giovedì 25 agosto 2016

Lidder valley


giovedì 28 luglio 2016

Aru, Lidder valley, Kashmir

Nella jeep collettiva c'erano solo accompagnatori di cavalli per turisti. 
Estraggo dalla tasca il  nome di una persona che potrebbe ospitarmi. Chiedo dove abita e mi accompagnano presso una grande casa di legno con il tetto in lamiera. Entro nell'abitazione e in cucina vedo due uomini che stanno fumando. Manzoor Kuche esce dalla stanza e mi abbraccia in modo familiare. Ancora non lo so, ma quest'uomo con i baffetti ed il gilet da pescatore diverra' una delle persone piu' significative del viaggio in Kashmir.
Su consiglio di Manzoor prendo il sentiero che sale verso una delle due valli che si diramano da Aru. In alto, immobili, salgono catene di roccia e neve di 4000 metri. Il percorso passa per una serie di boschi di sempreverde, per poi aprirsi in una moltitudine di pascoli bagnati da ruscelli. Qui sorgono diverse case dei pastori nomadi. Sono strutture di legno e pietra con il tetto piatto ricoperto da arbusti e terra. Se non fosse per il telo impermeabile che copre qualcuna di queste case, sono abitazioni che gli esseri umani costruiscono uguali da millenni. Al vedere un occidentale qualche bambino in tunica lunga esce dall'oscurita' per salutarmi e chiedere qualcosa.


Seguo a caso i sentieri piu' battuti, per decidere infine la meta: un passo verdeggiante.
Come ad Aru, 2350 m, qui l'aria ed il cielo sono limpidi, lontani dallo smog della perigliosa Srinagar.
Dopo aver passato altri insediamenti di nomadi comincio a risalire la piccola valle che conduce al passo dal nome sconosciuto. Pietre ed erba bassa costellano il sentiero. Impiego molto di piu' del previsto, ma, finalmente, raggiungo la meta. 3250 metri. Dal passo domino parte della valle del fiume Lidder, le cui acque bianche provengono dala catena montuosa del Kolahoi. Con l'andare della giornata le nuvole si addensano attorno alle cime piu' alte, nascondendole.

giovedì 30 giugno 2016

Srinagar vista da dentro

E' difficile vedere Srinagar da questo locale. E' possibile ascoltarla, annusarla, anche se il curry della cucina confonde i sensi. Usero' gli occhi del cuoco Aziz per osservare.
Il ristorante di Aziz di giorno pare chiuso, oscurato dal totalitarismo del ramadan: spingo una porta ed una zaffata di gas e odori pungenti mi investono. Una stanza di diciotto metri quadri, un tavolo perennemente unto, due sgabelli, zanzariere quasi completamente otturate da polvere, grasso e sporcizia, finestre coperte da tessuti scuri. Sopra un mobile in cemento e piastrelle sono inseriti il lavandino, alcune mensole ed un frigo. Cosa contiene il frigo? Alimenti deperibili e... la cassa dei soldi.

Sopra il lavandino e' situato uno scaldabagno elettrico misteriosamente avvolto da un antico cellophane trasparente. Ancora piu' a destra sono situati i fuochi del gas e pentole fumanti di alluminio annerite alla loro base. Aziz mi volta le spalle mentre cucina la mia mezza porzione di curry di pollo. Prezzo concordato in anticipo: 130 rupie. Il cuoco lavora svelto indossando un grembiule da cucina.
Sopra le piastrelle una volta gialle si agita una ventola di aspirazione. I muri del ristorante sono vecchi, scrostati e unti.
Aziz  mi serve su un piatto d'acciaio del riso bollito di qualita' ed un buon curry. Su due ciotole di metallo sono adagiate verdure fresche e cetrioli grattugiati nello yogurt.
Nel locale in apparente penitenza entra lo strombazzare continuo e compulsivo del traffico di Dalgate ed il vociare degli ambulanti. Dentro, con il sudore che scende verso il basso sotto forma di goccioline, ascolto musiche kashmire da una radiolina.
Aziz mi descrive con orgoglio la sua moschea Jama. Parla male del governo nazionale e locale, dei militari (indiani, non kashmiri) massicciamente presenti con armi pesanti in pugno in ogni angolo della citta'. Dice che la situazione non puo' che peggiorare. Probabilmente ha ragione riguardo l'ultima affermazione.
Sono l'unica persona seduta a mangiare nel piccolo locale di Aziz, anche se ogni tanto entra un uomo a spiluccare qualcosa o a fumare una sigaretta proibita.

