venerdì 2 aprile 2010

Cerchi speculari

cer

Navigo veloce tra l'aria fresca del mattino con occhi seri. Avverto ogni particella impalpabile che mi viene incontro strofinandosi su ogni parte del corpo come se la conoscessi da sempre, come se l'impressione dell'incontro etereo non fosse solo una spuria sensazione. Il vento si insinua con discreta tenacia tra i fili lunghi e sottili che mi sovrastano il capo, portando una sensazione estraniante. In realtà la mia faccia compassata cela un piacere segreto provocato dall'odore indescrivibile dell'aria che porta l'anticipo della primavera. È una felicità intima, istintuale, piena.
Mentre premo i pedali, con gli occhi semichiusi che osservano il Mondo, nella mente circola una melodia ammaliante che proviene da un gruppo norvegese; è strano, ma quando queste sonorità mi fluttuano nel cervello, e non capita di rado, le percepisco nella loro più limpida purezza, come se ogni neurone emanasse omeopaticamente la scansione precisa dell'armonia.
Troppe auto veloci sulla strada, anche se alla fine mi sembra di raggiungerle tutte. Chissà perché quel signore con la fuoriserie nera mi guarda in modo strano. Avrà qualche problema, poverino.
Sono maledettamente libero. Oggi dovrei lavorare ma forse più avanti devio a destra per il bosco e poi nel parco per continuare il libro di ieri sera: bisogna sfruttare al meglio le opportunità della vita. Così, per piacere.

Guarda quello. Va in giro con una bici nera che pare essere stata rimorchiata da una discarica di un altro mondo. Ma perché non compra un'auto? Non ha i soldi?
Aggiusto il sedile con un lieve tocco del dito mentre i miei Jaga Jazzist circolano con voluttà nello stereo nuovo e un profumo emulo-di-gardenia esce dal condizionatore. Vetri e carcassa metallica nera hanno visitato scrupolosamente ieri l'autolavaggio. Come siamo avanti con la tecnologia, ma non è roba per tutti. Fortunatamente posso permettermelo.
Sono maledettamente soddisfatto. Oggi è una bella giornata per andare veloce sul nastro d'asfalto, assaporando compulsamente i miti di libertà on the road americani... beh, se quello davanti a me accelerasse. Oh no, la coda, ancora... Ma non riescono a costruire  nuove strade in questo Paese?
Uh, ecco il tipo con la bici nera che mi ha preso e ora sorpassa con gli occhi velatamente ghignanti; nello stretto spazio concesso dalle palpebre, e per qualche secondo, due chiare iridi mi hanno fissato. Poveretto. Forse dovrei acquistare una bici anch'io. Così, per piacere.

venerdì 19 marzo 2010

Il silenzio del girovago

Si siede su una roccia scura. Un lampo mi fa intuire che la sua attenzione volteggia rapida nell'orizzonte aperto. Riscaldato da un sole distratto, faccio galleggiare i sensi sulle acque increspate che pare non terminino mai, per poi alzare lo sguardo verso lontane montagne boscose e scure. Sento che tira fuori dallo zaino verde la macchina e scatta lentamente qualche foto.
Nel silenzio gonfio di qualche richiamo di uccelli, con una voce che pare non appartenga a lei, chiede “Cosa facciamo qui?”
Non capendo se è una domanda rivolta a me o a se stessa, muovo leggermente il capo verso Lena, ma non arrivo al suo volto. Dopo questo inutile gesto torno nella posizione primigenia, di fronte alle acque del lago Llanquihue.

Ci siamo conosciuti tre giorni fa nell'hostal Hellwig, in una giornata dove sole, grandine, pioggia e tonalità di luce passavano con uno stormo di volatili marini. Ero appena arrivato dalla costa est e, mentre il custode dell'hospedaje mi mostrava la stanza, l'ho vista seduta sul divano consumato del primo piano mentre leggeva una guida. Ha alzato gli occhi chiari e poi ha sorriso lievemente mentre con la mano stuzzicava le punte dei capelli lisci ancora umidi per la pioggia.

