domenica 22 agosto 2010

Viaggiatori solitari in Myanmar

Jens
Alto, magro, pantaloni azzurri, scarpe da ginnastica e maglietta larga a righe. I capelli biondi lisci, accompagnati da occhi chiari e bonari, lo avvicinano alla figura stereotipata di un Gesu' televisivo. Passiamo dodici ore di bus da Bagan a Yangon separati da pochi sedili senza dirci una parola, senza un segno di saluto o intesa. Solo sguardi veloci destinati a studiarci a vicenda.
Alle quattro del mattino l'autobus raggiunge la polverosa stazione della grande citta'. Scendo stralunato con l'intenzione di prendere un altro mezzo per la costa ovest ma mi viene spiegato che devo recarmi presso un altro terminal; questa notizia -insieme alle previsioni del tempo ricevute il giorno prima- mi fanno abbandonare temporaneamente l'idea primigenia. Con gli occhi impastati scorgo Jens accompagnato da una ragazza orientale che stanno ancora contrattando il prezzo per un taxi. Mi avvicino al gruppo di taxisti che circonda i viaggiatori. Senza troppi convenevoli partecipo al ribasso del prezzo, arrivando ad una accettazione da parte di un conducente.
Voliamo veloci sopra una metropoli buia gia' fertile di persone in attivita', scambiandoci appannate parole nel deserto del silenzio dominato dal rombo del motore dell'auto. La ragazza si ferma in un hotel di medio livello, noi scendiamo vicino ad una guest house economica.
Ci conosciamo davanti ad una tazza di te' addolcito dal latte condensato, mentre la luce del nuovo giorno si insinua tra i palazzi decandenti e ammuffiti di una Yangon monsonica. Le domande scorrono fitte, con parole coincise che tentano efficamente di arginare la stanchezza. Jens e' uno studente prossimo alla tesi in una famosa universita' del sud della Germania. I suoi studi, ma soprattutto gli interessi, lo hanno condotto ad una esperienza di alcuni mesi in Cambogia. Ora viaggia accompagnato dall'inseparabile zaino che non raggiunge il peso di sette chili. Ecco il suo bagaglio e la sua liberta'.
Dopo poche frasi e qualche battuta scherzosa scorgiamo una amicizia predestinata, un'intesa senza tempo velata di inevitabilita'. Lui mi parla della Cambogia, della spazzatura distraente che manda in onda la televisione di regime del Myanmar e della sua tesi. Gli racconto di qualche viaggio e del mio lavoro.
Passiamo cosi' due giorni insieme scambiandoci pensieri liberi, scherzando bonariamente con altri stranieri e i gioviali birmani, assaporando il frutto incredibile che porta il nome di durian, gustando il curry birmano dalle bancarelle in strada e le paste di roti indiane. La sua partenza verso un altro Paese del sud-est asiatico interrompe il percorso fatto insieme. Non dimentichero' facilmente Jens.

Kyungmi
L'incontriamo nella guest house di Yangon. Tarda mattinata, colazione abbondante alla birmana, Kyungmi si presenta con uno sguardo apparentemente pacato negli occhi a mandorla. Carnagione bianchissima -quasi immacolata-, calzoni viola di cotone leggero, maglietta e capelli neri che mandano oscuri riflessi ammaglianti. Viso delicato e leggermente schiacciato. I modi estremanente gentili e l'assenza di gestualita' si accompagnano ad un senso d'umorismo contenuto ma vivo ed una propensione allo scherzo. In combutta con Jens cominciamo a prendere in giro la ragazza di Seul facendole capire che conosciamo alla perfezione i caratteri dell'alfabeto birmano e altre lingue difficili. Per dare maggiore valore alle nostre asserzioni, Jens comincia a leggere un giornale di Yangon. Kyungmi ci offre un volto stupito ma non credulone, intercalando al suo inglese ragionato delle esclamazioni di intesa tipiche di alcuni popoli orientali.
La coreana ci racconta del suo Paese e sul viaggio in solitaria nel Myanmar; in modo tranquillo descrive limpidamente incontri e luoghi attraversati, aggiungendo aneddoti curiosi tipo quando ha ricevuto un passaggio da un carretto colmo di ceste di cavolfiori trainato da un cavallo. Il giovane sorridente carrettiere birmano non ha preteso alcun compenso.

