venerdì 8 settembre 2017

Nella Valle de los Monjes, Chihuahua

Qualcosa sale dal petto per arrivare alla mente, inondando profondamente i circuiti sensitivi. Fragilità e stanchezza, tenacità, sospiri. Eccitazione.
Ancora una volta libero, ampiamente gratificato dall'escursione nella terra amministrata dagli indiani Tarahumara. Manca poco.
Manca poco per raggiungere la valle dei Monaci. Le gambe mi hanno trasportato lungo almeno quattro chilometri di piste sterrate in mezzo a boschi di pini e querce, passando per leggeri avvallamenti e fattorie silenziose. Nuvole raminghe senza pioggia saettano nel cielo dell'alta sierra Tarahumara.

L'altopiano si restringe quando entra en el Valle de los Monjes. Nella vasta area dove risiedono i canyon più possenti che esitano, s'incontra una angusta conca che racchiude rocce molto particolari, dove antiche leggende hanno ricamato storie misteriose.

Passo ancora una volta un posto di controllo incustodito e, dopo alcuni passi, tra conifere americane che infilzano radici nella pietra lattescente, compaiono giganteschi obelischi di roccia.
Secondo le mitologie essi sono monaci tramutati in roccia o antichissime sculture modellate quando la pietra era ancora morbida. Non dico come gli indiani chiamano questa zona piena di virgulti che s'innalzano verso l'alto.
Sicuro è che le rocce sedimentarie e calcaree hanno permesso agli agenti atmosferici di plasmare con grazia pilastri naturali.

Cammino insinuandomi tra rocce sopra basamenti bianchi resi lisci dall'erosione. Vago tra monoliti o gruppi concatenati dalle morfologie più disparate: piramidi e picchi aguzzi, a forma di testa o di fungo, dita che indicano qualcosa, lineamenti antropomorfi. Solchi perfetti nella pietra, anse, curve, rotondità.

La fantasia gioca con il tempo mentre rischio di perdermi tra rocce della Valle de los Monjes. Ad un tratto giungo in un punto dove domino la conca e parte dell'altopiano che supera i 2300 metri di altitudine. Colline, montagne dalle rocce stratificate, buchi dove si infossano canyon, alberi dalle foglie chiare e pascoli richiedenti acqua. Panorami autenticamente nordamericani.

Sono triste perché il ritorno chiama. Ancora nove chilometri di pista nel territorio indigeno, guidato dal sole e dalla polvere di terra.

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Territorio autonomo Tarahumara




mercoledì 23 agosto 2017

Indiano Tarahumara


venerdì 11 agosto 2017

Camminando verso la chiesa indigena di San Ignacio


L'autobus mi lascia ai bordi del territorio indigeno. Passo indisturbato il posto di controllo. E' presto. Costeggio il lago Arareko, addentrandomi nel distretto autonomo degli indiani Tarahumara.
La giornata inizia nel migliore dei modi: il lago contornato da grandi boschi di conifere, i sentieri d'erba e aghi di pino, scoiattoli che si rincorrono attraverso acrobazie. Nessuno in giro.
Sono a pochi chilometri da Creel, Chihuahua. L'obiettivo di oggi è raggiungere la chiesa indigena di San Ignacio, il santo preferito.

Dopo aver passato un'area attrezzata per i visitatori, incontro un uomo che mi conferma l'esistenza di una scorciatoia per raggiungere San Ignacio.
Ad un certo punto il bosco di pini e querce si apre, lasciando spazio ad alcune fattorie attorniate da prati che attendono pioggia. La strada sterrata mi porta verso uno di questi casolari. Domando dove passa il sentiero a delle signore intente ad accudire gli animali. Una non capisce, l'altra mi indica una direzione vaga oltre la fattoria. Cani da guardia corrono verso di me ma vengono richiamati dalla donna.
Risalgo un dolce crinale boscoso composto da rocce calcaree e, oltre una nascosta zona di abbandono dei rifiuti, domino l'avvallamento successivo.
Il panorama montano è rappresentato da animali al pascolo, colline, foreste, qualche fattoria. Illuminate dal sole in lontananza si delineano bastioni di rocce modellate dal tempo. La stessa pietra morbida che forma i Copper canyon o Barrancas del Cobre.

