venerdì 5 marzo 2010

Il viaggio che purifica

Scorro verso il basso. L'immensa Panamericana si dispiega ancora, centellinando le sue più meridionali estremità e offrendomi visioni senza fine costituite da praterie, boschi di eucalipti intercalati da composti frutteti. Ho compiuto duecento chilometri e il paesaggio sta mutando: niente più agrumi, i quali cedono il passo al frumento e all'allevamento estensivo del bestiame. È sufficiente volgere il capo a sinistra per osservare lo scivolio costante di montagne sempre più innevate: ammiro a lungo il loro colore pieno, totale, cangiante, che le fa apparire ancora più imponenti.
Avvolto nella coperta azzurro-verde della Tur-Bus, questa mattina ho varcato la linea invisibile che mi ha condotto nella Región IX. L'Araucanía è qua attorno a me, dentro di me. “Eccomi”, mi sono detto con la fierezza potente di colui che è in movimento. Lontano dallo scopo, fuori dalla meta, alla ricerca di un qualcosa inafferrabile in continua evoluzione: la strada, l'alterità, l'io.  
Dopo un cambio nella assopita e squadrata Temuco, il bus Jac mi traghetta verso Pucón. Il momento si avvicina. Lo so, tra poco arriva... sì, adesso lo posso vedere.
Nonostante la preparazione, l'immaginazione viene ancora scavalcata in avanti dalla Natura: conico, perfetto, bianco dalle volc2 pendici fino al suo vigoroso culmine; una parte non meglio definibile della cima sbuffa pigre ondate di vapore tra le nuvole zuccherose che veleggiano alte. Assaporo l'impossibilità di descrivere meglio il vulcano Pucón e l'assenza di intelligibilità che esso offre: una imperscrutabilità a cui mi adatto serenamente. Credo di non aver gustato mai nulla di meglio.
Fuori dal Terminal degli autobus visito un paio di hostales economici,  optando per quello che mi ispira maggiormente. È gestito da una coppia notevole: lui biondo, appassionato, con cognome tedesco, lei è una peruviana dai modi cortesi e fini.
Esco quasi subito nel cielo punteggiato di bianco, nell'aria fresca leggermente aromatica della Araucanía. La cittadina è ordinata, con ville, case per turisti e il centro declinante verso il lago. Seduto sulla sabbia scura, in pace, stupefatto, ammiro il vulcano che si specchia nelle tranquille acque lacustri le quali sfidano vincenti la leggera brezza che circola impertinente. Tutt'intorno vigilano boscose montagne tinteggiate di un bianco lieve.

Il giorno dopo prendo un micro bus che mi conduce verso l'interno montagnoso. Il cielo porta nuvole umide dall'Oceano ma non concede loro la pioggia. Mi fermo all'imbocco di un sentiero. Ai lati ci sono statuarie catene montuose che preservano l'ampia valle ondulata, rigogliosa di boschi e prati. Chiazze di neve resistono nelle zone in ombra. Cammino piano osservando e annusando quello che mi circonda. Ora incontro pecore che strappano filamenti di erba giallastra, poi sparute case dai comignoli fumanti. Voltando il capo ritrovo la massa del vulcano Pucón: sembra che l'ancestrale silenzio soffiato nella valle sia impresso dalla sua presenza. Ancora qualche chilometro perpais sentieri e strade sterrate e raggiungo l'area delle pozze di acqua calda, los Pozones, semplici piscine all'aria aperta che racchiudono l'acqua proveniente dal sottosuolo.
Vago tra le pozze d'acqua termale nudo, solo, attraversando climi proibitivi ed incarnando alla perfezione le metafore del viaggio ma anche quelle della natura umana. Fuori c'è la neve morente, dentro, nell'acqua, la temperatura supera i quaranta gradi; due condizioni insostenibili che però riescono a compenetrarsi, due stati dove il corpo e la mente vengono messi alla prova. Dopo qualche immersione scelgo di rimanere fuori il più possibile, camminando lentamente tra le piscine vuote. Le braccia avvolgono spasmodicamente il petto tempestato dai brividi ma continuo questa strana e spontanea sfida con l'ambiente. Spogliato dai vestiti e dalle cose, con il luccichio dell'acqua negli occhi e la rifrazione della neve sul corpo, sotto il cielo e i monti dell'America australe, trovo parte dell'essenzialità perduta.
L'accogliente acqua manda odori sulfurei, di terra e minerali. Rivoli caldi confluiscono in un torrente di montagna ricco di pietre levigate. Tolgo le ciabatte dai piedi con difficoltà. Come in un battesimo risolutivo immetto la mia nudità tremante e randagia nel liquido vaporoso, ponendo termine alle sofferenze provocate dal freddo, per accoglierne altre.