Mi viene difficile descrivere, ma in quei momenti iridescenti di spontaneita' e' come se universi paralleli e spesso solitari intentino approcci di avvicinamento su basi comuni. Sentieri tortuosi carichi di millenni di cultura, nonostante e grazie alla globalizzazione, si congiungono per qualche goccia di tempo in luoghi terzi, lontani, inizialmente alieni e diversi. Periodi di ristoro per la mente ed il corpo. Ecco la potenza del viaggio quale agente di cambiamento e di conoscenza.

venerdì 30 luglio 2010

Raggiungero' Amarapura?

"Questo pick-up va ad Amarapura?"
"Si', sali."
"Fermati sulla strada per l'U Bein's bridge."
" OK."
In realta' il "pick-up" e' un camioncino adattato per il trasporto passeggeri. Sono le 9 e quaranta, ora non migliore per partire, ma questa mattina ho dormito fino a tardi causa il viaggio notturno proveniente dal lago Inle. Nonostante le nuvole discontinue il caldo di Mandalay si percepisce in tutta la sua naturale violenza.
Sul camioncino siamo in cinque: tre donne, un ragazzo ed io. Sotto gli stretti assi di legno laterali che fungono da sedili sono gia' ammucchiati sacchi di yuta contenenti generi alimentari. "Bene", dico tra me, "una decina di minuti e partiamo."
L'ottantaquattresima strada e' ancora all'apice della sua ordinaria confusione: camion e bus importati di seconda mano da Giappone e Corea riaggiustati, ristrutturati e ancora attaccati tra loro, urlano e sbuffano tonnellate di scura sostanza tossica. Autobus urbani con la carcassa interamente di legno senza vetri ai finestrini trasportano orde di passeggeri stanchi, quindi passano bici, camioncini, moto, taxi e poche auto private. Guardando questi vecchi mezzi a motore ho come l'impressione che i loro rantolanti apparati metallici scoppino da un momento all'altro, inondando ancora di piu' un mondo gia' inondato dalla supremazia umana.
Improvvisamente compare il driver del camioncino e i 3 (tre!) aiutanti si piazzano sulla piattaforma posteriore del mezzo. Buon segno. Partiamo nel concerto informe dei clacson nostri ed altrui verso il sud dell'84th. A volte sono un fervido credente nei miracoli: come e' possibile che un camioncino veicolante 20-30 persone possa iniziare il viaggio con cinque passeggeri? Infatti all'incrocio successivo ci aspetta un'altra sosta di dieci minuti. Salgono persone (anche sul tetto) ma il driver non e' contento. Le soste continuano allo stesso ritmo dopo ogni incrocio. Sono passati una quarantina di minuti e, nonostante gli sforzi congiunti dei tre addetti 'esterni' al mezzo, siamo pieni a meta'. Percorso effettuato: un chilometro abbondante. Ad una fermata la monaca che e' seduta di fronte a me scende per acquistare dei biscotti. I passeggeri ingannano il tempo dormendo, sudando e comprando qualcosa dai venditori ambulanti che ronzano in continuazione attorno alle soste 'tecniche'.
Osservo il cruscotto del camioncino. Indicatore di velocita': non funziona. Lancetta temperatura acqua: nulla. Indicatore carburante: zero. In compenso il bottone del clacson e' iper usurato. Al posto dello speccchietto retrovisore sono appesi rispettivamente una corona di gelsomini, un piccolo orsetto di pelo ed una effige del Buddha in plastica. Forse e' l'aroma dolce del gelsomino che intorpidisce l'autista...
Giunti presso un grande tempio buddhista, il camioncino/bus parcheggia e i tre aiutanti gesticolanti di betel si dileguano al suo interno. Il motore si spegne. "E' la fine", mi dico.
I minuti passano lentamente divorando una pazienza intorpidita. Quando i passeggeri iniziano a dare segnali di fastidio, i tre tornano quasi trascinando una signora. Un magrissimo raccolto.
Dopo il luogo di culto un'altra fermata veloce ma poi le cose cambiano: il mezzo pare abbia preso il volo e sia deciso a raggiungere Amarapura, quasi avesse varcato uno spazio invisibile e risolutorio. Con la velocita' gli animi si placano, il sudore viene dileguato dal vento e la destinazione si avvicina. Dopo quindici minuti sono ad Amarapura. La mente fatica a crederlo.