La valle successiva è quella che racchiude la piccola comunita' indigena di S. Ignacio. Alcune case, una scuola, cimitero, un campo sportivo coperto. Ma è la chiesa la vera perla. Nelle squadrate pietre chiare che costituiscono la struttura, le arcate semplici, nella sua frugalita' inalo tutta l'essenza del nord del Messico rurale.
Incorniciata dalla limpidita' del cielo d'America, vedo immagini di un territorio scarno che ci hanno fatto conoscere le pellicole, ma anche le storie del declino indigeno, la religione, il sincretismo.
Entro nel luogo di culto che presenta diverse scritte in lingua indiana. Un Gesù dai tratti autoctoni.

Fuori il sole arde. La strada per tornare a Creel è tutta da definire.

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lunedì 24 luglio 2017

I canyon visti dalla ferrovia Chihuahua-Pacífico

Appena seduto sulla poltrona del treno sopraggiunge un forte attacco di sonno. Non posso dormire ora che inizia uno dei percorsi su rotaia piu' mozzafiato che esistano. Tiro fuori una bevanda dal leggero contenuto eccitante e quasi subito mi sembra di star meglio. Grazie Bernie per il dono.

Tutto ha inizio la giornata precedente: il ferry che dalla Bassa California conduce a Topolobampo, con le magnifiche coste della penisola californiana viste dal mare, il passaggio fino alla stazione di Los Mochis, la notte, le zanzare e la coda per acquistare il passaggio. Il primo della fila, il primo a possedere un biglietto per Posada Barrancas.

Il treno con l'aria condizionata si arrampica lentamente. Prima i campi coltivati stranamente verdi, il fiume, le colline in avvicinamento. Il panorama iniziale e' piuttosto desolante: rifiuti abbandonati, fattorie e case disperse nel nulla, animali che vagano tra cespugli spinosi e cactus alla difficile ricerca di nutrimento. Auto di vecchia fabbricazione statunitense coperte dalla ruggine e dalla polvere.
Sopra i 700 metri, e dopo aver passato le prime gallerie, aumenta il verde, l'umidita' e l'altezza degli alberi. Le vallate diventano gole profonde dove in basso scorre qualche filo d'acqua residua. Sono mesi che non piove.

Il treno che porta in alto passando per i Copper Canyon o Barrancas del Cobre effettua le prime fermate. Controllori compassati in perfetta uniforme assegnano posti rigorosamente a sedere. Il mio vagone di seconda classe è praticamente pieno.

Da un alto ponte a forma di arco domino un lago artificiale lungo e stretto. Sulle sue sponde ci sono coltivazioni di ortaggi.
Nelle curve piu' acrobatiche vedo la motrice sbuffare fumo grigio e le successive carrozze. Entriamo in un nuovo tunnel, e, improvvisamente, all'uscita il paesaggio muta ancora. Scompare la foschia e arrivano deliziosi boschi di sempreverdi. Siamo a 1500 metri, l'inizio di un altopiano che, nelle sue scarse morfologie, seguiro' per migliaia di chilometri verso sud.


In prossimita' della mia meta si cominciano a vedere conformazioni rocciose stratificate che precipitano in valli strette e oscure. E' iniziata una delle aree piu' estese al mondo per quantita' e qualita' dei canyon.
Il controllore mi avvisa che la prossima fermata è Posada Barrancas. 2200 metri. Scendo dal treno nella piccola stazione montana. L'aria odora di conifere ed il sole è forte. Dopo molte ore di viaggio senza dormire sono a Copper canyon. Gli occhi salutano il treno che riparte. 
 
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