venerdì 24 dicembre 2010

Buio su Bangkok

Zampe. Il bus ci porta celermente in avanti, nonostante l'oblio offuschi la destinazione. Una certezza sbilenca mi sussurra che il viaggio sara' inspiegabilmente tranquillo e veloce; niente forature di gomme, nessuno stop forzato presso ristoranti bollenti, basta fermate ogni venti metri per raccogliere qualche distratto passeggero. Dai vetri polverosi arriva una balugine di informi panorami tropicali: il Myanmar, credo.  Mentre ondeggio sento raschiare sulle assi di legno. Sono zampette.
Gli occhi si aprono e, nell'oscurita' rischiarata dalle mille luci della metropoli, vedo due forme allungate che si trascinano sul molo di legno annusando in giro con prudenza. Topi. Erano loro che accompagnavano il mio dormiveglia. Il tempo è scivolato sulle braccia, sopra la maglietta, sul corpo magro, per trattenersi intorno alla bottiglia di vino di riso. Affascinata dall'incedere lento del Chao Praya, quest'ultima rimanda ovunque frammenti di abbagli provenienti dal manto caleidoscopico del fiume, e da tutto l'universo brulicante che le si affastella ai lati e sopra, come un codice Morse luminoso conosciuto a pochi. Alzandomi da questo luogo che fa parte delle intime abitudini, raccolgo la bottiglia vuota e la rimetto nel sacchetto di plastica.
La citta' che non riposa mai mi accoglie nuovamente con le sue auto veloci, i tuk tuk ed i bus provenienti dal nulla con i numeri sbiaditi. Cammino per una quasi fresca Phra Athit alla ricerca di un locale dove mangiare. Bar e ristoranti costosi si intercalano abkk b minimarket e a venditori ambulanti. Scavalco luci e luci per ritrovarmi di fronte al locale dell'altro giorno: una stanza scarna con pareti macchiate dal tempo colma di tavolini che dall'interno rigurgitano sulla strada. Anche se è pieno di avventori all'inverosimile dico al gestore che vorrei mangiare. Mi accomodano presso un tavolo già occupato da tre persone; i due ragazzi e la ragazza mi sorridono accondiscendendo con grazia orientale, poi riprendono a cibarsi.
Quando la grossa ciotola di zuppa di noodles di riso viene posizionata di fronte a me cominciamo a intessere un diluito discorso. Sono tre malesi di origine cinese che vivono da generazioni a Penang. La ragazza, Lin Lin, affascinante, ha una carnagione così bianca che pare non abbia mai incontrato raggi solari. Wende, uno dei due maschi, emana dagli occhi sfuggenti una conoscenza profonda. L'altro componente del terzetto è piuttosto allegro causa probabilmente le birre sparse sul tavolo. Anche loro camminavano nella notte in cerca di qualcosa e hanno trovato questo posto frequentato da thailandesi.
Ad un certo punto il tipo più vivace propone di andare a Patpong. Lin Lin annuisce spostando occhi interrogativi da Wende in mia direzione.
“Va bene”, dico in rimando, posando orizzontalmente i bastoncini sui bordi della ciotola.
Conveniamo tutti che è meglio prendere un taxi, data la tarda ora.
Voliamo nel buio, e dai vetri cristallini dell'autovettura la Citta' degli Angeli ci scorre dentro, col traffico che finalmente inspira la meritata boccata di pace. I negozi del quartiere cinese, le bancarelle dei mercati diurni, le jeep dei militari, l'architettura del luogo, accettano, o meglio, si abbandonano alla tregua come le pause notturne durante la guerra di trincea.
Lin Lin e il ragazzo allegro soffiano dalla bocca note di una musica lontana mentre Wende li guarda a tratti sorridendo lievemente. Non riesco a svelare le sensazioni che provo in questo particolare momento: è come se la mente venga afferrata e liberata dalla mutevolezza, come simultaneamente straniarsi e sentirsi parte di un tutto inintelligibile, nuotare solitari nel mare infinito che ad ondate casuali incorporerà.
Intanto le insegne abbaglianti dai colori pornografici si infittiscono, certezza che siamo in prossimità di Sala Daeng. Davanti a noi, e sotto la vigorosa struttura di cemento armato dello skytrain, attraversano la strada due occidentali seguiti dalle loro amiche thailandesi.
Proprio qui nel taxi, con il sottofondo vocale dei compagni di viaggio, nel buio rischiarato a giorno di Patpong, e nell'oceano burrascoso dell'identità mutante, percepisco che la tessitura dell'instabile familiarità si rafforza.