martedì 27 luglio 2010

A piedi lungo il lago Inle

Sono in strada dopo aver ricevuto le informazioni. Non ho bene capito quanti chilometri dista il villaggio di Kaung Daing ma non e' troppo importante. Attraverso il ponte del canale che conduce al lago Inle; sotto sciamano un'infinita' di barche di legno dal profilo sottile contenenti persone, ceste di pomodori, verdi ortaggi, canne e altro ancora. Per sicurezza chiedo se la strada che sto prendendo e' corretta ma non vengo capito; dopo tre tentativi di modifica del tono\accento, la mia destinazione viene compresa. Il percorso di terra battuta e' puntellato due file alberate di eucalipti. Ho voglia di camminare con questa temperatura accettabile e sotto un cielo nuvoloso.
Il paesaggio rurale mi scorre dentro lentamente, in modo che possa assaporarlo meglio: palafitte sull'acqua delle risaie, pagode dorate e monasteri di scuro legno tropicale, ragazzini che si recano al pozzo per prelevare l'acqua, gruppi di cani e mucche in libera esplorazione. E poi moto, bici, vecchi trattori e molti altri camminatori. Quasi tutti salutano. Potrei entrare in uno degli stretti sentieri laterali per perdermi nel verde infinito.
Dopo circa un'ora raggiungo la strada semiasfaltata che costeggia il lago. Un intraprendente mototaxista mi informa che mancano ancora diversi chilometri alla destinazione, offrendomi il viaggio in pochi minuti. No, andiamo con le proprie gambe! Forse il fine e' precisato nel cammino attraverso questi luoghi. Le ciabatte infradito vanno veloci sull'erba corta del bordo della carreggiata, passando vicino a cespugli, alberi e fiori spontanei.

Camminando si intessono significative relazioni, interazioni leggere con le persone e l'ambiente. Le donne che trasportano pesi sulla testa, i bambini che si recano a scuola, i monaci che chiedono pazientemente l'elemosina, gli uomini nei campi, capiscono chi sceglie -anche per poche ore- la loro stessa mobilita'. Un movimento economico, antico, costruito sulla fatica e la lentezza, capace di osservare, di immergersi, di approssimarsi. Piu' il muoversi affonda nello sforzo, piu' la posta su se stessi incrementa, concedendo maggior godimento al proprio io. Cammino e consumo la terra cosi' vicina ai piedi, consumando contemporaneamente il corpo, introiettando particelle di polvere, eppure sono convinto che da qui si veda veramente la strada, conoscendola, toccandola. Mentre il fisico cede energia causa il moto, la mente respira il paesaggio con le colline tappezzate e il grande lago. Queste genti sono cosi' in sintonia con l'ambiente lacuale fino a realizzare una moltitudine di orti galleggianti coltivabili dalla barca. Un sole tenue filtra nella rete nuvolosa, aumentando la temperatura. Ancora qualche decina di minuti e riesco a vedere il villaggio di Kaung Daing incuneato nel lago Inle. Mi fermo davanti ad una casa per ricevere conferma. Si', sono arrivato.