Dopo qualche minuto di vuoto carico, riempito dal fruscio leggero delle piccole foglie di coihue, mormoro “Ma lo chiedi...”
“Non intendi cosa voglio dire?”
Mi giro verso la sua magra figura, questa volta trovando i suoi occhi spaesanti “Sì, Lena, ma è difficile rispondere...”
Lei mi guarda con iridi che sembrano appena fuoriuscite dal recondito più intimo del lago. 1q
Perché questa domanda proprio adesso? Mi pone uno dei quesiti focali che incontra il viaggiatore durante la cavalcata libera dentro i mondi. Nell'esperienza del movimento che sviluppa autonomia, la possibilità di creare spazi personali e di riflessione aumenta, non solo perché il tempo slegato si dilata, ma anche perché la diversità di colui che girovaga impone considerazioni necessarie e immediate su se stessi e quello che lo circonda.
Siamo qui vicini, in questa porzione di Mondo immenso, con il cielo il lago gli animali gli alberi, e le nostre vite piacevolmente affaticate dall'alterità. 'L'argilla è immobile, ma il sangue è randagio. Il respiro è merce che non si conserva', scrive Housman con una prosa che mi toglie il fiato; devo assolutamente raccontarla a Lena mentre ci tiriamo delle capsule di piante sconosciute sulla sabbia vulcanica. Lanciando questi circolari contenitori di vita ormai liberi dal seme, con i polmoni pieni di aromi e di vento, e i corpi abbagliati dal vulcano dominante, capisco che le parole sono inutili: il silenzio della consapevolezza ha risposto.

Uccelli bianchi si posano lontani sul lago il cui colore mutevole volta per volta viene forgiato da nuvole e sole, mentre la brezza ci porta l'odore del maestoso Osorno. Mangiamo bevendo birra sulla sabbia grigia del lago Llanquihue. Non c'è alcun turista nello sfiorito inverno australe della Región X; solo due stranieri che alternano silenzi a momenti giocosi, quasi mimando il tempo che li avvolge.
Da un villaggio vicino percorriamo il sentiero nel mezzo del bosco che ci porta alle lagune, piccole pozze di acqua verde che confluiscono nel lago: gemme segrete celate da fitte essenze sempreverdi, dove il vento è alieno e gli animali svernano liberi. Proseguendo la strada sterrata, imbocchiamo il percorso che porta all'Osorno. Il paesaggio è costellato da bitorzolute rocce scure foderate di muschio, e da alberi con tronchi graffiati dall'umidità che aggrappano la loro vita all'impervio terreno. 2s Dopo un'ora di cammino siamo quasi ai piedi della montagna che da tutti questi giorni ci ammalia: il vulcano Osorno. Esso cela parte della sua possanza dietro lesti conglomerati nuvolosi, mostrandosi ogni volta differente. Lena mi chiede di fermarci per poterlo catturare meglio. Rimaniamo in questa posizione a lungo, affascinati dall'impossibile disvelamento della montagna innevata, quando improvvisamente Lena mi tocca il braccio, indicando un punto in alto. È lontanissimo, eppure entrambi sappiamo che quell'apertura alare, il lungo collo, non possono che appartenere al gigante del cielo, il condor. Osserviamo il volatile penetrare  strati di bianco leggero, per poi dileguarsi nei meandri infiniti dell'aria.

