venerdì 27 ottobre 2017


venerdì 13 ottobre 2017

Scendendo la Sierra Madre

Le cose avanzano troppo velocemente. Non riesco a metabolizzare tutto nonostante la mia identità si faccia sempre più minuta per far spazio al mondo che entra.
Sono a Guachochi, 2400 m. Ancora per poco in cima alla Sierra Madre. 

Il viaggio da Creel a Guachochi è stato spettacolare: strade intricate, pareti rocciose chiare che terminavano in canyon profondi, boschi di aghifoglie, querce e cespugli. Sole. Nell'autobus salivano e scendevano indiani Tarahumara timidi e gentili, sovente vestiti con abiti tradizionali. Gli uomini portano una tunica bianca di cotone che arriva alle ginocchia, maglioni o casacche colorate, una fascia attorno alla testa e gli immancabili sandali sottili legati alle caviglie. Pochissime auto, pochissima popolazione. Cominciavo a scoprire l'immenso Nord.

A Guachochi mi dirigo verso una minuscola e anonima stazione degli autobus. "Quando parte il primo mezzo per Parral?", chiedo alla signora della biglietteria. "Tra mezz'ora. Sì, solo seconda classe". La biglietteria/sala d'aspetto è piena di persone, valigie, pacchi con indirizzi di luoghi sconosciuti scritti a mano. Sulle pareti sono attaccati due poster sbiaditi raffiguranti i Copper Canyon.
Salgo sul bus diretto a Hidalgo del Parral ancora a stomaco vuoto. Questa sera nella città dove è stato ucciso Francisco "Pancho" Villa mi aspetta Timoteo con la sua parrilla domenicale.

La carretera estatal 23 scende, e discendendo un fluido caldo e denso entra dai finestrini. Ogni chilometro di strada che scorre sotto di me vede l'inesorabile, progressivo avvicinamento alla zona semidesertica: tra alberi spinosi, tra i cespi dove a volte si attaccano rifiuti di plastica, sorgono estesi pascoli d'erba rinsecchita che dovrebbero mangiare animali invisibili. Pali di legno congiunti dal filo spinato. Colline e montagne sagomate dal vento definiscono la cornice del paesaggio.
La strada continua a scorrere.



martedì 26 settembre 2017

La Sierra Tarahumara


venerdì 8 settembre 2017

Nella Valle de los Monjes, Chihuahua

Qualcosa sale dal petto per arrivare alla mente, inondando profondamente i circuiti sensitivi. Fragilità e stanchezza, tenacità, sospiri. Eccitazione.
Ancora una volta libero, ampiamente gratificato dall'escursione nella terra amministrata dagli indiani Tarahumara. Manca poco.
Manca poco per raggiungere la valle dei Monaci. Le gambe mi hanno trasportato lungo almeno quattro chilometri di piste sterrate in mezzo a boschi di pini e querce, passando per leggeri avvallamenti e fattorie silenziose. Nuvole raminghe senza pioggia saettano nel cielo dell'alta sierra Tarahumara.

L'altopiano si restringe quando entra en el Valle de los Monjes. Nella vasta area dove risiedono i canyon più possenti che esitano, s'incontra una angusta conca che racchiude rocce molto particolari, dove antiche leggende hanno ricamato storie misteriose.

Passo ancora una volta un posto di controllo incustodito e, dopo alcuni passi, tra conifere americane che infilzano radici nella pietra lattescente, compaiono giganteschi obelischi di roccia.
Secondo le mitologie essi sono monaci tramutati in roccia o antichissime sculture modellate quando la pietra era ancora morbida. Non dico come gli indiani chiamano questa zona piena di virgulti che s'innalzano verso l'alto.
Sicuro è che le rocce sedimentarie e calcaree hanno permesso agli agenti atmosferici di plasmare con grazia pilastri naturali.

Cammino insinuandomi tra rocce sopra basamenti bianchi resi lisci dall'erosione. Vago tra monoliti o gruppi concatenati dalle morfologie più disparate: piramidi e picchi aguzzi, a forma di testa o di fungo, dita che indicano qualcosa, lineamenti antropomorfi. Solchi perfetti nella pietra, anse, curve, rotondità.

La fantasia gioca con il tempo mentre rischio di perdermi tra rocce della Valle de los Monjes. Ad un tratto giungo in un punto dove domino la conca e parte dell'altopiano che supera i 2300 metri di altitudine. Colline, montagne dalle rocce stratificate, buchi dove si infossano canyon, alberi dalle foglie chiare e pascoli richiedenti acqua. Panorami autenticamente nordamericani.

Sono triste perché il ritorno chiama. Ancora nove chilometri di pista nel territorio indigeno, guidato dal sole e dalla polvere di terra.

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Territorio autonomo Tarahumara




 
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