mercoledì 8 giugno 2016

Ritorno a Bogotá

Da Barichara scendo a San Gil. 150 metri di dislivello e pochi chilometri di distanza fanno la differenza. Lascio il pomeriggio caldo e secco di Barichara per digradare nel buco dove si adagia San Gil. Piove a dirotto. Esco dalla buseta imprecando sottovoce. Quando arrivo all'hostal sono completamente bagnato; chiedo alla responsabile di prenotarmi un bus notturno per Bogotá.
Nell'hostal c'è solo una coppia di giovani europei che sta leggendo riviste patinate colombiane.
Anche se è lunedì, i bus serali con migliore orario d'arrivo sono pieni. Devo partire alle 21. Non importa, il biglietto è scontato e non devo andare fino al terminal di San Gil. Pago 30.000 pesos ed ho il voucher di viaggio con la buona compagnia Copetran. Nel frattempo fuori ha smesso di piovere. Esco a prendere un paio di birre Aguila al Metro.

Il viaggio scorre senza contrattempi: posto ottimo, televisore spento, autista non particolarmente creativo. Riesco a dormire un poco con il suono dei Cinematic Orchestra nelle vene.
La ferita provocata dagli ultimi giorni di viaggio viene un poco sanata dalla nuova visita alla metropoli grigia e stimolante, barocca e pericolosa che porta il nome di Bogotá, Distrito Capital.
La sensazione di perdita provocata dall'imminenza del ritorno non è oggetto di guarigione. Se la partenza è frattura, lo sfilacciarsi dei legami http://travel-ontheroad.blogspot.com/search/label/Prima%20della%20partenza , nel ritorno prevale la tristezza della privazione. 
Le ore volano e rapidamente iniziano le prime fermate per i passeggeri che abitano in periferia.
Sono le 4:07 quando entriamo nella gigantesca La Terminal di Bogotá. Recupero svelto lo zaino e mi infilo al caldo della struttura, non prima di aver dato una veloce occhiata al cielo nero e basso che si muove sopra la capitale.
Anche alle 4 del mattino la stazione dei bus è piena di gente. Trovo un posto quieto presso le partenze, in attesa che il crepuscolo faccia comparizione tra le Ande.

Sono le 5:50 quando la luce di un giorno lattiginoso mi vede uscire dal teminal. Il quartiere benestante di Salitre è già in fermento: autobus, auto e taxi scivolano da qualche parte, prima del grande traffico. Cammino tranquillo, osservando gente che esce a correre, gente senza speranza, donne e uomini di campagna diretti verso il terminal. Palazzi residenziali pieni di telecamere e filo metallico elettrificato.
L'indulgere nel quartiere mi costa caro: quando arrivo alla fermata El Tiempo, i bus metropolitani J6 diretti verso il centro sono inverosimilmente pieni. Sono quasi le 6:30 e la frequenza è alta, ma gli autobus sono impenetrabili. Dopo aver visto passare 4-5 mezzi non ho alternativa: spingo per trovare un alito di spazio nel bus. Alla fine le porte riescono a chiudersi senza mangiarsi lo zaino che tengo in mano.
Le braccia, il corpo, sono completamente indolenziti quando la gente comincia a scendere. Tutti usciamo al capolinea Universidades. Cammino fino a Las Aguas e quasi sono arrivato nel quartiere La Candelaria.
Nell'angusta Carrera 3 vige il perenne rumore delle busetas e dei taxi. Ai lati della strada gruppi di studenti in divisa si dirigono a scuola.



 
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