, sono qui, di fronte ad una nuova avventura che si inserisce nelle matrici intricate del destino. 
Vorrei poter scrivere come Ch'oe Pu: 'Sono portato dall'aria, la terra galleggia sotto di me',  sì, vorrei farlo.

giovedì 3 giugno 2010

La fine della Panamericana

Un breve tratto di mare e poi verso la fine della strada motorizzata più lunga del mondo. Quasi quarantottomila chilometri di asfalto che affondano nelle vene di questo continente dove il viaggio nei sentieri della Natura e del tempo è ancora realizzabile. Il traghetto mi congiunge all'arcipelago di Chiloé, che ora è parzialmente occultato da una leggera nebbia marina, quasi fosse un'isola lontana del nord Europa. Anche se il mio vagare non è terminato, sento che qualcosa sta per chiudersi insieme alla Ruta 5, la Panamericana.
Sotto di noi un mare impenetrabile per effetto del moto ondoso ed un riverbero di provenienza indefinita. Raggi di sole sbilenchi filtrano tra nuvole cariche di cromaticità variabile; proiettando lo sguardo che dal filo dell'acqua raggiunge la terraferma a nord, si ricevono diverse sensazioni disarmoniche tra loro: luce al tramonto, arrivo di un temporale, occhi che osservano il mondo attraverso filtri improbabili. In alcune porzioni di cielo, nuvole e mare gareggiano a riflettersi il grigio, come in un continuo gioco di specchi. 
Il bus della Cruz del Sur vola sui prati verdi macchiati dal giallo del freddo dove pascolano bovini, attraversa fattorie di legno, boschi scuri piegati dal vento oceanico, masticando la strada solitaria. Una signora dai tratti indigeni sale ad Ancud: indossa una giacca color limone sbiadito e tra le mani porta un pacco voluminoso, forse un regalo. A tratti i cigvetri del bus si velano di una pioggia sottile e silenziosa, ottenebrando la visuale. Nelle vicinanze di Castro scorgo lembi di mare che si insinuano tra colline ricche di vegetazione. Fotografo mentalmente questa visione di mare-cielo-terra come un'unione sincronica di elementi che paiono fusi assieme. Forse le mie iridi sono prese d'inganno: forse gli alberi, i fiordi, le leste nuvole che confondono il cielo, i prati, non sono partizioni di paesaggio ma una inscindibile unità.
La cittadina di Castro mi accoglie con una tiepida luce che pare provenga dal sole. Questa volta ho un indirizzo sicuro dove dormire: un commesso viaggiatore che ho conosciuto molta strada più a nord mi ha fornito tutti gli estremi. Attraverso vie umide con la borsa a tracolla tra donne che tornano dalla spesa, artigiani con furgoncini rumorosi, operai e bancarelle dei commercianti. Suono al numero civico di una casa bassa e semplice. La signora con il grembiule blu mi ascolta in silenzio, poi, dopo essersi asciugata le mani in grembo, dice che è dispiaciuta ma tutte le sue stanze sono occupate.
Mi riesce difficile spiegarlo, ma Castro è una città diversa da quelle che ho appena visitato. Altra gente, altro sangue. Altri destini più severi. Visito la zona portuale e poi l'area delle tipiche palafitte poste sull'acqua. Cammino a lungo tra i quartieri popolari, osservando, accompagnato da ventate di pioggia invisibile e dalla brezza disarmante; come un vagabondo privilegiato e solitario sperimento cosa vuol dire vivere tutto il giorno fuori, facendosi corrodere piano piano dal cstfreddo, dall'umido, con la necessità corporale ed istintuale del  movimento. Percorro strade lunghe e diritte che si tuffano nel mare. Nella zona bassa della cittadina homeless avvolti da pesanti cappotti dormono sui marciapiedi accanto a bottiglie vuote. Come a Puerto Montt anche qui vedo ristoranti che si appoggiano su palafitte, ma pare siano chiusi. Prima di rientrare nella mia stanza faccio un giro nel movimentato terminal dei bus informandomi sulle destinazioni verso l'isola di Quinchao

La Panamericana è terminata. La scorro mentalmente lungo i tratti infiniti che ho percorso. Decine e decine di bus, ore su ore ascoltando musica, leggendo un poco, ma soprattutto con gli occhi abbagliati dal panorama che scorreva pazientemente sui vetri.
Da questo locale di Castro, Chiloé, seduto di fronte alla vetrata che si affaccia sulla strada, riesco a sentire sul corpo le vibrazioni che mi ha tramesso la Ruta 5, le molte persone sfiorate solo per un attimo e quelle invece che hanno portato significato. La strada è lì dura, calda, fredda, vuota, ma soprattutto inevitabile. Mi risulta difficile restare fermo mentre la via aspetta un nuovo passeggero dal destino ramingo, attende colui che affronta lo scopo disarmato.
Negli anni passati, durante un viaggio, vivevo il tempo trascorso sopra un bus, una barca, un treno come una perdita, una sconfitta. Adesso capisco che a cavallo della strada è possibile incontrare parte di sé stessi, è realizzabile il silenzio, mentre il flusso ci accompagna in luoghi sconosciuti.
Il movimento libero pare alieno alla senescenza, sembra alieno alla morte, trasmette uno status che si accosta alla invulnerabilità.
Con il corpo esausto, sotto questo cielo burrascoso, mi risale alla mente una frase del Kalevala: 'L'interna fiamma, la febbre di andare'.
 
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