giovedì 3 giugno 2010

La fine della Panamericana

Un breve tratto di mare e poi verso la fine della strada motorizzata più lunga del mondo. Quasi quarantottomila chilometri di asfalto che affondano nelle vene di questo continente dove il viaggio nei sentieri della Natura e del tempo è ancora realizzabile. Il traghetto mi congiunge all'arcipelago di Chiloé, che ora è parzialmente occultato da una leggera nebbia marina, quasi fosse un'isola lontana del nord Europa. Anche se il mio vagare non è terminato, sento che qualcosa sta per chiudersi insieme alla Ruta 5, la Panamericana.
Sotto di noi un mare impenetrabile per effetto del moto ondoso ed un riverbero di provenienza indefinita. Raggi di sole sbilenchi filtrano tra nuvole cariche di cromaticità variabile; proiettando lo sguardo che dal filo dell'acqua raggiunge la terraferma a nord, si ricevono diverse sensazioni disarmoniche tra loro: luce al tramonto, arrivo di un temporale, occhi che osservano il mondo attraverso filtri improbabili. In alcune porzioni di cielo, nuvole e mare gareggiano a riflettersi il grigio, come in un continuo gioco di specchi. 
Il bus della Cruz del Sur vola sui prati verdi macchiati dal giallo del freddo dove pascolano bovini, attraversa fattorie di legno, boschi scuri piegati dal vento oceanico, masticando la strada solitaria. Una signora dai tratti indigeni sale ad Ancud: indossa una giacca color limone sbiadito e tra le mani porta un pacco voluminoso, forse un regalo. A tratti i cigvetri del bus si velano di una pioggia sottile e silenziosa, ottenebrando la visuale. Nelle vicinanze di Castro scorgo lembi di mare che si insinuano tra colline ricche di vegetazione. Fotografo mentalmente questa visione di mare-cielo-terra come un'unione sincronica di elementi che paiono fusi assieme. Forse le mie iridi sono prese d'inganno: forse gli alberi, i fiordi, le leste nuvole che confondono il cielo, i prati, non sono partizioni di paesaggio ma una inscindibile unità.
La cittadina di Castro mi accoglie con una tiepida luce che pare provenga dal sole. Questa volta ho un indirizzo sicuro dove dormire: un commesso viaggiatore che ho conosciuto molta strada più a nord mi ha fornito tutti gli estremi. Attraverso vie umide con la borsa a tracolla tra donne che tornano dalla spesa, artigiani con furgoncini rumorosi, operai e bancarelle dei commercianti. Suono al numero civico di una casa bassa e semplice. La signora con il grembiule blu mi ascolta in silenzio, poi, dopo essersi asciugata le mani in grembo, dice che è dispiaciuta ma tutte le sue stanze sono occupate.
Mi riesce difficile spiegarlo, ma Castro è una città diversa da quelle che ho appena visitato. Altra gente, altro sangue. Altri destini più severi. Visito la zona portuale e poi l'area delle tipiche palafitte poste sull'acqua. Cammino a lungo tra i quartieri popolari, osservando, accompagnato da ventate di pioggia invisibile e dalla brezza disarmante; come un vagabondo privilegiato e solitario sperimento cosa vuol dire vivere tutto il giorno fuori, facendosi corrodere piano piano dal cstfreddo, dall'umido, con la necessità corporale ed istintuale del  movimento. Percorro strade lunghe e diritte che si tuffano nel mare. Nella zona bassa della cittadina homeless avvolti da pesanti cappotti dormono sui marciapiedi accanto a bottiglie vuote. Come a Puerto Montt anche qui vedo ristoranti che si appoggiano su palafitte, ma pare siano chiusi. Prima di rientrare nella mia stanza faccio un giro nel movimentato terminal dei bus informandomi sulle destinazioni verso l'isola di Quinchao

La Panamericana è terminata. La scorro mentalmente lungo i tratti infiniti che ho percorso. Decine e decine di bus, ore su ore ascoltando musica, leggendo un poco, ma soprattutto con gli occhi abbagliati dal panorama che scorreva pazientemente sui vetri.
Da questo locale di Castro, Chiloé, seduto di fronte alla vetrata che si affaccia sulla strada, riesco a sentire sul corpo le vibrazioni che mi ha tramesso la Ruta 5, le molte persone sfiorate solo per un attimo e quelle invece che hanno portato significato. La strada è lì dura, calda, fredda, vuota, ma soprattutto inevitabile. Mi risulta difficile restare fermo mentre la via aspetta un nuovo passeggero dal destino ramingo, attende colui che affronta lo scopo disarmato.
Negli anni passati, durante un viaggio, vivevo il tempo trascorso sopra un bus, una barca, un treno come una perdita, una sconfitta. Adesso capisco che a cavallo della strada è possibile incontrare parte di sé stessi, è realizzabile il silenzio, mentre il flusso ci accompagna in luoghi sconosciuti.
Il movimento libero pare alieno alla senescenza, sembra alieno alla morte, trasmette uno status che si accosta alla invulnerabilità.
Con il corpo esausto, sotto questo cielo burrascoso, mi risale alla mente una frase del Kalevala: 'L'interna fiamma, la febbre di andare'.

