venerdì 27 gennaio 2023

La Laguna Corazón. Los Ríos, Cile

 

Il micro mi lascia all’entrata della via sterrata che conduce alla riserva. Per raggiungere il paese di Liquiñe il mezzo ha percorso una strada che violava enormi estensioni di tessuto boschivo; poi il minibus è precipitato in una valle enorme, ricca di pascoli, acqua e piccole fattorie in legno.

La strada rurale in costante ascesa e il secco di gennaio preannunciano l’unico elemento poco piacevole del giro: la polvere. Il traffico locale è almeno ridotto a qualche scassato pick-up. Così immagino.

Il sole costante potenzia con vigore l’estate australe, mentre la vegetazione delle zone coltivate collinari offre poca ombra. Cammino spedito sulla strada bianca di polvere, con la ferita aperta nella gamba che quasi non sento. Sento invece l’avvicinamento di un mezzo pesante. Mi sposto. Quando il camion a pieno carico passa davanti alla mia figura si ferma. Tra i fumi di polverume qualcuno lassù mi fa il segno di salire. Bueno. Conosco così Javier, un camionista che sta prolungando una strada di montagna facendo arrampicare il suo Iveco per posti quasi impossibili. Quando siamo al vero accesso alla riserva, Javier mi propone di conoscere il lavoro che stanno operando. “Andiamo”, rispondo.

Dopo la registrazione e il pagamento dell’entrata sono sul sentiero che porta alla laguna Corazón o Ancacoihue (mapuche). Presto abbandono i pascoli per entrare nel bosco. Nei luoghi dove gli alberi si diradano si possono ammirare in lontananza le spettacolari cime del vulcano che fuma, il Villarrica, e l’argentino Lanín, 3770 m.

Altrettanto affascinante si sta configurando la foresta che lentamente penetro. Grazie ai cartelli in spagnolo e mapuche imparo a conoscere piante come il vigoroso tepa e la sottile quila. Il sentiero ora diventa quasi pianeggiante, con una conseguente discesa che porta… alla laguna. È uno specchio d’acqua a forma di cuore contornato da giungla temperata impenetrabile. Alberi maestosi di un bosco che appare primario si riflettono nel liquido calmo, duplicando la loro presenza quali custodi immortali del passato, della mia fugace presenza, e di quello che avverrà dopo. Alti, più prossimi al Cielo.

Percorro una breve traccia che costeggia la laguna Corazón, accarezzando le cortecce degli alberi antichi, tutti coihue, appartenenti alla famiglia delle nothofagaceae, essenze native di questa parte di Cono Sur americano. Rimango a lungo su una panca di legno di fronte alla laguna a scrivere e a riflettere quello che ieri mi ha raccontato un istruito giovane mapuche, sulla vita dei suoi antenati e la convivenza pacifica e non della loro gente con il potere statale.

Le gambe vorrebbero portarmi avanti, nella selva pulsante.


 

Testo e foto Diritti riservati Creative Commons

 





 

 

domenica 15 gennaio 2023

Identità sfocate. Da Santiago alla Araucanía lungo la Panamericana

 

In pochi minuti la metropolitana mi porta dalla Universidad Catolica al Terminal Sur. L’autobus a due piani salón cama della Transantin sta aspettando.  786 chilometri sulla ruta 5 Panamericana. Salgo verso l’alto. Partiamo. Volo ancora.

Incorporo tutta l’aria che passa attorno mentre mi libro piano, respirando tutti i chilometri, uno dopo l’altro, con il piacere che non declina, nonostante la stanchezza. Scorrono San Fernando, Talca, Chillán, con i frutteti carichi di colori che omaggiano l’estate australe, lasciando indietro l’aridità e le devastazioni umane della periferia di Santiago. Il vento che viene dalla Patagonia si insinua tra le foglie di pioppo e olmo che brillano alla luce dello scudo luminoso.