sabato 17 luglio 2010

Sulle rotaie del Myanmar

Il luogo e' presidiato dai militari. Un funzionario serio esamina il mio passaporto lentamente, poi ricopia alcuni dati sul biglietto. Quattro dollari. All'inizio mi rifiuta una banconota perche' malconcia, ma, vedendo non ne posseggo altre, accetta il denaro con una smorfia. Inizia cosi' il mio viaggio da Taungoo a Thazi.
Strati di nuvole monsoniche scivolano sul metallo liso delle rotaie mentre attendo. Il 5 UP arriva in ritardo con le sue carrozze color crema, pavoneggiando inizialmente la classe Superior, per successivamente presentare i vagoni di classe Ordinary. La mia. Cerco la carrozza 2 ma non vedo numeri, quindi domando informazioni. Un addetto mi accompagna velocemente al mio posto mentre il bagaglio viene generosamente portato da un ragazzo con la giacca mimetica e i denti incrostati dal rosso scuro del betel. Dopo una abbondante sosta partiamo dapprima a scossoni, in seguito dondolando lateralmente. Acuti rumori metallici si incrociano con voci reiteranti dei venditori e il parlare dei passeggeri. Dai finestrini generosamente spalancati e sotto un sole alternato a nubi mi si apre uno splendido mosaico antico: cesellato da mani esperte, un'infinita' di piccole risaie vengono coltivate da uomini e donne con i copricapo in fibra vegetale a forma conica. Mi si fissano negli occhi tonalita' diverse di verde, mischiate al marrone dell'acqua luccicante. Verde verginale del riso da poco piantato si intervalla al rosso del terreno arato ed al quasi giallo delle piante mature. Vedo scorrere case di paglia con tetti di lamiera, protette da un groviglio di palme da cocco, banani, papaye e manghi; nei campi si muovono magri cani liberi, mucche, zebu' e bufali indiani utilizzati per trainare carretti e antichi strumenti agricoli. Uomini tranquilli accompagnano mucche che divorano l'erba cresciuta tra gli appezzamenti del cereale. Cullato dal lento procedere del treno, attorno a me passa l'Asia.

Accanto al mio posto si e' seduto il ragazzo sorridente con la tuta mimetica. Su questi sedili di legno cigolanti mi spiega che torna a casa dopo aver fatto una visita medica. Anche se la comunicazione e' difficile, il ragazzo diventa un intermediario tra me e quello che avviene nella vivace carrozza. Ambulanti di tutti i tipi passano in continuazione vendendo principalmente generi alimentari; accanto a loro scorrono in competizione gli addetti del treno che offrono bevande e piatti di riso con curry. Ad un certo momento passano due giovani monaci che chiedono l'offerta porgendo a ciascun passeggero una busta vuota. Diversi viaggiatori contribuiscono generosamente. Poco dopo un signore si piazza alla meta' esatta del vagone e, dopo una pomposa introduzione con voce squillante, propone una serie di balsami di bellezza. Appena mostra ai suoi ascoltatori un prodotto nuovo, il ragazzo accanto mi informa riguardo il prezzo. Ridiamo scherzosamente ogni volta, come in uno scherzo semplice.
Di fronte a noi ci sono una coppia di giovani birmani che osservano con curiosita' il nostro parlare, guardando con discrezione i miei vestiti, i movimenti e quello che estraggo dallo zainetto. In questo mondo oppresso da una dittatura chiusa su se stessa, in modo speculare la mia persona e gli altri passeggeri del vagone siamo investiti dalla novita' che e' effetto del viaggio.
Mentre penso a come poteva essere la Birmania all'epoca del colonialismo, le mie narici vengono investite da un miscuglio di odori di frittura, l'aromatico del betel, di fiori e, con grande piacere, riconosco l'inconfondibile richiamo del frutto piu' particolare che esista, quello con cui l'amore e' per sempre. Il durian.
Le ore si affastellano su questo treno lento e gioviale; corro con il paesaggio che muta, vedo gente mangiare, incrocio ragazzi carichi di libri che affittano per qualche ora ai passeggeri, bigliettai immusoniti dalla loro carica statale. Nonostante non sappia bene a che ora raggiungero' Thazi, mi accorgo che quaggiu', infossato nei sedili di legno delle classe Ordinary, la mente e' profondamente libera, spoglia dai doveri. Spoglia, nulla piu'.
 
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