giovedì 28 gennaio 2016

Il Parque nacional Cajas, Ecuador

L'entrata del parco nazionale è posta appena sotto la strada che va ad occidente, verso l'oceano Pacifico.
La piccola guardia forestale ed il suo staff si eccitano per l'arrivo degli stranieri con l'autobus di linea. Sono il primo. Scambiamo due parole.
"Sei spagnolo?", chiede con sicurezza nell'atto di registrarmi.
La guardo per un intervallo di secondo, poi la bocca che frena un ghigno risponde: "Sì".
La funzionaria mi spiega qualcosa, mi avverte che è pericoloso uscire dai sentieri e, consegnatomi una mappa abbastanza incomprensibile, passa alla coppia di britannici dietro di me.

Dagli stabili della sede del parco si domina il panorama che caratterizza gli ecosistemi andini del
páramo: arbusti, erba dura mezzo ingiallita, piante grasse, macchie di alberi e qualche fiore isolato. In basso si adagiano diversi laghetti che ora trasmettono il grigio-bianco del cielo. Quest'ultimo trasporta nuvole che nel congiungersi con montagne di roccia e prati diventano più evanescenti. La vista non è poca cosa.
Comincio a scendere il sentiero umido di terra scura accompagnato dal vento.
Dopo aver attraversato il primo lago, le abbondanti indicazioni iniziali sul percorso cominciano a diminuire, lasciando spazio ad un tracciato sottile tra gli steli d'erba. Nei giorni passati ha piovuto molto, quindi l'acqua ed il terreno melmoso mi fanno capire quale sarà uno degli intralci principali lungo il percorso: il fango.
Dopo mezzo chilometro supero una coppia di ragazzi indecisi se andare avanti. Afferriamo cespugli per non scivolare sul fango nero di terra vulcanica.
Ad un certo punto il sentiero si dirama in due-tre percorsi. Ne provo uno che conclude nel nulla, ne provo un altro e vedo una traccia che sale oltrepassando l'avvallamento che congiunge due laghetti. Lo raggiungo. A questo punto non posso che andare avanti, viste le mie condizioni: nel punto più basso, prima di raggiungere una tavola di legno che fungeva da ponticello, quasi appeso ai rami di alberi bassi non sono riuscito a non sprofondare nel fango e muschio e acqua oltre le ginocchia.
Da un boschetto di alberi di queñua posto a riparo sotto una pendice si gode la vista verso oriente.
Decine di specchi d'acqua digradano verso il basso, tra cime arrotondate rivestite di prati e circondate da nubi. Oltre le montagne e la foschia si può immaginare la città di Cuenca, il gioiello del sud dell'Ecuador.     
In questo tratto di percorso alto, dove l'aria dolce di tropico si mischia a fragranze montane, l'olfatto si inebria, si confonde, perdendosi dentro sé stesso.
Discendo per altri pendii, costeggiando laghi stretti la cui limpidità del liquido contenuto in essi si trasmette da una conca all'altra. Anche se credo di aver sbagliato percorso vado avanti, sicuro della vista ampia che consente
l'orientamento. Perdo lentamente quota, tra erba, muschio e specie di agavi dalle foglie seghettate che offrono i loro fiori su steli massicci. A tratti compare il sole.

Sono passate almeno tre ore di cammino quando incontro il segnale finale del sentiero numero uno, ben sopra la strada asfaltata che scende a oriente.
Ho compiuto il giro largo di buona parte dei laghi e laghetti del parco nazionale Cajas, percorrendo tracce antiche sulla cordillera Central, librando il corpo vicino ai 4000 metri di altitudine.
Decido di tornare alla sede del parco per visitare il suo museo e poi fare autostop verso la città incantata, Cuenca.