giovedì 13 maggio 2010

Incoscienza a Puerto Montt

Legno e lamiera. Dalle finestre generose di spifferi del secondo piano dell'hospedaje Rosa vedo la gente del quartiere scendere la via che porta al centro. Un sole discontinuo scalda la stanza umida che traspira ancora l'alito evanescente dell'ultimo visitatore.
Questa mattina il bus mi ha scaricato fuori dal terminal, ad un soffio dal mare, tra i carretti del mercato spumeggianti di gente gonfia dai vestiti. Ho fatto pochi passi nelle viscere del quartiere popolano che odora di duro lavoro e di pesce e lì ho visto un luogo dove dormire. La signora mi ha mostrato una stanza riscaldata ma era troppo cara. Sono entrato ancora di più nei capillari della città per incontrare questa casa alta e arrugginita dal vento, governata da due sorelle; al piano rialzato  dell'hospedaje c'è una sartoria piena di donne che mi sorridono quando passo. Rosa, una delle due sorelle, ha detto loro che sono straniero.
Legno forte che conosce il vento carico di gocce provenienti dall'oceano, legno colorato pastello delle cornici e dei listelli; lamiera leggera e resistente, che si contrae riscaldandosi appena spunta il sole e intona sonorità misteriose al tambureggiare della pioggia. Tutte le case che scorgo dalla finestra dell'hospedaje sono in legno e lamiera, testimoniando la loro immobile precarietà. È carina questa stanza piena di luce. Vorrei riposare un poco ma esco subito. Le ragazze della sartoria stanno prendendo il caffè, sorseggiandolo in silenzio da grandi tazze colorate.
Il traffico sibila lungo la Costanera di Puerto Montt: è una delle vie che raggiunge il porto. La percorro con passo velocepmn dirigendomi verso il centro. La mano destra chiusa a pugno lambisce istintivamente il parapetto metallico che da sul mare, quasi a tracciare il  passaggio, quasi a rendere indelebili le orme sulla strada che entra in me. Il golfo è percorso da pescherecci scortati scrupolosamente dai gabbiani; ogni tanto dall'acqua emerge un capo nero e solitario di un leone marino che vaga alla ricerca di qualcosa, osservando il mondo con liquidi occhi scuri. Ora la passeggiata si fa più ampia, aumentano i pedoni e individuo persino qualche turista locale. Siedo su una panchina inalando forte l'aria che la brezza ha raccolto dal mare: sulla destra vedo un'isola montagnosa ricoperta da vegetazione sempreverde e poi, in là, il libero confine tra fluido e cielo. Alti grumi scuri in un'avanzata rettilinea e senza ostacoli vorrebbero essere immortalati dall'acqua sottostante, ma il liquido increspato è già impegnato con il vento dell'ovest. Se lo sguardo si fa più paziente, in lontananza e per qualche istante, si riescono a cogliere nuvole basse con base uniforme che si ammantano di un fulgore la cui origine pare metafisica.
Il centro della città è un miscuglio di coloniale europeo, cemento e vetri e case decadenti appartenenti ad una borghesia perduta. Nell'ufficio informazioni turistiche chiedo le cose di sempre: una mappa del luogo, il supermercato, internet, dove mangiare, cosa fare. Recupero l'orario delle navi cargo che effettuano trasporto passeggeri dirette verso lo sconfinato sud, la Patagonia cilena. La ragazza dell'ufficio, stretta da un giubbotto jeans imbottito di pelo, mi informa con un sorriso di scusa che in questi periodi di bassa stagione e mare grosso i passeggeri sono molto scarsi.