Ancora una volta Mirando al Sur, guardando a sud, ammaliato dalla strada e dai panorami. Le Ande si nascondono ancora nella foschia della lontananza; i loro fiumi irrigano le coltivazioni e il mondo circostante.

Cosa ci sarà dopo il viaggio di oggi e quello di domani? Chi è quella anima che si dirige a sud? Dove sono le sue appartenenze e le sue identità? Tutto muta così in fretta, eppure mi sento tremendamente a mio agio, come se sempre avessi compiuto questo percorso, i molti percorsi.

Il sole lentamente si sposta a occidente, cambiando le ombre determinate dagli alberi e dalle case in legno, mentre un cartello in basso annuncia che mancano 118 chilometri a Los Angeles. 

La Panamericana continua a fluire sotto e dentro me.


 Testo e foto Diritti riservati Creative Commons

 

 



 

 

 

martedì 15 novembre 2022

Dalla gola Kavros a Loutro. Creta

 

Quasi per caso mi imbatto nella descrizione di un percorso non consueto: raggiungere l’ameno villaggio di Loutro passando per un canyon sconosciuto ai più, Kavros. Subito l’idea mi attira, considerando la formidabile qualità e quantità di queste conformazione naturali presenti nell’isola di Creta.

Dopo aver goduto delle visioni ampie sul mar libico che concede la strada deserta conducente ad Anopolis da Sfakià (Hora Sfakion), giungo a un tornante che asseconda una potente linea di livello: da una parte la spiaggia di Ilingas, dall’altra il profondo solco nella falesia. Non ho alcun dubbio di preferire la seconda opzione. Per oggi.

Nonostante Kavros gorge nella sua parte iniziale appaia piuttosto ariosa con qualche ometto decadente che indica la via, il sentiero antico posto leggermente in alto rispetto al fondo della fenditura quasi subito si nota che è franato, quindi non resta che muoversi in basso, con le pareti della montagna progressivamente in avvicinamento. Cespugli come il timo arbustivo, l’aulaga, la cimiciotta, germogliano tra pietre sagomate dal tempo; una natura avara condizionata da stagioni estreme. Nelle zone che possono beneficiare di una ombra parziale crescono ginepri.

Muovo i piedi guardando la falesia che cambia con l’angolazione della luce, delle forme e dei colori, con le pupille che continuamente si adattano, accecate dai contrasti del sole e dell’ombra. Muovo i passi con moderata attenzione, senza fretta, seguendo una traccia ormai definita solo dal passaggio delle capre. Qualche ometto solitario appare ancora.

È nei tratti più stretti della gola che sento la profondità della montagna, la vibrazione del suo grembo, riparato e contemporaneamente esposto al mondo sconosciuto là fuori.

Dopo aver passato una parete con facile arrampicata, mi rendo conto che il tempo sta passando velocemente in un canyon che pare infinito. Due preoccupazioni si affacciano: siamo a metà novembre e le piogge di ottobre possono aver causato frane e bloccato la via. Il secondo motivo di tensione è quello delle diramazioni della forra che potrebbero portare perdita di tempo e di orientamento. Cerco di camminare veloce tra i disagevoli ciottoli modellati dalle intemperie, rallegrandomi quando incontro delle pietre impilate non casualmente. La vegetazione di maggiore altitudine offre cipressi, querce e qualche acero sempreverde.

Sono passate due ore e quaranta minuti e circa sei-sette chilometri di sviluppo quando vedo una strada sterrata che sale a sinistra, dopo una cisterna dell’acqua. La gola di Kravos continua. 700 metri di altitudine, ancora in ascesa.

Ci sarebbero aneddoti legati alla strada di terra che conduce ad Anopolis come l’allevatore che mi chiede stupito da dove vengo o i due cani aggressivi incatenati ai lati dell'obbligato percorso, invece preferisco saltare temporalmente appena più avanti, appena sotto la chiesa di Santa Caterina, sull’ultima cresta di montagna che separa dalla costa. In basso si nota un immacolato borgo, una gemma, raggiungibile via mare o attraverso sentieri: Loutro. Quando arriverò al villaggio deciderò di tornare a Hora Sfakion a piedi.