martedì 9 febbraio 2010

Il cielo del viandante

“Buon giorno, ha un cuarto libero?” “Sì, per una persona.” “C'è il riscaldamento? Ah, è nel corridoio esterno...”
Le dodici del mattino e le iridi spaziano verso l'alto. Il cielo delle pianure d'America è sempre definitivo. Nuvole verginali come veli di fine tessuto esotico, filamenti rettilinei o incredibilmente contorti, onde anarchiche sparse a caso e lame perfette che tagliano il turchino intenso che veglia oltre con sicuro vigore. Conglomerati imponenti che sembrano prepararsi alla battaglia finale da un momento all'altro e minuti batuffoli vaganti solitari, in cerca del segreto profondo cieldell'aria. Gli occhi si perdono seguendo questa costante mobilità, cercando di assecondarla nelle sue evoluzioni, con poco successo. Anche in una giornata di bassa pressione con una cappa grigia sopra il capo è raro non osservare delle portentose combinazioni in cielo.  Ampi spazi, la Natura, venti e correnti, temperature e oceani contribuiscono a modellare la tavolozza che si trova sopra di me. Cirri maestosi, invadenti e sbeffeggianti dominano la panchina dell'alberata plaza de Armas mentre il disco solare mi abbaglia. Dopo essere uscito dalla stanza presso l'hostal Libertad sono qui, accucciato ad osservare il cielo ed il movimento cittadino. È una giornata soleggiata con temperature accettabili e l'aria frizzante odora di montagna.
Un ragazzino si siede accanto a me e mi osserva mentre guardo il cielo.
"Cosa stai guardando?", mi chiede.
"Le nuvole".
Dopo aver scambiato qualche parola mi domanda cosa faccio in questo posto.
"Viaggio", rispondo dopo un attimo di esitazione, in modo superficiale, quasi evitando di farmi carpire un segreto intimo e impossibile.
“E perché viaggi?”, mi incalza lesto il ragazzino con i capelli a spazzola la cui attaccatura scura quasi lambisce le folte sopracciglia che paiono tinte di lucido nero.
Incertezza. Se riuscissi, potrei rispondere come J. Donne 'Vivere in una sola terra è prigionia', oppure 'Fuggo dalla necessità e dallo scopo', come scrive Leed. Invece spiattello un semplice, tautologico e definitivo “Porque me gusta, oye(s)”.
Mi piace il tempo dedicato alla propria persona, l'uscire da ciò che definisce, l'adattamento e la lunga fatica che purifica, freddo-caldo-infinito e... incorporare la strada che si muove. Ci sarebbero molte altre motivazioni ma non posso raccontarti tutto questo, ragazzino, non riuscirei in questo momento e forse non capiresti subito. Sono attitudini intime, segmenti stratificati e profondi, vissuti, di difficile esposizione.
Il bambino lascia la panchina del centro di Chillán, Regione VIII.
Sono in continua e costante discesa; dal bus proveniente da nord ho visto in lontananza e sulla sinistra le cime innevate che costeggiano il confine argentino.
Nella piazza passano sferragliando furgoncini anni settanta, scolari in divisa, turisti locali che sotto la spavalderia celano l'eccitazione provocata dal tempo liberato e dal suo sapiente utilizzo, impiegati e qualche senza fissa dimora alla ricerca di vino economico.
Il mattino sta impregnandosi di giallo quando cammino veloce verso il mercato cittadino, dove partono i bus per le Terme.  Le giornate sono sempre più corte. Nell'automezzo mi fanno compagnia locali dai volti rugosi e seri, turisti in vistose tenute da volcsci e bambini rumorosi. Dopo mezz'ora di viaggio il panorama si ispessisce: oltre le colline troneggiano le Ande innevate. Mi  sveglio definitivamente per l'eccitazione quando, dopo una curva, appare in tutta la sua possanza il vulcano Chillán. Chiedo conferma all'uomo di mezza età dai tratti indigeni che è seduto accanto a me. Anche se viene leggermente celato da altre vette, è proprio lui. Una indistinta massa verde scuro composta da pini, cipressacee, faggi e coihues siede vigilante ai piedi del vulcano come rigogliosi totem indiani Mapuche. 
La strada asfaltata sale con costanza. Giunti presso un villaggio costituito da qualche casa e sparsi luoghi di ristoro, il bus si ferma per qualche istante. A lato dell'asfalto decine di uomini in pick-up aspettano le auto dei turisti per noleggiare loro le catene da neve. chill Il nostro bus sale veloce per il bosco dopo aver lasciato le ultime alte pianure a pascolo. Aria e cielo dell'Ovest entrano dal finestrino leggermente aperto davanti a me. Respiro forte l'aroma tonificante degli alberi fratelli mentre la strada mi porta in avanti ed in alto.