martedì 7 dicembre 2010

Bangkok, la sera

La citta' stende le sue lunghe ali, e con la rapidita' di una nuvola solitaria che offusca il sole, la sera raggiunge Banglamphu. Ancora una volta il fiume torbido, e gli alberi, e le case, respirano la liberazione dalla luce. Esseri umani, uccelli e gatti dal pelo corto si muovono con maggiore audacia, quasi indotti da una forza esogena che rinasce ad ogni tramonto. Neon pacchiani dei locali e di negozi cominciano a prendere vita, illuminando volti e membra sudate che percorrono l'asfalto. Il nuovo crepuscolo saluta l'infinita Citta' degli Angeli: paradossalmente e' l'eclissi, e l'inizio della giornata.

Mentre camminavo con Jens a Yangon downtown, tra marciapiedi sconnessi, rifiuti, folla e strade urlanti, tentavamo di rivelare lo straordinario effetto che aveva il cadere del sole tropicale sugli esseri viventi. Era come il svegliarsi al mattino sopra un letto fresco, ricevere una doccia purificatrice, inspirare profondamente, vedere e sentire il mondo con vista e udito diversi, rinnovati. Dopo una giornata bollente questa catarsi la si percepiva ovunque, negli angoli o nelle case, negli uomini e nelle strade. In tutta la sua indecifrabile pienezza.

Sono appena sceso dall'alloggio dalle pareti di cartongesso che odora di muffa. Oggi ho visitato uno dei mercati della frutta sotto un cielo caustico, percorrendo chilometri di strade e vicoli, quindi, costeggiando il canale, una grande arteria mi ha condotto allo stadio nazionale e alla zona commerciale. Case basse e venditori ambulanti prima, chilometri di palazzi di vetro e acciaio e negozi di lusso dopo. Le ore più calde mi hanno visto vagare in un mall immenso, quasi spaesato dal miscuglio di prodotti occidentali e orientali, ringiovanito dall'aria condizionata. Nel bus 15 che mi riportava a Banglamphu tra il traffico pauroso, percepivo me stesso odorante di sudore, fritture e durian.

Bangkok, la sera, mi accoglie con buio fresco, con i passanti eccitati pronti a togliere ancora una volta la verginità alla notte smisurata e generosa. Percorro la strada piena di chiassosi ristoranti per turisti, carichi di prodotti siamesi in salsa occidentale dal prezzo astronomico rispetto agli standard locali. Il viso inespressivo oltrepassa venditori di magliette, di BBK eveorecchini, di software pirata, spacciatori, cambiavalute, ATM, lavanderie e mille altri ambulanti. Rifulgo da quell'abbaglio per immergermi in un vicolo solitario e male illuminato che porta verso il fiume Chao Praya.
Dopo essere uscito da un negozio con una bottiglia di vino di riso, tra l'andirivieni di gente di ogni sorta scorgo una ragazza dai  capelli chiari seduta sui gradini di un negozio. Scambiamo alcune parole mentre lei mangia degli involtini fritti appena acquistati da un ambulante, poi ci alziamo e ognuno segue la sua strada.
Veloce sulle infradito attraverso il ristorante di lusso col mio sacchetto di plastica contenente la bottiglia stappata, e finalmente vedo il fiume.
Bevendo lentamente sono qui seduto sul molo di legno che di giorno accoglie le barche del trasporto pubblico cittadino. Gli occhi riverberano lo specchiare delle luci sul fiume: fanali di auto che attraversano il ponte, finestre di palazzi e grattacieli, fari di rimorchiatori e di battelli traboccanti musica della crociera notturna. Il fiume invece è come sempre silenzioso, e dove non è costretto a riflettere bagliori alieni rimane oscuro, impenetrabile, solcato da piante acquatiche provenienti da lontano. Ondeggio con lui, immergendo i pensieri nel suo liquido vagabondo, inspirando la brezza che gli scivola sopra, e assumendo ancora alcool di riso. Non ho ancora deciso dove andro' a cenare: forse in quel locale sempre pieno di thailandesi dalle parti della Phra Athit, oppure mangero' qualche sostanzioso curry di riso sulla strada.
Rimango nel buio della notte, a un soffio dal fiume, cercando inutilmente di disvelare i segreti profondi della Citta' degli Angeli, l'immenso fascino celato sotto la patina volutamente multicolore e caramellata che offre allo straniero. Una seduzione, una saggezza che appena riesco a lambire.