Sorseggio una birra dopo una doccia bollente catturata nei bagni esterni alla stanza. Sono quasi agli antipodi della terra ma, come nel caldo infinito dei tropici e in modo speculare, anche qui la doccia diventa un momento catartico: doccia calda agli estremi, doccia fredda al centro del mondo, lontano, lassù. La maderfinestra del mio alloggio mi mostra uomini e donne che rientrano dal lavoro dopo una giornata qualsiasi di fine inverno; bevo lentamente la birra osservando il paesaggio che si dispiega fuori di me mentre il buio australe cade anche su questo giorno. Birra tiepida, stanza fredda. Sotto non odo più alcun rumore, le donne della sartoria devono essere andate a casa.
La sera esco rapido per dirigermi verso il porto. Mi muovo con le mani in tasca lungo il marciapiede ormai quasi vuoto. Una quindicina di minuti, o forse più, e sono nelle vicinanze dell'area portuale che di sera assume un aspetto inquietante. Nelle prospicienze sorgono alcuni grossi edifici costruiti sulle palafitte dove risiedono molti ristoranti incastrati tra loro; la gente del posto mi ha consigliato di venire qui. E’ lunedì, ed in giro c'è davvero poca gente. Salgo le scale di legno della struttura e scelgo un posticino con vista sul golfo.
La finestra scura del locale specchia una persona che mangia adagio, con la mente che vaga come un domino impazzito sui molti pezzi della giornata trascorsa e su quelli futuri che stanno per prendere forma. I vetri della finestra riflettono la figura magra del girovago mentre apprezza il calore delle patate del piatto locale, il curanto; se qualcuno avesse la pazienza di interrogare le pareti di legno del ristorante, queste forse testimonierebbero che l'individuo solitario, in quel preciso momento, gustava e incorporava fino in fondo i sapori antichi della terra visitata.

Anche se la stanchezza mi assale, questa sera non ho voglia di tornare nella stanza colma di finestre. Sono qui fuori in questo luogo semideserto e poco sicuro accanto al porto, ancora alla presenza del mare. Odo suoni di acqua e di animali, di sporadiche auto veloci e di vento che scivola intorno. Con la mente lucida sfido apertamente la sensazione di insicurezza che mi prende a tratti. È una incoscienza selvaggia, un alito di assurda invincibilità quello che mi attraversa, ma rimango appoggiato al parapetto, immobile, annusando questa città lontana. Tranquillo e spavaldo, come un suono dei Mogwai, come il viandante che il mondo se lo trova tatuato sulla pelle e nel sangue, con il cuore inafferrabile gremito di domande.

venerdì 23 aprile 2010

La potenza del viaggiatore

Guardando lontano
vedo la fine del mondo?
Ch'oe Pu

Da bambino facevo un gioco che consisteva nel portare quasi alla loro congiunzione le palpebre, ottenendo una visione del mondo esterno piuttosto sfocata, ai limiti dell'onirico.   “Siamo seduti sul lungolago della cittadina di Arbon, metà marzo”, asserisco, “Europa, fresco, chiesa con campanile affilato, case modello chalet, ordine e... destini spezzati da un oceano di nuvole veloci.”
Con una mano in tasca e l'altra stuzzicando le punte dei chiari capelli, Lena ascolta seguendo con occhi calmi gli scarni passanti di Frutillar mentre ciondolanti pick-up scivolano piano sull'asfalto: elefanti turbolenti che trasportano donne e uomini con sangue lontano e ricordi perduti dall'affaticamento di una nuova esistenza.
“Quando abbiamo finito i trastulli sullo spaesamento, perché non entriamo in un caffè?” dice Lena, per poi aggiungere con un sorriso divertito e corto, “solo che non ho franchi... vuoi dire che accettano pesos?”
“Proviamo in questo posto.”
Dalla finestra e attraverso il fumo limpido del caffè domino l'infinito lago Llanquihue. Sono giorni che vagabondiamo in osoqueste terre lontane, stregati dalle montagne, dai boschi,  dagli animali, incontrando persone socievoli e rispettose. Slegati dal  tempo e al di là del tempo, liberi dal giogo del fare a qualsiasi costo, affrancati dal raggiungimento dello scopo; ecco, così vogliamo trovarci ascritti.
La signora bionda del locale ci porta un vassoio di dolcetti fatti in casa. Nella tranquillità di questo caffè semivuoto di Frutillar, confortati dal caldo secco della stufa a legna, sento che presto Lena erutterà quello che aveva in mente durante il cammino.
Dopo un sorso di scuro liquido bollente, attacca: “Hai notato come la gente ci guarda quando capisce che siamo stranieri?”
“Qua siamo tutti stranieri.”
“Non proprio,” ribatte Lena, “credo che sia quella che qualcuno chiama 'La potenza del viaggiatore', un'aura costituita da mistero e conoscenza che accompagna colui che si muove libero.”
“L'ho notato spesso anch'io. E' il premio che a volte riceve il viandante dopo essere stato smascherato dalla sua non appartenenza ad un determinato luogo”. Aggiungo. “Un potere derivante dal fatto che viene da lontano, che può portare novità e creare nuovi legami, denaro e aria fresca.”
“Ma molto dipende dalla società di accoglienza, il grado di apertura, la sua ricchezza e la storia.”
“Molto dipende dal viaggiatore.”
Ancora una volta la grande vetrata della casa che pare appartenga ad un altro mondo ci propone la vista del vulcano Osorno. Oltre il lago Llanquihue, lontana ed isolata come un atollo tropicale, la montagna concede un profilo leggero, un'armonia inafferrabile; il vello candido di cui è rivestita e che quasi si tuffa negli abissi dello specchio che la sorregge,  probabilmente è stato intessuto durante i secoli per volere di un regnante mapuche, gli autentici abitanti di questi territori. I mapuches, gli araucani, loro sì.