venerdì 5 marzo 2010

Il viaggio che purifica

Scorro verso il basso. L'immensa Panamericana si dispiega ancora, centellinando le sue più meridionali estremità e offrendomi visioni senza fine costituite da praterie, boschi di eucalipti intercalati da composti frutteti. Ho compiuto duecento chilometri e il paesaggio sta mutando: niente più agrumi, i quali cedono il passo al frumento e all'allevamento estensivo del bestiame. È sufficiente volgere il capo a sinistra per osservare lo scivolio costante di montagne sempre più innevate: ammiro a lungo il loro colore pieno, totale, cangiante, che le fa apparire ancora più imponenti.
Avvolto nella coperta azzurro-verde della Tur-Bus, questa mattina ho varcato la linea invisibile che mi ha condotto nella Región IX. L'Araucanía è qua attorno a me, dentro di me. “Eccomi”, mi sono detto con la fierezza potente di colui che è in movimento. Lontano dallo scopo, fuori dalla meta, alla ricerca di un qualcosa inafferrabile in continua evoluzione: la strada, l'alterità, l'io.  
Dopo un cambio nella assopita e squadrata Temuco, il bus Jac mi traghetta verso Pucón. Il momento si avvicina. Lo so, tra poco arriva... sì, adesso lo posso vedere.
Nonostante la preparazione, l'immaginazione viene ancora scavalcata in avanti dalla Natura: conico, perfetto, bianco dalle volc2 pendici fino al suo vigoroso culmine; una parte non meglio definibile della cima sbuffa pigre ondate di vapore tra le nuvole zuccherose che veleggiano alte. Assaporo l'impossibilità di descrivere meglio il vulcano Pucón e l'assenza di intelligibilità che esso offre: una imperscrutabilità a cui mi adatto serenamente. Credo di non aver gustato mai nulla di meglio.
Fuori dal Terminal degli autobus visito un paio di hostales economici,  optando per quello che mi ispira maggiormente. È gestito da una coppia notevole: lui biondo, appassionato, con cognome tedesco, lei è una peruviana dai modi cortesi e fini.
Esco quasi subito nel cielo punteggiato di bianco, nell'aria fresca leggermente aromatica della Araucanía. La cittadina è ordinata, con ville, case per turisti e il centro declinante verso il lago. Seduto sulla sabbia scura, in pace, stupefatto, ammiro il vulcano che si specchia nelle tranquille acque lacustri le quali sfidano vincenti la leggera brezza che circola impertinente. Tutt'intorno vigilano boscose montagne tinteggiate di un bianco lieve.

Il giorno dopo prendo un micro bus che mi conduce verso l'interno montagnoso. Il cielo porta nuvole umide dall'Oceano ma non concede loro la pioggia. Mi fermo all'imbocco di un sentiero. Ai lati ci sono statuarie catene montuose che preservano l'ampia valle ondulata, rigogliosa di boschi e prati. Chiazze di neve resistono nelle zone in ombra. Cammino piano osservando e annusando quello che mi circonda. Ora incontro pecore che strappano filamenti di erba giallastra, poi sparute case dai comignoli fumanti. Voltando il capo ritrovo la massa del vulcano Pucón: sembra che l'ancestrale silenzio soffiato nella valle sia impresso dalla sua presenza. Ancora qualche chilometro perpais sentieri e strade sterrate e raggiungo l'area delle pozze di acqua calda, los Pozones, semplici piscine all'aria aperta che racchiudono l'acqua proveniente dal sottosuolo.
Vago tra le pozze d'acqua termale nudo, solo, attraversando climi proibitivi ed incarnando alla perfezione le metafore del viaggio ma anche quelle della natura umana. Fuori c'è la neve morente, dentro, nell'acqua, la temperatura supera i quaranta gradi; due condizioni insostenibili che però riescono a compenetrarsi, due stati dove il corpo e la mente vengono messi alla prova. Dopo qualche immersione scelgo di rimanere fuori il più possibile, camminando lentamente tra le piscine vuote. Le braccia avvolgono spasmodicamente il petto tempestato dai brividi ma continuo questa strana e spontanea sfida con l'ambiente. Spogliato dai vestiti e dalle cose, con il luccichio dell'acqua negli occhi e la rifrazione della neve sul corpo, sotto il cielo e i monti dell'America australe, trovo parte dell'essenzialità perduta.
L'accogliente acqua manda odori sulfurei, di terra e minerali. Rivoli caldi confluiscono in un torrente di montagna ricco di pietre levigate. Tolgo le ciabatte dai piedi con difficoltà. Come in un battesimo risolutivo immetto la mia nudità tremante e randagia nel liquido vaporoso, ponendo termine alle sofferenze provocate dal freddo, per accoglierne altre.