giovedì 18 novembre 2010

Una mattina a Bangkok – parte due

Le infradito raschiano lievemente le piastrelle consumate del Ratchadamnoen Klang; il viale immenso termina da qualche parte nell'orizzonte composto e umido. Attorno sfilano passanti, taxisti in attesa di lavoro e qualche turista che si avventura fuori dai recinti ordinari senza un mezzo a motore. E poi c'è il traffico delle nove sopra una strada dalle mille corsie. Se non fosse per lo sciamare compulsivo di veicoli, questa zona della citta' sarebbe davvero piacevole, quasi perfetta: sulla destra l'università, il teatro e in lontananza il Palazzo reale, alle mie spalle il fiume carico di limo e piante acquatiche, davanti ancora monumenti. BKKIn  alto il monsone sfavilla nuvole placide che migrano verso nord.
Mi passo per l'ennesima volta la mano sulla fronte per allontanare sudore. Numero due. La prima traspirazione è arrivata quando facevo colazione, nonostante il ventilatore acceso sopra il capo; bevevo caffè tiepido e lì, dietro, sotto la maglietta, centinaia di goccioline convergevano in rivoli caldi che percorrevano la schiena per accumularsi nella stoffa dei pantaloni.
Ad una fermata del bus gli occhi cercano il numero 79. Nulla. Proseguo alla successiva trovando sul consunto cartello metallico quello che cercavo. Mi siedo su una panchina accanto ad un ragazzo, mentre decine di persone aspettano pazientemente i mezzi pubblici. Il giovane indossa calzoni neri attillati, camicia scura sovrastata da una vistosa collana d'oro, scarpe di tela; un ciuffo di capelli lisci copre buona parte della guancia brufolosa.
“Scusa, ogni quando passa il 79?”, chiedo.
Il ragazzo prima di rispondermi muove leggermente il busto in segno di disagio. “Ogni quindici minuti... più o meno”, dice timidamente.
Dopo poco arriva il mio bus arancione, prendo posto e attendo rilassato la bigliettaia con calzettoni corti e gonna blu di ordinanza. Quattordici baht. I passeggeri mi osservano per qualche secondo, poi riprendono a toccare il cellulare o a guardare fuori dal finestrino godendosi la temperatura all'interno del mezzo. Nessuno lo esprime esplicitamente quasi fosse un segreto profondo, ma sotto gli occhi dei viaggiatori riconosco il piacere dell'attimo, catturo la gioia di esporre pelle, vestiti, tutto, alla catarsi dell'aria condizionata.
Dal vetro le mie iridi salgono sul Monumento alla democrazia che si perde nel cielo indefinibile, toccano i contorni del Forte, il ponte sul canale, per poi percorrere la Lan Luang road.
La Citta' degli Angeli mi entra sempre con maggior forza come una oscura e tossica pozione; se dovessi analizzarmi assisterei dentro alla mente ad una battaglia selvaggia tra l'istinto liberatorio di abbandonarmi alla metropoli e la volontà programmatica che attinge da qualche insulsa razionalità. Perché non farsi trascinare dal mezzo in posti sconosciuti, alieni, in quartieri impossibili e magari ostili? Perché non perdersi in labirinti vergini all'occhio del viaggiatore?
Scendo alla fermata, attraverso una strada ed incontro quello che cercavo. Costeggiando parzialmente un canale alberato, a cavallo tra l'area storica e quella commerciale di questa immensa citta', ifruitl mercato della frutta mi si apre davanti. Mangostine, longan, banane, dragon fruit con polpa rossa e bianca, dolcissimi chirimoyas, manghi, avocado, noci di cocco e decine di altri frutti sono perfettamente allineati sulle bancarelle brulicanti di clienti. Giro tra gli stretti vicoli interni del mercato osservando, comparando i prezzi, perdendo tempo senza perderlo.
Fin da questa mattina, quando stavo disteso sul letto della stanza dalle pareti di cartongesso ipnotizzato dalle pale del ventilatore, programmavo di acquistare ad un costo ragionevole il re dei frutti tropicali, quello per cui vale la pena affrontare asfalto ed umidità.
Presso la bancarella che ho di fronte trovo cio’ che desideravo: un robusto giovane con guanti e grembiule rinforzato, munito di coltelli ed una specie di machete, mi mostra con orgoglio la montagna di spinosi durian che ha alle spalle. Mentre faccio pesare, stimo, annuso, alcuni passanti osservano incuriositi questo straniero piovuto dall'effimero con la maglietta inzuppata di sudore, disperso in un lontano mercato della Citta' degli Angeli; osservano il suo contrattare, il sorriso determinato, l'espressione del suo volto quando assaggia il loro frutto più intimo. Il durian impossibile.