La sera esco solo in una Puerto Varas ormai assorbita dal buio. Vago alla ricerca di un posto dove ingollare qualcosa di caldo. Sfioro senza fermarmi una serie di locali per turisti declinanti verso il lago; dribblo il pornografico casinò luccicante per entrare nella zona popolare della cittadina. In una stretta via scorgo un frutristorantino che, su una lavagna consumata dal tempo, ostenta una vistosa scritta: Oferta del día - Escalopa a lo pobre - 1800.  Senza pensarci sono già dentro. Il locale è carino ma ormai quasi vuoto perché ho fatto tardi. Ci sono solo due persone sedute ad un tavolo che stanno cantando, e uno di essi ha la chitarra. Mentre chiedo alla signora che esce dalla cucina se posso mangiare, subito i due uomini socializzano con me. Germán è il padrone del locale insieme a Julia, e Gerardo, che suona la chitarra, un amico della coppia.
A volte capita di stare sul bordo di un qualcosa e istintivamente leggervi in anticipo la situazione o lo svolgimento degli eventi; ebbene, ora ho la sensazione positiva, quasi lisergica, di un allargamento repentino dell'obbiettivo. Così, come una porta che si apre all'improvviso per trovarvi al suo interno un piacere inaspettato, vengo risucchiato dalla serata incosciente e spontanea. Con una birra luccicante davanti agli occhi e due persone ingentilite dal vino che alternano discussioni serie a sonorità appartenenti a Victor Jara, Parra e canzoni popolari oscene, la mia persona si introduce in un limpido antro di vita del Paese ospite; spettatore e partecipante unico di uno spaccato veritiero di un mondo caleidoscopico, felice di esserci perché incluso, accettato, portatore di qualcosa considerato speciale. La potenza del viaggiatore.

venerdì 2 aprile 2010

Cerchi speculari

cer

Navigo veloce tra l'aria fresca del mattino con occhi seri. Avverto ogni particella impalpabile che mi viene incontro strofinandosi su ogni parte del corpo come se la conoscessi da sempre, come se l'impressione dell'incontro etereo non fosse solo una spuria sensazione. Il vento si insinua con discreta tenacia tra i fili lunghi e sottili che mi sovrastano il capo, portando una sensazione estraniante. In realtà la mia faccia compassata cela un piacere segreto provocato dall'odore indescrivibile dell'aria che porta l'anticipo della primavera. È una felicità intima, istintuale, piena.
Mentre premo i pedali, con gli occhi semichiusi che osservano il Mondo, nella mente circola una melodia ammaliante che proviene da un gruppo norvegese; è strano, ma quando queste sonorità mi fluttuano nel cervello, e non capita di rado, le percepisco nella loro più limpida purezza, come se ogni neurone emanasse omeopaticamente la scansione precisa dell'armonia.
Troppe auto veloci sulla strada, anche se alla fine mi sembra di raggiungerle tutte. Chissà perché quel signore con la fuoriserie nera mi guarda in modo strano. Avrà qualche problema, poverino.
Sono maledettamente libero. Oggi dovrei lavorare ma forse più avanti devio a destra per il bosco e poi nel parco per continuare il libro di ieri sera: bisogna sfruttare al meglio le opportunità della vita. Così, per piacere.

Guarda quello. Va in giro con una bici nera che pare essere stata rimorchiata da una discarica di un altro mondo. Ma perché non compra un'auto? Non ha i soldi?
Aggiusto il sedile con un lieve tocco del dito mentre i miei Jaga Jazzist circolano con voluttà nello stereo nuovo e un profumo emulo-di-gardenia esce dal condizionatore. Vetri e carcassa metallica nera hanno visitato scrupolosamente ieri l'autolavaggio. Come siamo avanti con la tecnologia, ma non è roba per tutti. Fortunatamente posso permettermelo.
Sono maledettamente soddisfatto. Oggi è una bella giornata per andare veloce sul nastro d'asfalto, assaporando compulsamente i miti di libertà on the road americani... beh, se quello davanti a me accelerasse. Oh no, la coda, ancora... Ma non riescono a costruire  nuove strade in questo Paese?
Uh, ecco il tipo con la bici nera che mi ha preso e ora sorpassa con gli occhi velatamente ghignanti; nello stretto spazio concesso dalle palpebre, e per qualche secondo, due chiare iridi mi hanno fissato. Poveretto. Forse dovrei acquistare una bici anch'io. Così, per piacere.

 
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