 La traccia danza a zig zag verso il mare della Libia, vertiginosamente. La prendo.

 

Testo e foto diritti riservati Creative Commons

 





 

mercoledì 9 novembre 2022

Il cammino che conduce a Balos, Creta

 

Momento importante quello che riserva il giorno che inizia: raggiungere con le proprie forze la penisola dove si trova Balos, una delle primarie attrazioni di Creta. Quando esco dall’alloggio di Kissamos, nel sangue vagabondo circolano tonnellate di adrenalina.

L’adrenalina continua ad assuefarmi dopo aver passato il porto ormai deserto della città e inoltrarmi nell’ultimo peduncolo della baia di Kissamos. Sono passati quaranta minuti nei quali le gambe hanno liquidato la parte meno interessante del percorso. Ora il profilo apparentemente infinito della penisola di Gramvousa e della lunga fascia di strada marrone tendente al porpora che la attraversa risulta più limpido, nonostante l’opacità portata dai ricurvi raggi solari di novembre. È il momento di estrarre dallo zaino i bastoncini da trekking.

Alle 10:35 sono sulla strada di terra che porta alla laguna di Balos. Vento di nord est asciuga parzialmente il sudore. La baia di Gramvousa (o di Kissamos) è stata agevolmente oltrepassata in trenta minuti, senza incontrare alcun essere umano.

Passo dopo passo la consapevolezza delle cose, di quello che sto compiendo, di quello che fa parte di me e che mi circonda si espande nella sua pienezza. Finalmente a contatto con la natura semidesertica marina dai colori rigorosi, quasi che si confonde con il suolo, dalle forme globose e basse per proteggersi da un mondo difficile. Con immenso piacere riconosco piante di altre isole lontane perdute nell’oceano: l’Aulaga, la Tabaiba, l’Espino del mar. Attorno all’incedere fluiscono essenze sconosciute e altre con le quali da poco ho fatto conoscenza come il Lentisco e la Carruba. Queste ultime riescono a svilupparsi nelle zone meno esposte.

Il tempo passa, e la strada mi conduce, al culmine di una salita a 200 metri sopra il livello del mare, all’entrata della riserva. Una quindicina di auto finora mi hanno passato lentamente. Adesso mi attende una moderata discesa senza alcuna vista della costa ovest, dove risiede la meta. Non è finita.

È da poco passato mezzogiorno quando mi appresto, volando di giubilo, a scendere verso Balos. Sul sentiero incrocio una giovane famiglia con bambini biondi di sole e di aria; il ragazzo comincia a sorridermi da lontano, di seguito anche la compagna. Mi avevano visto quando erano in auto, all’inizio della strada.

“Sei arrivato, grande!”, si complimentano.

“Tre ore, da Kissamos”, rispondo con gratitudine.

“Da Kissamos!”.

“Sì”.

La laguna di Balos esprime il suo splendore questo limpido giorno di novembre, con la brezza che allontana la foschia e la quasi assenza di visitatori. Una sottile striscia di roccia scura che collega l’isoletta di fronte, proteggendo dal moto ondoso diretto, permette che dal versante meno esposto del bacino si depositi sabbia e che si riesca a cristallizzare una laguna con diverse tonalità di chiaro che si mescola con l’azzurro del mare, a seconda della profondità.

Dopo più di tre ore posso toccare il mare e la sabbia bianca di Balos, nel cuore del Mediterraneo.

 

Testo e foto diritti riservati Creative Commons

 





 

 

 

 
Creative Commons License
Travel Viaje Viaggio Voyage by Dr. Stefano Marcora is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at travel-ontheroad.blogspot.com.