domenica 31 ottobre 2010

Una mattina a Bangkok – parte uno

Nella Citta' degli Angeli la mattina arriva troppo in fretta. Apri gli occhi con il buio, rigiri il corpo magro nel duro materasso ed è già giorno. Le ore di luce mattutine che ti getta addosso il quartiere Banglamphu sono sempre silenziose, quasi a compensare gli eccessi della notte in una città molto generosa con gli uomini. Questo peduncolo di verde, hotel e case attaccato al Chao Praya river è come una cittadella proibita rimasta intatta agli algidi bombardamenti di aerei stranieri portatori di una loro democrazia, intonsa alla corrosione di un tempo che ha per unica arma la pazienza. Fuori Banglamphu, mostruose e gonfie arterie colme di metallici marchingegni si sfidano a vicenda affondando nell'afa per condurre da qualche parte persone e cose; linfa corrosiva e forse necessaria che avvolge e ancora avvolge. Dentro Banglamphu, regna il silenzio del feroce sole crescente, ammorbidito da nuvole monsoniche. Precisamente, nella piccola stanza dalle sottili pareti di cartongesso, un rumore costante mi circoscrive. Osservo le instancabili pale del ventilatore muoversi sotto il soffitto macchiato, un cerchio ipnotico il cui suono si e' fissato nel cervello fino ad annullarlo consciamente, dopo averlo incorporato tutta la notte. Rumore corrosivo ma necessario.
Dal soffitto sposto lo sguardo alle lenzuola che non coprono il corpo nudo: sono lì su un lato del letto solitario, spiegazzate, rattoppate dai buchi di brace di sigaretta, gialle a furia di lavaggi, quasi inutili. Solo verso l'alba, quando la temperatura si avvicina a qualcosa  che assomiglia vagamente alla passabilità, esse vengono cercate e magari posizionate sui piedi. Specularmente a quando il sole tramonta, le ore che accompagnano il sorgere del sole sono quelle del ristoro, dell'anelato impossibile fresco.

Sono sbarcato ieri pomeriggio nell'umida stazione dei bus di bkkEkkamai dopo un lungo viaggio proveniente dalla costa interna,  salito sullo skytrain, poi il familiare bus 15, Banglamphu. Niente tuk-tuk o taxi come fanno i turisti. Quando il giallo pallido del tramonto stava cedendo gli ultimi colori pastello alla notte entravo in un hotel economico dalla facciata pomposa, contrattavo il prezzo dopo aver dato un occhio alla camera e mollavo i polverosi bagagli. Poi fuori per acquistare una Leon e rambutan.

Allungo il braccio verso il comando del ventilatore per abbassare di un punto la velocità, tanto per ammorbidire la sua presenza sonora. Ora dalle pareti mi arriva il tossire della persona che dorme nella stanza accanto; da qualche parte una porta si chiude.  Alla mia sinistra -vicinissima al letto e sopra un mobiletto- vedo una piccola televisione sulla quale ho appoggiato lo spazzolino e il contenitore del sapone, monete, la chiave del lucchetto. La bottiglia dell'acqua è accanto all'elettrodomestico a cui ho staccato la spina. Sulla porta d'entrata è appeso l'asciugamano odorante di muffa e la maglietta che uso durante il giorno; i calzoni e lo zaino piccolo sono infilati nella cornice sporgente dello specchio accanto alla televisione. Precisamente, bisogna ottimizzare lo spazio. La borsa è ai piedi del letto accanto alla guida, l'usurata mappa della città, una birra vuota e le infradito. Il bagno si trova oltre la parete del letto; l'altra volta era fuori dalla stanza, ma non aveva importanza, ero e sono qui, nella Citta' degli Angeli.
Saranno le otto passate e fuori si ode qualche sporadica moto e nulla più oltre ai canti dei galli e il richiamo di qualche uccello dietro le mura di un monastero alberato.
Rimango ancora un tratto disteso osservando senza vedere la stanza, infilando pensieri raminghi e assaporando il fresco accumulato durante la notte; tra poco mi alzerò per raggiungere quello sconfinato viale che mi porterà fino in fondo alla Lan Luang road, sotto un cielo opalescente. Sono tranquillo perché qualsiasi ora mi alzerò sarà sempre troppo tardi e troppo caldo.

 
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