mercoledì 13 gennaio 2016

Parque Cajas, Ecuador


mercoledì 30 dicembre 2015

La musica favorita del 2015


Jono McCleery (GB) – Pagodes – If Music & Ninja Tune Records Genere: Indie, Folk




Floating Points (GB) – Elaenia – Luaka Bop / Pluto Records Genere: Electronic, Cinematic




 Björk  (IS) – Vulnicura – One Little Indian Records Genere: Experimental, Electronic, Art Pop




 Jon Hopkins (GB) – Late Night Tales – LateNightTales Records Genere: Electronic, Cinematic, Ambient




Kamasi Washington (USA) – The Epic – Brainfeeder Records Genere: Soul Jazz, Fusion




 Menzione per i lavori di: Hudson Mohawke, Alabama Shakes, Yppah, Neon Indian, Drake, Jamie xx e Alex G.

giovedì 24 dicembre 2015

Il vulcano Chimborazo

In poche ore sono passato dalle miti temperature di Baños alla nebulosa entrata del parco del Chimborazo. Da 1800 a 4300 metri. I guardiaparco mi suggeriscono di coprirmi.
A Riobamba ho improvvisamente deciso di prendere il bus che passa per l'entrata del vulcano più alto d'Ecuador. Nel mezzo di trasporto mi sono seduto accanto ad una guida che è scesa con me. Dice che oggi non sarà facile vedere la montagna.
In un ambiente silenzioso, lunare, spazzato da nuvole perenni e dal vento che le accompagna, mi registro, lascio lo zaino presso l'ufficio del parco, indosso la giacca a vento economica e faccio rifornimento d'acqua nei bagni. I guardiaparco annuiscono con la testa. "Non abbandonare il sentiero, ci si può perdere", ammoniscono. Non sono preoccupati per me, sanno che so.

Respiro nuvole e vento sulla strada brulla di ghiaia grigia, con rari ciuffi gialli d'erba e cespugli contorti verso il basso come unica vegetazione. Ogni tanto il panorama circoscritto si apre per qualche secondo facendo intravedere l'altopiano che declina bruscamente verso nord-ovest. Il percorso sale lentamente, attraversando dolci avvallamenti extraterrestri che rapidamente cambiano direzione. Passa qualche jeep, mischiando polvere di terra con polvere d'umido. Quando la motivazione di salire verso il nulla si affievolisce nel freddo, con una prospettiva indefinita di osservare qualcosa, nel silenzio assoluto,
davanti a me la nebbia si apre disvelando una longilinea sagoma di vigogna. Zampe sottili, collo lungo, manto superiore quasi rosso. Come in un pezzo onirico di Floating Points, la visione dell'animale dal comportamento composto e attento dura poco. La nebbia lo riassorbe presto.

Dopo aver preso una scorciatoia e riguadagnato la strada decido di fare autostop. Il primo pick-up non si ferma, il secondo sì. Sono due uomini sulla quarantina; uno meticcio e l'altro nero. Sarà per il loro modo di parlare, per il fatto che il nero ha l'accento straniero e perché sullo specchietto dell'auto portano un crocifisso che chiedo loro se solo cristiani. "Sì, siamo sacerdoti", rispondono.
Il prete ecuadoriano è parroco di un quartiere della città di Riobamba, il nero viene dal Congo ed è un missionario.


In un lampo siamo al primo rifugio a 4800 metri. Saliamo insieme a piedi verso la base del Chimborazo, la montagna con la cima più distante dal centro della Terra. La vegetazione è ormai quasi sparita lasciando pieno campo a terra rossa lavica e pietre smussate. A circa 5000 metri raggiungiamo il secondo rifugio. Qui incontriamo la neve. I due sacerdoti sono felici di poter mettere i piedi sulle chiazze di neve ventata e di toccarla. A tratti il vulcano di 6310 metri disvela porzioni di ghiaccio e roccia che salgono alte, oltre le nuvole.
Deve aver nevicato durante la notte. Nell'equatore d'America anche a 5000 metri la neve dura poche ore.

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