giovedì 21 gennaio 2010

Lo spaesamento del viaggiatore

ocea Gli occhi si aprono con difficoltà. Nello schermo plumbeo sito in qualche luogo della mente mi appare una grande stanza ricolma di letti a castello vuoti. Mi muovo lentamente tra le pesanti coperte e, con il naso freddo, annuso l'aria viziata che puzza di cherosene. Dall'ampia finestra con vetri malconci fuori la nebbia imperversa. Il mattino.
Ad un certo momento, inaspettatamente, come se ricominciassi da capo il risveglio, osservo le pareti desolate del mio cuarto economico facendo vagare lo sguardo voluttuosamente e senza meta. Sento che sta per arrivare qualcosa di grosso; una sensazione non eccessivamente piacevole si insinua piano piano, partendo dalle strade semivuote là fuori, entrando per il portone dell'hostal e infine penetrando gli spifferi della mia stanza. La domanda arriva nel tepore mattutino come se niente fosse, così, tagliente, bordata di passiva inevitabilità: "Dove sono?"
Un quesito. Due parole.
Uno spaesamento temporale e spaziale cattura la mia mente che non sembra uscire da questo empasse. Un vicolo senza immediata via di uscita. Per qualche interminabile secondo mi sporgo in un limbo vuoto che blocca le facoltà cognitive. Ma poi, ciud lentamente, il puzzle riprende forma.
Ricordo di aver cenato insieme a robusti operai e di aver bevuto del vino a buon mercato. I muratori vengono da province vicine; gente cordiale che rutta poche parole. Come piace a me. Poi la signora grassa dell'hostal mi ha messo la stufa in camera e consegnato le chiavi per chiudere la stanza. Il chiavistello era troppo piccolo e quindi ho lasciato la porta aperta, sbattendomene. Cosa posso pretendere per settemila pesos, cena e desayuno inclusi? Il cuarto è grande e la stufa odora di cherosene stantio. Sono uscito nel freddo invasivo di una cittadina di provincia simile a tantissime altre. Bar, negozi, uffici, chiese pompose con modesto significato, auto pesanti e vecchi pick-up, gente che cammina in fretta e che parla in una lingua a me familiare. Sempre di più. Sono entrato in un locale e ho ordinato qualcosa da bere. Qualche avventore mi ha guardato con scarso interesse, poi è ripreso a farsi gli affari propri; coppie, persone che leggevano il giornale e altri bevendo in silenzio guardando oltre la vetrata, sulla strada. Io ho fatto compagnia a questi ultimi, sorseggiando lentamente il contenuto del bicchiere di vetro consumato, come la cosa più normale di questa terra, pensando a quello che mi attendeva il giorno successivo.
nebb Vagabondare. Non avere casa ed averne molte. Come in un mosaico in  continua espansione la mia identità diventa sempre più multiforme, pezzi e pezzi di immagini di Mondo si attaccano veloci, troppo rapidamente per riuscire ad inserirli tutti. Caray. Ma forse questo è il sentiero cui sono destinato: senza un paese e ricco di molteplici attraversamenti spaziali. Durante il viaggio l'anima priva di una terra, spaesata, si libera da ciò che la precisa, posponendo e mischiando tutto quello che porta con se', disvelandosi nella sua limpida nudità.
Fuori c'è la nebbia. Sotto la trapunta si sta bene, in questo hostal a Talca, Chile.
E' ora di prepararsi per prendere l'ennesimo bus verde della Tur-Bus, cavalcare con altre persone ma sempre in solitudine la Ruta 5 Panamericana, verso sud, verso l'inverno ed i suoi venti del Pacifico. La Patagonia è ancora lontana.

venerdì 15 gennaio 2010

Migliori film visti nel 2009

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  • Gran Torino – C. Eastwood (2008-2009)

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  • Creature del cielo – P. Jackson (1994)

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  • A.I. Intelligenza artificiale – S. Spielberg (S. Kubrik) (2001)
  • La battaglia dei tre regni – J. Woo (2008-2009)
  • Un mondo perfetto – C. Eastwood (1993)
  • Star Trek. Il futuro ha inizio – J. Abrams (2009)
 
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