martedì 9 febbraio 2010

Il cielo del viandante

“Buon giorno, ha un cuarto libero?” “Sì, per una persona.” “C'è il riscaldamento? Ah, è nel corridoio esterno...”
Le dodici del mattino e le iridi spaziano verso l'alto. Il cielo delle pianure d'America è sempre definitivo. Nuvole verginali come veli di fine tessuto esotico, filamenti rettilinei o incredibilmente contorti, onde anarchiche sparse a caso e lame perfette che tagliano il turchino intenso che veglia oltre con sicuro vigore. Conglomerati imponenti che sembrano prepararsi alla battaglia finale da un momento all'altro e minuti batuffoli vaganti solitari, in cerca del segreto profondo cieldell'aria. Gli occhi si perdono seguendo questa costante mobilità, cercando di assecondarla nelle sue evoluzioni, con poco successo. Anche in una giornata di bassa pressione con una cappa grigia sopra il capo è raro non osservare delle portentose combinazioni in cielo.  Ampi spazi, la Natura, venti e correnti, temperature e oceani contribuiscono a modellare la tavolozza che si trova sopra di me. Cirri maestosi, invadenti e sbeffeggianti dominano la panchina dell'alberata plaza de Armas mentre il disco solare mi abbaglia. Dopo essere uscito dalla stanza presso l'hostal Libertad sono qui, accucciato ad osservare il cielo ed il movimento cittadino. È una giornata soleggiata con temperature accettabili e l'aria frizzante odora di montagna.
Un ragazzino si siede accanto a me e mi osserva mentre guardo il cielo.
"Cosa stai guardando?", mi chiede.
"Le nuvole".
Dopo aver scambiato qualche parola mi domanda cosa faccio in questo posto.
"Viaggio", rispondo dopo un attimo di esitazione, in modo superficiale, quasi evitando di farmi carpire un segreto intimo e impossibile.
“E perché viaggi?”, mi incalza lesto il ragazzino con i capelli a spazzola la cui attaccatura scura quasi lambisce le folte sopracciglia che paiono tinte di lucido nero.
Incertezza. Se riuscissi, potrei rispondere come J. Donne 'Vivere in una sola terra è prigionia', oppure 'Fuggo dalla necessità e dallo scopo', come scrive Leed. Invece spiattello un semplice, tautologico e definitivo “Porque me gusta, oye(s)”.
Mi piace il tempo dedicato alla propria persona, l'uscire da ciò che definisce, l'adattamento e la lunga fatica che purifica, freddo-caldo-infinito e... incorporare la strada che si muove. Ci sarebbero molte altre motivazioni ma non posso raccontarti tutto questo, ragazzino, non riuscirei in questo momento e forse non capiresti subito. Sono attitudini intime, segmenti stratificati e profondi, vissuti, di difficile esposizione.
Il bambino lascia la panchina del centro di Chillán, Regione VIII.
Sono in continua e costante discesa; dal bus proveniente da nord ho visto in lontananza e sulla sinistra le cime innevate che costeggiano il confine argentino.
Nella piazza passano sferragliando furgoncini anni settanta, scolari in divisa, turisti locali che sotto la spavalderia celano l'eccitazione provocata dal tempo liberato e dal suo sapiente utilizzo, impiegati e qualche senza fissa dimora alla ricerca di vino economico.
Il mattino sta impregnandosi di giallo quando cammino veloce verso il mercato cittadino, dove partono i bus per le Terme.  Le giornate sono sempre più corte. Nell'automezzo mi fanno compagnia locali dai volti rugosi e seri, turisti in vistose tenute da volcsci e bambini rumorosi. Dopo mezz'ora di viaggio il panorama si ispessisce: oltre le colline troneggiano le Ande innevate. Mi  sveglio definitivamente per l'eccitazione quando, dopo una curva, appare in tutta la sua possanza il vulcano Chillán. Chiedo conferma all'uomo di mezza età dai tratti indigeni che è seduto accanto a me. Anche se viene leggermente celato da altre vette, è proprio lui. Una indistinta massa verde scuro composta da pini, cipressacee, faggi e coihues siede vigilante ai piedi del vulcano come rigogliosi totem indiani Mapuche. 
La strada asfaltata sale con costanza. Giunti presso un villaggio costituito da qualche casa e sparsi luoghi di ristoro, il bus si ferma per qualche istante. A lato dell'asfalto decine di uomini in pick-up aspettano le auto dei turisti per noleggiare loro le catene da neve. chill Il nostro bus sale veloce per il bosco dopo aver lasciato le ultime alte pianure a pascolo. Aria e cielo dell'Ovest entrano dal finestrino leggermente aperto davanti a me. Respiro forte l'aroma tonificante degli alberi fratelli mentre la strada mi porta in avanti ed in alto.
 
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